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Autore: Claudio Rossi
Carthago Nova
Avventura Storico
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Carthago Nova

Filippi.
Le grida di migliaia di uomini, mescolate al cozzare di ferro contro ferro, erano diventate un solo boato e l'odore di sudore e il dolciastro del sangue ormai erano ovunque.
Lo scontro tra i due eserciti, non meno di diciassette legioni per parte schierate in quelli che fino a pochi mesi prima erano stati pascoli o campi di grano, era iniziato poco dopo l'ora sesta. Non era nemmeno stato preceduto da quelle provocazioni, gettate ad arte da soldati appositamente istruiti, che di solito infiammano le schiere poco prima che vengano a battaglia.
Bruto aveva fretta di combattere, non poteva più perdere nemmeno un istante: a mano a mano che le ore passavano il suo esercito si indeboliva. Due ore prima alcuni reparti in disaccordo con lo stato maggiore si erano ritirati dal campo di battaglia, rifiutandosi di scendere in combattimento.
Gli schieramenti avevano dato inizio alla carneficina su un fronte di quasi tre miglia che si stendeva tra la Via Egnatia e gli acquitrini che occupavano la parte più bassa della piana di Filippi.
In pochi istanti gli scontri giunsero al culmine: anche i triumviri fremevano per chiudere il conto con i cesaricidi, e Marco Antonio aveva dato ordine di incunearsi il più rapidamente possibile nel fronte avversario per evitare che la battaglia si trasformasse in una guerra di posizione.
L'ondeggiamento della linea su cui i due eserciti si fronteggiavano stava lasciando sul campo da entrambe le parti, insieme a feriti e morti calpestati dai compagni, pozze di sangue e budella di uomini e animali. Non appena la brezza si fermava l'odore del sangue prendeva il sopravvento su quello dello sterco degli animali e del sudore degli uomini.
Bruto aveva dato ascolto a degli ufficiali pavidi e aveva disteso le truppe su un fronte lunghissimo per rendere impossibile all'esercito dei triumviri ogni tentativo di aggiramento. Una tattica difensiva che rischiava di dare frutti velenosi.
L'attacco del reparto di punta di Marco Antonio si era sviluppato, fin dal primo scontro, in alcuni campi in cui ancora biancheggiava la paglia del grano: in quel punto lo schieramento dei legionari avversari era sembrato più esile, e il terreno era adatto a un attacco di cavalleria.
Uno dei tribuni di Marco Antonio, infatti, un giovane dalla vista acuta e particolarmente attento, si era accorto dalle differenze delle divise e degli scudi che proprio nel bel mezzo di quei campi Bruto aveva dispiegato, fianco a fianco, legioni provenienti da province diverse. Il minore affiatamento e la mancanza di coordinazione che spesso si verificano quando si schierano uomini non allenati a muoversi insieme poteva essere sfruttato per creare un varco.
Su quel terreno, dalla parte dei cesaricidi, erano schierate le sei centurie di Giulio Valerio Longino, un tribuno di una quarantina d'anni dalla figura prestante, senza nemmeno un capello bianco che gli guastasse la capigliatura castana e la barba. Proveniva da una famiglia benestante, ma non aveva nulla dei giovani patrizi che negli ultimi anni avevano ottenuto incarichi di rilievo nell'esercito. Dall'alto del suo cavallo controllava i centurioni e i legionari con lo sguardo sicuro di chi è abituato a comandare e a decidere in un istante se andare fino in fondo. Si era fatto strada senza i favori di nessuno, e la nomina a tribuno se l'era guadagnata combattendo nelle legioni di Cesare sotto Cornelio Floro, a Ilerda.
Sapeva che la linea del fronte era eccessivamente lunga, lo sapevano tutti, e le ali erano i punti in cui più facilmente poteva concentrarsi un'azione di sfondamento. E non a caso proprio al limitare del suo schieramento si accanì la prima carica della cavalleria di Marco Antonio, seguita immediatamente da una seconda: la coorte di Longino e quella che si trovava al suo fianco, un reparto di ausiliari della Provincia d'Asia della XXVII legione, ressero l'impeto, ma sul terreno rimasero uomini e cavalli, morti e feriti in un groviglio urlante e sanguinolento.
Il terzo assalto invece fu condotto da un drappello disposto a cuneo: stavolta schierava sul fronte una ventina di cavalieri bardati con larghe corazze che proteggevano sia le gambe dell'uomo che i fianchi e il collo del cavallo.
