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Autore: Claudio Rossi
Tre stagioni sul Nilo
Avventura Storico
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Tre stagioni sul Nilo

Le stagioni.
Lungo il Nilo un anno dura tre stagioni: la prima inizia con la piena del Nilo, quando Sotis, la stella della dea Iside, si mostra per pochi istanti sull'orizzonte, prima dell'alba.
È una stagione strana: quando le acque salgono il raccolto è già stato completato e non rimane che attendere, fiduciosi, che la promessa si rinnovi mentre i campi vengono ingoiati dalle acque torbide.
La seconda stagione è quella del ritiro: il terreno dei campi è umido, basta spargere il seme ed esso germoglierà.
La terza stagione è quella della siccità e delle fatiche, quando si miete e si trebbia il grano per liberarlo dalla pula.
Per quanto abbiano fatto i faraoni durante il loro regno millenario, o i greci di Alessandro, o i romani di Cesare, nulla è mai cambiato lungo il Nilo, e queste tre stagioni incuranti degli uomini proseguono, immutabili, nel loro corso.

Nulla stava andando secondo le previsioni.
Il legato Cornelio Frontone, l'alto ufficiale in comando alla XXII legione di stanza a Nicopoli, alla periferia di Alexandria, stava peggiorando a vista d'occhio.
«Che accidenti di medicina mi hai dato, Svetonio?» borbottò con voce rauca, mentre qualche tremito lo scuoteva. «Ho la bocca secca... sento del bruciore...»
Aulo Svetonio era uno dei medici esperti della caserma. Gli porse un bicchiere con dell'acqua: «È la solita medicina di asaro che ti ho dato anche le altre volte.»
«Sto male, Svetonio» farfugliò mentre il bicchiere di vetro gli sfuggiva e si infrangeva a terra sotto lo sguardo incerto dei servi.
«Dove ti fa male?»
«Mi sento bruciare dentro... non è la solita medicina... e poi questa luce che va e viene...»
Non c'era nessuna luce che andava e veniva; il chiarore del giorno entrava come al solito dalla finestra dell'alloggio in cui l'ufficiale era solito trascorrere la notte, appena filtrato dai tendaggi di lino. Il medico fece segno a un servo e un panno bagnato venne posato sulla fronte del legato. Il tremore sembrava aumentare, e una scossa incontrollata di tanto in tanto gli tendeva i muscoli di una gamba.
«Non capisco» si lasciò sfuggire il medico, «non è mai successo nulla del genere!» Poi, dopo alcuni istanti di riflessione, si rivolse al suo aiutante, il liberto Lucio: «Prendimi il vaso dell'asaro.»
Il liberto glielo porse.
L'etichetta, un foglietto di papiro sbrindellato e macchiato da ditate, era saldamente incollata con un po' di resina e riportava la scritta: “Radice di asaro”.
«Hai fatto tre misure?» chiese al liberto.
«Sì, tre misure, come mi hai detto tu, con il cucchiaio d'osso che vedi ancora dentro. Poi l'acqua bollente, nient'altro. Come faccio tutte le volte che preparo gli infusi.»
Il legato, in preda ai tremori, mostrava il bianco degli occhi mentre un rivolo di bava mista a schiuma aveva iniziato a colargli dalle labbra.
«Dobbiamo farlo vomitare subito, dammi una mano!»
Il liberto resse l'ufficiale coricandolo sul fianco mentre il medico, mettendogli due dita in gola, tentava di provocargli il vomito, riuscendo però solo a fargli espellere un po' d'acqua.
Il legato era stato avvelenato, i segni erano inequivocabili: ormai aveva perso i sensi e il tremore e gli spasmi avevano lasciato spazio a una specie di torpore profondo che non era per nulla promettente. Insistendo nei tentativi riuscirono a farlo vomitare cinque o sei volte. Alla fine, vedendolo inerte, lo ridistesero nel letto.
