I. Seleucia di Pieria. Era in corso un'invasione e nulla era più pericoloso del rimanere imbottigliati in una città prossima ad essere saccheggiata dai parti. E quella era la sorte che ben presto sarebbe toccata a Seleucia. Avevo l'ordine di imbarcarmi sulla prima nave in partenza diretta a Roma, ma qualunque destinazione sarebbe stata benaccetta pur di allontanarsi da Seleucia. Mi accompagnava il mio segretario, il liberto greco con cui da anni prestavo servizio come agrimensore civile aggregato al Genio. Avevamo trovato posto su una trireme di recente costruzione e con pochi anni di servizio che conservava ancora l'odore della resina del legno insieme a quello acre della pece. Portava l'altisonante nome di ‘Messapo Invulnerabile'. Erano però già trascorsi un giorno e una notte da quando eravamo saliti a bordo senza che giungesse l'ordine di sciogliere gli ormeggi. I moli su cui posavo lo sguardo, a pochi passi di distanza, erano affollati da civili spaventati, famiglie con donne, bambini e fagotti, che cercavano con ogni mezzo di salire su una nave per fuggire dalla Siria. Erano tenuti a bada da una linea di legionari coi gladi sguainati che avevano già frenato nel sangue due tentativi di salire su una nave militare. Un uomo giaceva a terra ferito e nessuno si curava di lui. Gli ordini secchi abbaiati da un centurione lasciavano intendere che nessun civile sarebbe mai riuscito a salire su una nave della flotta. Alla trireme mancava solo l'ordine della partenza, ma per quanto scrutassi a destra e sinistra non si vedeva giungere il tesserario che avrebbe dovuto consegnarlo. I marinai non erano meno preoccupati di me: qualcuno aveva detto che le avanguardie dei parti erano già arrivate ad Antiochia, a poche miglia di distanza. Non avrebbero messo in stato d'assedio quella città senza prima saccheggiare l'abitato e il porto di Seleucia, da cui truppe romane potevano sottrarsi alla cattura, o in cui potevano giungere in soccorso nuove legioni. Il prefetto Lucio Helvio, un ometto sulla cinquantina quasi calvo e con una certa pinguedine, si era imbarcato insieme a me il giorno precedente e da allora eravamo rimasti sul ponte in paziente attesa dell'ordine di partire. Indossava una spessa veste da viaggio e alla cintola portava un rotolo di cuoio rigonfio, dall'aspetto pesante, in cui forse conservava del denaro. Avevo notato che non mollava nemmeno per un istante una voluminosa cartella di cuoio. Forse conteneva dei documenti importanti che non si fidava a far custodire al suo servo, uno smilzo siriano dallo sguardo sfuggente che avevo intravisto con la coda dell'occhio; appena a bordo era sparito nel profondo della stiva. Il prefetto, vedendo che il segretario ed io eravamo gli unici civili oltre a lui e al servo, mi aveva rivolto uno sguardo indagatore a cui avevo ritenuto opportuno rispondere, accennando al mio incarico di agrimensore. Ora, appoggiato al parapetto della nave a un passo da me, fissava con lo sguardo inquieto i civili in fermento sul molo. Che le cose andassero davvero male non era difficile indovinarlo: un brusìo spento si era sostituito al vociare degli uomini di fatica che scaricano le merci, ed era del tutto assente l'andirivieni di facchini e carretti sui pontili. «Questa gente è disposta ad accettare un imbarco qualsiasi pur di andarsene» disse il prefetto a bassa voce. «Già...» risposi, «ma non c'è più nemmeno una nave oneraria che possa accoglierli. Quelle si sono dileguate alle prime avvisaglie, quando si era diffusa la voce che i parti stavano attraversando l'Eufrate.» A un passo da noi un marinaio a occhi sgranati stava indicando a un collega il fumo che si levava tra le colline, all'incirca dove doveva trovarsi Antiochia. «Mi dicesti che tu e il tuo servo siete agrimensori civili», continuò il prefetto; «avete idea di quanto tempo impiegherà la soldataglia dei