L'impeto di quei cavalieri sfondò la linea di difesa calpestando i legionari, incapaci di reggere alla valanga di ferro, ma non riuscì a spezzare del tutto lo schieramento e a portarsi alle sue spalle.
Alla cavalleria di Marco Antonio erano bastate tre cariche per mettere a dura prova l'ala della linea avversaria, formata da appena dieci file di legionari.
«Proveranno di nuovo a tagliarci fuori, tribuno!», gridò in quell'istante il centurione Cetego, un esperto cinquantenne che si era guadagnato in battaglia il grado di primus pilus e da anni era agli ordini di Longino: aveva visto a cento passi la cavalleria dell'esercito dei triumviri intenta a preparare una nuova carica, sempre con quel gruppo di cavalieri pesantemente protetti dalle corazze.
«Stringi gli uomini della prima linea!», giunse il grido del tribuno Marco Giulio Silo dalla coorte adiacente. Longino gli fece eco: «Chiudete il muro! Via i feriti! Cetego, sposta una centuria sulla destra! Legatevi a quegli imbecilli della XXVII!».
La coorte di Valerio Longino, già provata dalle prime cariche, difficilmente sarebbe stata in grado di fronteggiare da sola il gruppo di cavalieri che si stava preparando per una nuova carica.
«Serrare le file!», gridò Longino, alzando le mani strette a pugno, visto che nella calca e tra le urla era ormai difficile udirsi a un passo di distanza. «Di spalla contro la prima fila! Fuori le lance! La seconda e la terza fila reggano da dietro!» gridò al centurione Cetego, che era insieme al signifero nella seconda schiera.
Il centurione gridò a sua volta gli ordini, e la formazione si compattò dietro gli scudi mentre la seconda e la terza fila puntellavano gli uomini che stavano loro davanti per opporre la massima resistenza al nemico.
La cavalleria sembrò rinunciare all'attacco, e la fanteria avversaria, prontamente richiusasi, impegnò il combattimento con la coorte di Longino. Dall'alto del cavallo il tribuno vedeva tutto ciò che accadeva sulla prima linea, appena pochi passi dinanzi a lui: i colpi portati a segno creavano vuoti nella schiera, e gli uomini feriti o uccisi venivano inghiottiti dalla massa urlante. Qualche pilum cadeva a casaccio, forse miravano proprio ai tribuni, e in quell'istante un legionario con cui aveva parlato appena un'ora prima, si volse di scatto verso di lui, la bocca aperta, trapassato mortalmente da un giavellotto.
La legione di Marco Antonio che era schierata di fronte non rallentava il ritmo; gli uomini della prima linea continuavano a cadere da entrambe le parti, trafitti o feriti da colpi di gladio inferti di punta attraverso i pochi spazi rimasti tra uno scudo e l'altro. Le formazioni che si scontravano erano troppo simili per armamento e tecnica di combattimento, e lo scontro minacciava di durare fino al logoramento.
«Non indietreggiate!» gridò al centurione Cetego quando lo vide colpito da uno schizzo di sangue. Non era sangue suo, comunque, e il centurione continuò a portare colpi bassi cercando di infilare il gladio negli stretti varchi che gli si presentavano tra gli scudi. Stava ottenendo qualche risultato, e un avversario di fronte a lui proprio in quell'istante rovesciò la testa prima di sparire inghiottito dalla calca.
Ma un nuovo rumore stava crescendo tra i combattenti della schiera avversaria. Dapprima appena percepibile nel fragore della battaglia, infine divenne un vociare diffuso: il nemico si era accorto che la coorte di Longino era serrata in difesa per timore della cavalleria; era una manovra adatta a guadagnare tempo e a limitare i danni, ma che non avrebbe mai potuto trasformarsi in un contrattacco. Uomini esperti di combattimento sapevano che una chiusura del genere non aveva possibilità di invertire le sorti del confronto che stava volgendo, per quanto lentamente, a favore dell'attaccante.
Tuttavia, né il tribuno Longino né il suo collega Marco Giulio Silo avrebbero potuto prendere l'iniziativa di attaccare senza l'intervento degli uomini della riserva e, soprattutto, senza l'ordine di un superiore, vanificando il coordinamento e facendo sbandare l'intero schieramento.
Il comandante dell'ala sinistra, il legato Cornelio Floro, era stato portato via ferito durante i primissimi istanti dello scontro. A lui solo spettava dare quell'ordine, o allo stato maggiore di Bruto.
Nel frattempo, il passaparola tra i legionari dei triumviri, che avevano notato la manovra di chiusura in difesa degli avversari, si stava trasformando in uno strepito di offese e di fischi.