«Lucio, ridammi il vaso dell'asaro.»
Lo controllò una seconda volta: il vaso era quello giusto, non c'erano stati errori. In preda a un improvviso sospetto, volle provare ad annusare la polvere finemente triturata che stava nell'interno.
L'odore non sembrava quello della radice di asaro. Si bagnò con la saliva la punta del dito e ne prelevò una minuscola frazione. La annusò a fondo e infine si decise a tastarla sulla punta della lingua, cautamente, sputando subito dopo.
Non era asaro.
Si sciacquò la bocca mentre il legato continuava a peggiorare: sembrava profondamente addormentato, il pallore gli aveva ingrigito il volto e una vena pulsava sulla tempia.
«Cosa dobbiamo fare, medico?» chiese uno dei servi in preda all'ansia. «Vuoi che chiamiamo qualcuno?»
«No... non è necessario» rispose loro Svetonio, incerto. Poi, chinandosi fino a tre dita di distanza dal viso del legato si mise ad annusare.
Non convinto fece segno a Lucio: «Prova anche tu ad annusargli l'alito. Cosa senti?»
«Mah... non mi sembra diverso dall'alito delle persone di questa età.»
«Non ti sembra di sentire odore d'aglio?»
Il liberto riprovò ad annusare: «A me non sembra che l'alito abbia odore d'aglio. Tu ne hai sentito, forse?»
«No, non odora d'aglio, ma volevo essere sicuro.»
I servi davano segni d'impazienza oltre che di preoccupazione. Il medico doveva decidere qualcosa.
Svetonio aveva perso l'aria sicura da medico, quella che non manca mai sul volto di chi vive curando le disgrazie altrui. Un paio di gocce di sudore gli imperlavano la fronte.
Rimase qualche istante in silenzio, riflettendo. Era più che sicuro che per il paziente non ci fosse più nulla da fare.
«Copritelo con una coperta leggera» disse infine ai servi. «Gli cambio io la pezzuola bagnata sulla fronte e lo lasciamo riposare per un po'. Non fate rumori molesti e chiudete gli scuri, che non lo disturbi la luce.»
«Non vuoi che chiamiamo il centurione, o l'attendente?» chiese un servo.
«No, per adesso è meglio di no. Io devo andare a cercare una pozione, tornerò appena posso.» Delicatamente con le dita richiuse le palpebre al legato, controllò la vena che gli pulsava sul collo, fece segno a Lucio di raccogliere la cassetta con gli attrezzi da medico e uscì dall'alloggio del legato.
Attraversò in silenzio il piazzale della caserma, seguito dal liberto, mentre una moltitudine di domande prive di risposta gli confondeva i pensieri.
Giunto nel suo alloggio, un paio di stanzette che comunicavano col valetudinarium della caserma, era ormai fradicio di sudore nonostante il mite clima di febbraio.
«Tu pensi che sia stato avvelenato?» Lucio si decise a rompere il silenzio.
«Non era asaro quello che gli abbiamo dato! Non so cosa fosse. Probabilmente un veleno!» disse a voce bassa, cercando con gli occhi il vaso della polvere di asaro.
«L'ho lasciato nella stanza del legato» lo prevenne Lucio, «credevo che tornassimo indietro subito.»
«Qualunque cosa fosse, il legato ne ha bevuto una dose sufficiente a uccidere venti uomini! È stato troppo breve il tempo che è passato tra i primi dolori e la perdita di coscienza.»
Lucio mise la mano davanti alla bocca sgranando gli occhi.
«È inutile che torniamo là, capisci?» insistette il medico, ora bagnato di sudore.
«Cosa dovremmo fare, Svetonio? Forse abbiamo avuto troppa fretta ad andarcene... se non ritorniamo là daranno la colpa a noi!»
«Daranno la colpa a noi in ogni caso!»
Chi aveva sostituito la polvere di asaro l'aveva fatto con l'intenzione di uccidere e far ricadere la colpa sul medico. Qualunque spiegazione avesse tentato di dare, sarebbe apparsa ben poco credibile.