parti ad arrivare qui?» «È difficile fare previsioni su spostamenti di truppe che provengono dall'Osroene e dall'Eufrate. Conosco quella strada per averla percorsa l'anno scorso, e posso dirti che le carovane e i legionari in marcia impiegano sette giorni dall'Eufrate ad Antiochia. Ma se i parti dispongono di una buona cavalleria e magari hanno qualche ragione per affrettarsi, possono impiegare la metà di quel tempo.» «Già... capisco... è quello che crede anche il trierarca. E comunque i messaggeri che qualche giorno fa hanno visto l'esercito partico all'Eufrate hanno speso a loro volta dei giorni di viaggio per raggiungere Antiochia... per cui quei furfanti potrebbero presentarsi qui da un momento all'altro!» «Temo che sia così, prefetto. Purtroppo l'ordine di partenza per la nostra nave tarda a giungere, nonostante una dozzina di marinai tenga sgombra la porta della città sperando di vederne uscire il tesserario con la lettera. Le altre triremi che ingombrano il porto non sono messe meglio.» Il prefetto sbuffò facendosi ombra con la mano per scrutare l'androne buio della porta della città da cui doveva uscire il messaggero. «Se sei un agrimensore civile come hai fatto a finire ad Antiochia con l'esercito?» domandò con poca partecipazione, giusto per ingannare il tempo. «Sono aggregato al Genio, lavoro su strade e fortificazioni, o su progetti di rifacimento di mura difensive» risposi, evitando di accennare alle operazioni militari che l'anno precedente mi avevano condotto in Siria. «Ho servito anche in Giudea con il mio segretario, il liberto Hicesius, che mi aiuta con i calcoli matematici.» Il liberto, un uomo sulla sessantina di origine greca e dall'aspetto smilzo, simile in apparenza a uno scrivano o un maestro di scuola, si fece avanti precisando con vocetta petulante: «Alcuni anni fa in Italia ci occupavamo anche di centuriazioni per i veterani, ma da anni ormai il nostro lavoro è richiesto per fortificazioni e presìdi militari». «È ovvio» annuì il prefetto con l'aria di chi la sa lunga. «Cesare è stato talmente veloce nelle sue conquiste che ci vorranno decenni di lavori per trasformare quelle terre di barbari in vere province romane. Quindi ora avete finito la vostra ferma e ve ne state tornando a Roma... avrete dei sesterzi da spendere e vi darete ai bagordi!» «No, prefetto» sorrisi. «Io non sono amante delle compagnie chiassose e delle mescite di vino... e il greco Hicesius è un erudito, spende tutto il suo tempo libero nella ricerca di opere letterarie». In uno di quegli eccessi di familiarità che solo nei momenti difficili accumuna gli uomini che hanno cariche pubbliche ai subalterni, il prefetto aggiunse: «Beati voi che non avete nulla da fare! Io purtroppo non posso dire altrettanto, gravi questioni mi attendono a Roma. Ero prefetto a Rhosos, di sicuro conoscerai l'importanza del suo porto. Ormai ho terminato il mandato, e non puoi immaginare quante seccature comporti questa carica che alcuni, a torto, ritengono ricca di onori.» La città di Rhosos non l'avevo mai udita nominare, e il prefetto Helvio a giudicare dal portamento doveva provenire dall'ordine equestre. Molti arricchiti che non amavano le armi e le imprese militari avevano trovato spazio in cariche civili in città grandi e piccole in cui coltivavano il fertile terreno dell'immensa burocrazia. «Capisco il tuo punto di vista, prefetto» convenni per non contrariarlo, mentre allungavo il collo per cercare di vedere meglio tra la folla assiepata sul molo, in allarme per qualcosa che ancora non si distingueva. «Noi a Roma non entreremo nemmeno» continuai. «Non abbiamo nessuna missione da compiere, e ci fermeremo a Ostia. Dobbiamo imbarcarci sulla prima nave diretta a Massalia o ad Arelate, nella Narbonense. Mi sono stati consegnati gli ordini tre giorni fa.» «Ah... per prendere servizio, capisco. Però vorrei