In quell'istante, senza nessun segno premonitore, la fanteria di Marco Antonio si aprì e la cavalleria attaccò con decisione, iniziando a far scempio sia della coorte di Longino che degli ausiliari della XXVII legione che le stavano a fianco.
Il tribuno cercò con gli occhi Cetego, quindi gli altri centurioni. Riuscì ad individuarne altri tre dalla cresta rossa sull'elmo, e fece loro il segno del pugno chiuso. Ma tutti scossero il capo. A malapena erano in grado di fronteggiare la fanteria avversaria; non erano in grado di aumentare il ritmo forsennato del combattimento. La coorte di Valerio Longino, e tutta la XXXI legione a cui apparteneva, non potevano rintuzzare contemporaneamente la fanteria avversaria e la carica della cavalleria al fianco.
«Serrare a destra! Tutti insieme!», gridò Longino, e il suo ordine venne trasmesso prontamente dai segnalatori. Sul fianco destro la valanga dei cavalieri corazzati aveva creato il vuoto; una ventina di legionari giacevano a terra gravemente feriti o urlanti: chi non veniva finito dalle lance della cavalleria era calpestato dai castroni da guerra, cavalli attrezzati con grandi zoccoli di ferro irti di chiodi. Nonostante il polverone che confondeva la visuale del campo di battaglia, Longino vide che alle spalle dei cavalieri impegnati sulla prima linea stava prendendo posizione un secondo reparto di cavalleria. Non avrebbero permesso che le truppe di Bruto si richiudessero nel punto in cui erano stati fatti i danni maggiori.
Mentre i suoi legionari cadevano senza sosta sulla linea frontale, e altri pagavano un terribile prezzo alla cavalleria sul lato destro, per Giulio Valerio Longino la possibilità di ricompattarsi col grosso dell'esercito di Bruto e la XXVII legione, da cui ormai era stato separato, divenne impossibile.
Li stavano massacrando. Nulla e nessuno avrebbe più potuto cambiare quella realtà.
Longino, a cavallo alle spalle dello schieramento, controllò dove fossero i centurioni in attesa di un suo comando. Si consultò con uno sguardo col suo collega Marco Giulio Silo: gli fece il segno delle due dita in avanti, quello dell'attacco.
Silo rispose scuotendo la testa. Non c'era più tempo. Erano in difficoltà a contenere la schiera che stava loro davanti: in nessun modo avrebbero potuto tentare una reazione, e meno che mai un contrattacco.
La linea aveva iniziato a ondeggiare, i primi cavalieri passati alle loro spalle stavano già massacrando i legionari dell'ultima fila. Longino si gettò col proprio cavallo contro il più infiammato degli attaccanti e lo fece cadere a terra insieme al cavallo, dove venne prontamente trafitto da un legionario. Ma troppi cavalieri stavano arrivando dietro di lui ed era come tentare di arginare la rotta di un fiume in piena.
Era già troppo tardi. Guardò ovunque intorno a sé: i suoi uomini stavano cadendo uno dopo l'altro trafitti dalle lance dei cavalieri.
Postosi bene in vista degli ufficiali avversari, il tribuno Longino alzò la mano destra disarmata, a chiedere una tregua per i suoi uomini. I centurioni già si aspettavano quel segno e senza attendere oltre ordinarono ai vessilliferi di abbassare le insegne.
Non appena il primo vessillo fu a terra, dalle file avversarie si alzò un boato di esultanza. Si propagò subito a tutta la linea del fronte come una folata di vento, rinvigorendo l'attacco che già stava facendo arretrare le legioni di Bruto anche in altri settori.
I cesaricidi, infatti, nel frattempo, avevano iniziato il ripiegamento verso le colline sovrastanti Filippi, alle spalle delle
linee di difesa.
Marco Antonio, a cavallo insieme ad alcuni ufficiali a un centinaio di passi dalla prima linea, diede ordine ai segnalatori che una coorte si infilasse nel varco aperto dalla cavalleria.
Pochi istanti dopo tutti gli stendardi della XXXI legione erano a terra e i combattimenti in quel settore si spensero di colpo, mentre il clamore del ferro sembrava spostarsi a settentrione, all'altro capo dell'inutile linea trincerata posta di traverso alla piana di Filippi fin dentro a impervi acquitrini.
Era il decimo giorno alle calende di novembre, e quando nelle prime ore del pomeriggio della luminosa e tiepida giornata il boato di grida si alzò dallo schieramento dei triumviri, per i cesaricidi la battaglia era perduta.

Claudio Rossi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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