«Non potrebbe essere stata la dose?» azzardò Lucio. «Mi hai detto tu di fare tre misure, le altre volte gliene davamo solo mezza misura!»
«No, non è per la dose. E il vaso era giusto, ma il contenuto è stato sostituito!»
«Cosa possiamo fare ora?»
«Non possiamo più fare nulla. Tra poco il legato sarà morto. Ammesso che non lo sia già. Ti conviene andartene, Lucio. Sparire e non farti più trovare. Riesci a immaginare cosa potrebbe accadere?»
Lucio annuì e nonostante la perplessità, e le domande che gli affioravano alla mente, cominciò a infagottare in una sacca le poche cose che possedeva: «Dovrò andarmene e non farmi più trovare? E dove andrò?» sussurrò. «E tu cosa fai, Svetonio? Resti qui? Ti prenderai la colpa?»
Il medico non gli rispose subito, era altrove con la mente. Stava pensando alla moglie e al figlio: «Io non ho fatto nulla!» esclamò in preda all'angoscia. «Nulla in grado di portare alla morte il legato! Ma certo non potrò mai spiegare quello che è successo, anche se la cosa è fin troppo evidente. Qualunque medico lo capirebbe subito!»
«Forse anche a te conviene uscire dalla caserma. O pensi di poter dare una spiegazione agli ufficiali?» ribatté Lucio.
«Non lo so... non lo so!» volse lo sguardo alla stanza che era stata il suo ufficio negli ultimi anni. Tra i suoi papiri e sugli scaffali dei vasi delle medicine non c'era nessuna soluzione adatta a risolvere il problema. «Mentre stiamo parlando il legato è sicuramente già morto, e adesso non so cosa mi convenga fare.»
«Appena i servi avviseranno qualcuno tu dovrai dare delle spiegazioni.»
A Svetonio venne in mente che nell'ufficio, in uno stipo sottochiave, conservava un certo vasetto che conteneva un potentissimo veleno che proveniva dall'India. Lo prese e sciolse il legaccio che teneva ben aderente un brandello di pergamena a far da coperchio.
Il veleno c'era ancora.
Lo annusò per cercare di paragonarne l'odore con l'intruglio che aveva fatto bere al legato.
Lucio aspettava in un canto, imbarazzato, reggendo la cassetta da medico per lo spago e lasciandola sfiorare terra: «È per quello che volevi sapere se nell'alito del legato c'era odore d'aglio?»
«Sì, ma questo veleno non c'entra niente. Era un altro tipo di veleno. Ora vattene, tra poco verranno a prendermi.»
«Vuoi avvelenarti, Svetonio?» Lucio aveva gli occhi spalancati.
«Non lo so ancora, non ho nessun modo onorevole di uscire da questa storia senza coinvolgere mia moglie e mio figlio. Temo per loro. E forse sono anche responsabile, almeno in parte, della morte del legato.»
C'era stata qualche divergenza un paio d'anni prima, quand'era passato agli ordini del legato Cornelio Frontone, uomo brusco abituato a dare ordini secchi che non ammettevano replica. Ma dopo le prime incomprensioni Svetonio aveva trovato il modo d'andare d'accordo con lui, tant'è che ne era diventato medico personale.
«Io non ho nessun luogo dove andare, altrimenti ti direi di venire con me» riprese Lucio, la voce tremolante. «Avrei dovuto accorgermi che non si trattava del solito asaro. La pozione alla fine l'ho preparata io. Il nostro comandante è una persona importante, non ho modo di evitare una punizione... grave. Ma se tu ti dai la morte il vero colpevole non sarà mai trovato.»