sapere cosa sta accadendo sul molo: quella gente con i fagotti si sta muovendo e guardano verso le mura.» A fare eco alle sue parole un legionario si fece strada tra la folla e guadagnò lestamente la passerella della nave. Corse a presentarsi al trierarca e lo vidi consegnare una lettera. Il comandante della nave, accigliato, in un istante lesse le poche righe e fece un segno al decurione, che a sua volta stese il braccio indicando le funi di ormeggio. «È l'ordine!» sorrise il prefetto. «Finalmente questa funesta attesa è finita... tra pochi giorni saremo a Roma!» Accompagnati dal mormorio di sconforto dei civili assiepati sul molo, trattenuti dal cordone di legionari, i marinai sciolsero gli ormeggi e la nave, trainata da una barca con otto rematori, cominciò a manovrare tra una ventina di altre triremi alla fonda in attesa del medesimo ordine. Da quelle navi gli sguardi perplessi di molti marinai ci seguirono e il liberto Hicesius, sollevato dai neri pensieri che aveva covato nelle ultime ore, si passò la mano sui radi capelli che ormai avevano perso ogni traccia degli oli profumati di cui, per civetteria, faceva uso. «È finita, Quintilio» mi mormorò all'orecchio, «ora ne siamo fuori e non sentiremo più parlare né dei parti né dell'Eufrate.» «Speriamo che sia la volta buona!» borbottai. La nave, al traino della barca a remi, si era ormai districata dalle triremi all'ormeggio e davanti a noi si apriva il mare aperto. Il prefetto Helvio mi rivolse uno sguardo soddisfatto, da superiore a sottoposto ora che le cose erano sistemate; mancò poco che si sciogliesse in uno di quei benevoli sorrisi con cui chi comanda a volte gratifica la bassa forza. L'occhio mi cadde di nuovo sulla sua cartella: da come la stringeva mi venne il sospetto che non portasse papiri per qualche Comando, ma forse denaro rastrellato durante il mandato.
II. Appena fuori dai moli che cingevano il porto la nave incontrò le onde del mare aperto e iniziò a beccheggiare violentemente. Il trierarca, ordinato il recupero della fune di traino, fece sciogliere la vela e ‘Messapo Invulnerabile' sotto la spinta del vento iniziò a lottare con i flutti. Il greco Hicesius vedendo la terra che si allontanava alle nostre spalle sospirò di soddisfazione; invece a me l'esser riusciti a togliersi da Seleucia aveva risvegliato l'appetito, per cui gli dissi: «Andiamo a dare un'occhiata nel sottoponte, forse troviamo qualcosa da mangiare, ho sentito odore di cucina.» «Credo che abbiano già iniziato a preparare il rancio», rispose, «certamente questi marinai dovranno mangiare per poter fare il loro lavoro.» Anche altri avevano avuto la nostra stessa idea, e nel sottoponte a poppa, dove i fuochi erano accesi, in parecchi con le ciotole in mano stavano lodando la partenza propizia e lo scampato pericolo. Uno dei marinai addetti ai fuochi ci passò due fette di pane abbrustolito, ingentilito da una manciata di olive e da una sarda marinata nell'aceto. Trovammo un angolo riparato dal vento e appoggiati contro il fasciame, tra due centine, facemmo onore al rancio. «Greco, quella gente che non è riuscita a imbarcarsi... cosa rischia?» L'aceto della sarda era davvero forte e Hicesius dovette ricacciare una lacrima prima di rispondermi: «Se non troveranno il modo di fuggire per mare dovranno riparare nell'entroterra, in luoghi in cui non ci sia nulla da depredare, e sperare che i parti vadano a fare razzia altrove.» «Certo... ai parti fanno gola città con delle ricchezze, non hanno passato l'Eufrate per rubare un pugno di grano o tre galline. I benestanti, i mercanti e le famiglie degli ufficiali se ne sono andati alla prima avvisaglia. È la gente comune che vive ad Antiochia e a Seleucia che si trova in pericolo: molti di loro perderanno la vita senza motivo durante i saccheggi, e forse quelli saranno i più fortunati, perché gli altri andranno schiavi.» Hicesius annuì, pensieroso. Era la triste realtà della guerra: i vecchi non più adatti al lavoro rischiavano di essere uccisi subito, gli uomini validi sarebbero stati incatenati e le donne e i fanciulli stuprati. Erano destinati ad essere portati in Partia per essere consegnati al Gran Re come preda di guerra, e infine venduti. Stavamo terminando il rustico pranzo quando venne a sedersi vicino a noi il prefetto Helvio. Nemmeno lui aveva legato con gli ufficiali della nave, alla fine era un civile come me e il greco e una barriera lo separava da coloro che servivano nell'esercito e nella flotta. Vidi che aveva ricevuto la fetta di pane abbrustolito, le olive e la sarda sott'aceto; un desinare poco adatto al suo grado, ma comunque non nascondeva l'aria soddisfatta, e infatti insieme a un sorriso gli sfuggì: «Quel maledetto imbecille del mio servo Diomede si è intanato da qualche parte nella nave e non riesco più a trovarlo! Dovrà ben saltar fuori, abbiamo parecchi giorni di navigazione davanti... appena lo trovo gli darò quello che merita!» Il servo l'avevo intravisto accovacciato insieme a tre legionari con cui forse stava giocando a dadi; c'era in corso un'animata discussione e l'avevo visto abbassarsi per non essere notato dal padrone. Ora che ci eravamo staccati da terra il prefetto era in vena di benevole chiacchiere: «Mi dicevi quindi che andrai in Gallia?» «Sì, prefetto, devo prendere servizio nella Gallia Narbonense, in una città di cui non ho mai udito il nome.» «È la città di Nemausus» mi corresse Hicesius. «Non la conosco» sussurrò il prefetto. «Ma di preciso cosa dovreste fare?» «Un anno e mezzo fa passai agli ordini del generale Marco Vipsanio Agrippa, il braccio destro del triumviro Ottavio, il nipote di Cesare. Mi faranno lavorare sulle strade, si parla di un grandioso progetto per dotare le Gallie di strade simili alle Vie Consolari che ci sono in Italia.» «Ma senti un po'! Ma tu l'hai mai visto Agrippa... gli hai mai parlato?» «Beh... l'ho visto un paio di volte un anno fa, e gli ho anche parlato. Insomma, ho risposto ad alcune domande che mi ha rivolto direttamente.» Il prefetto aveva drizzato le orecchie: sapeva benissimo chi fosse Agrippa, nominato da poco proconsole delle Tre Gallie; dal suo punto di vista persino uno sconosciuto geniere che in qualche modo era legato a quel generale non era da sottovalutare, poteva forse essergli utile per allargare il giro delle conoscenze importanti. «Se gli hai parlato un paio di volte non puoi dire di essere alle sue dipendenze!» «Forse mi sono spiegato male, prefetto. Io rispondo al legato Emilio Corvo, che è alle dirette dipendenze del generale Agrippa.» «Capisco... ora è chiaro. E ti lasciano viaggiare così... da solo?» «Beh... sì. Mi hanno anche concesso il permesso di accedere ai servizi riservati ai militari.» «Non ho mai udito di civili che possano accedere da soli ai servizi dei militari! Senti, agrimensore... solo per una mia curiosità, me lo faresti leggere l'ordine di servizio che ti hanno dato?» Era chiaro che non era pura e semplice curiosità quella che aveva acceso l'interesse del prefetto Helvio. Udendolo parlare avevo avuto la sensazione che nella sconosciuta città di Rhosos potesse essere solo un edile, e il titolo di ‘prefetto' se lo fosse attribuito da sé per ostentazione. Il poco che gli avevo detto, o il modo in cui l'avevo raccontato, gli avevano fatto intendere che mi muovevo su un terreno diverso da quello dei militari che servono nelle legioni. Anche Hicesius aveva notato l'eccessiva curiosità dell'uomo e mi aveva dato uno sguardo inquieto aggrottando le sopracciglia; ma non potevo negare ciò che mi chiedeva, visto che il più scarso dei prefetti è pur sempre superiore al più esperto degli agrimensori civili. Presi dalla sacca il permesso e glielo porsi. Erano poche righe, le lesse in un istante.
Al Centurione Quinto Tinnio, Comando del Genio di Nemausus, Gallia Narbonensis, vale. L'agrimensore civile Fausto Quintilio, già aggregato al Genio presso il presidio di Antiochia, ha ordine di prendere servizio presso la caserma di Nemausus in cui ha sede il Comando del Genio per la Gallia Narbonensis. Insieme a questa lettera all'agrimensore è stato consegnato il permesso per imbarcarsi sulle navi della flotta e per usufruire di alloggio e mezzi di trasporto riservati ai militari che viaggiano per servizio lungo le vie consolari. Ti saluta il librarius legionis Caio Ulpio Silano, in forza al Genio presso il presidio di Antiochia. Antiochia di Syria, XVI ad Kal Mar DCCXIV
«Questa è un'ordinaria comunicazione di servizio che un librarius legionis invia a un centurione. Devono proprio avere bisogno di te per concederti questo permesso!» Parlando avevamo raggiunto il mare aperto e la nave si muoveva sicura sotto la spinta del vento, ma anche le onde erano rinforzate: lo scafo si alzava e si abbassava repentinamente, e di tanto in tanto si udiva il fragore di una massa d'acqua che colpiva a tradimento la fiancata scuotendo l'intero legno. Doveva essere accaduto qualcosa perché vidi i marinai correre al ponte superiore, mentre il brusio e i rumori di bordo avevano cambiato ritmo. Salimmo anche noi sul ponte; eravamo già a tre miglia da terra e una feluca si stava accostando alla nave. Un uomo con il corpetto di cuoio rosso che contraddistingue i portaordini si sbracciava con uno straccio per fare arrestare la nave. Ma il trierarca non fece calare la vela; ordinò invece di gettare una fune alla feluca affinché il messaggio potesse essere consegnato. «Che accidente deve succedere ancora?», imprecò il prefetto senza curarsi di essere udito dai marinai, e si appoggiò alla balaustra insieme al decurione, che si era sporto per parlare al portaordini. «Dovete rientrare in porto!» gridò il messaggero quando le imbarcazioni furono a tre passi l'una dall'altra, e sventolò un foglio di papiro. La trireme non rallentò e la feluca, che era assai più veloce, manovrò per accostare e prendere la fune che i marinai della nave gli stavano lanciando. A bordo tutti tacevano, era chiaro che c'erano nuovi ordini. Solo il prefetto Helvio, la fronte accigliata e lo sguardo inferocito, sembrava pronto a dare battaglia. Il decurione, approfittando dell'istante in cui il moto delle onde aveva portato i due scafi alla medesima altezza, riuscì ad afferrare il messaggio dalle mani del portaordini e lo passò al trierarca a cui due profonde rughe avevano già increspato la fronte. Ma anche il prefetto era intenzionato a saperne di più, e si sporse dal parapetto senza mai mollare la sua preziosa cartella di cuoio. Chiamò sgarbatamente il messaggero: «Ehi tu, fatti vicino e ascolta ciò che ho da dirti!» I marinai della feluca avevano capito che i due dovevano parlare, e nonostante la velocità e i violenti sobbalzi delle onde mantennero la piccola imbarcazione a un passo dalla trireme. Il prefetto voleva sapere qualcosa, ma non desiderava essere udito da tutti coloro che erano affacciati al parapetto, e si sporse più degli altri rivolgendosi a voce non troppo alta al messaggero: «Ehi, senti... hai visto se dal porto stanno uscendo altre navi dirette a Roma o a Creta?» Il mare era agitato e un'onda più vivace delle altre sollevò all'improvviso lo scafo con violenza inaudita; l'istante successivo, mentre la trireme cadeva nella cavità tra due onde, il prefetto per un istante sembrò galleggiare nel vuoto e si venne a trovare al di sopra del parapetto. Mollò finalmente la cartella di cuoio per attaccarsi al corrimano, ma era già troppo tardi. Senza un grido cadde a capofitto nella striscia di mare blu tra le due imbarcazioni che si muovevano a discreta velocità. Il decurione aveva osservato la scena e sbraitò alla feluca: «Mollate la fune e recuperate quell'uomo prima che sia troppo tardi!» La barca con una rapida manovra si accinse a tornare indietro per raccogliere lo sfortunato prefetto. Il trierarca, che nel frattempo aveva letto il biglietto, fece segno ai timonieri di invertire la rotta e alcuni uomini si misero alle funi per alleggerire il vento sulla vela. Si doveva rientrare in porto. Andai a poppa per assistere al recupero del prefetto Helvio; vidi gli uomini della feluca, già lontana, intenti a scrutare il mare: un marinaio si reggeva in equilibrio sul corrimano, aggrappato a una delle funi di comando della vela per vedere meglio. Tra le onde non era facile individuare un naufrago. «Temo che sia andato a fondo» mormorò la voce di Hicesius dietro di me. «Mah... non è detto. Dovrebbero riuscire a ripescarlo, la feluca non può essere avanzata di più di cento passi dal punto in cui è caduto.» «Forse, Quintilio. Ma hai notato la fascia di cuoio che il prefetto portava alla cintola? Se vi teneva dell'oro... quello pesa assai più del piombo.»
Claudio Rossi
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