Svetonio, col barattolo del veleno ancora in mano, guardò fuori dalla finestra: un optio stava facendo marciare delle giovani reclute, ciascuna portava una sacca piena di terra, il modo migliore per rafforzare i muscoli. Non c'era nessuno in arrivo. Quando si fossero accorti della morte del legato, gli otto legionari della ronda sarebbero venuti a prenderlo. Dall'altro capo della piazza d'armi una trentina di uomini con scope e rastrelli stava livellando la sabbia e la ghiaia del piazzale. In mattinata era atteso Caio Vibio Massimo, il Prefetto posto dall'imperatore al comando dell'Egitto e l'uomo più alto in grado di tutta la provincia, motivo per cui la caserma doveva apparire in perfetto ordine.
«Devo prendere tempo» tentennò il medico scuotendo il capo. «Forse si riesce a trovare una spiegazione da dare agli ufficiali.» Raccolse il poco denaro che teneva in un cassetto per le necessità quotidiane e gettò una veste in una borsa intessuta con foglie di palma.
«Prendi la cassetta dei miei attrezzi, potrebbe servirmi» disse a Lucio.
Diede uno sguardo alla stanza: non lasciava nulla di importante, nulla che potesse servire a proteggere la sua famiglia. Uscendo raccolse la tavoletta di legno con i bolli che lo autorizzava, analogamente a un ufficiale, a muoversi ovunque per Alexandria e a servirsi, in caso di necessità, di uomini di fatica e mezzi di trasporto.
Al portone della caserma le guardie lo salutarono con un sorriso. Tutti avevano stima del medico Svetonio: in una caserma presto o tardi capita a chiunque di dover ricorrere al medico per qualche ragione, anche in tempo di pace. L'ufficiale di guardia, dal suo bugigattolo, gli fece un segno con la mano. Uscì sulla porta per dirgli, con la gentilezza dovuta al grado: «Medico, guarda che tra poco chiudiamo le porte. Stiamo aspettando il Prefetto Caio Vibio Massimo: durante la sua visita nessuno potrà entrare o uscire dalla caserma. Sappiti regolare.»
Svetonio annuì col capo, sapeva benissimo della visita del Prefetto, quello era stato il motivo per cui aveva sestuplicato la dose di asaro nella pozione: nelle sue previsioni avrebbe dovuto obbligare nel suo alloggio, almeno per l'intera giornata, il legato Cornelio Frontone.
Seguito dal liberto Lucio, con l'ingombrante cassetta dei medicamenti a tracolla, si immerse nel marasma della strada di Nicopoli.
«Devo avvisare Cecilia di quello che è successo, che trovi rifugio da suo zio e metta in salvo il ragazzo.»
Aveva parlato quasi tra sé, ma Lucio l'aveva udito.
«Non possiamo fidarci ad andare a casa tua,» intervenne il liberto, «è il primo luogo dove manderanno la ronda per arrestarti!»
«Sì, hai ragione, ma devo mandarle subito un biglietto!»
Percorsero mezzo miglio della strada che portava alle mura di Alexandria, poi svoltarono per i vicoli che si inoltravano in una bassa periferia piena di bugigattoli e negozietti. Un quartiere di gente povera, come indicava l'immondizia seminata per la strada e l'abbondanza di sterco che tracimava dalla canaletta laterale.
Entrarono in un botteghino che vendeva terraglia e dato un cenno di saluto al proprietario si sistemarono in un angolo per scrivere un biglietto.
Nella cassetta dei medicamenti aveva qualche foglietto di papiro, un paio di calami e la boccetta di bronzo dell'inchiostro, tappata con un turacciolo di legno e un brandello di pergamena.
Impiegò solo un istante a pensare al testo del messaggio.

Cecilia carissima, è avvenuto un grave incidente in caserma. Il legato Cornelio Frontone è morto subito dopo che gli ho somministrato un infuso. Sono certo che si dirà che l'ho avvelenato io e forse mi arresteranno.
Il pericolo incombe sulla nostra famiglia.
Sto cercando una soluzione.
Non perdere un solo istante e appena ricevi questo messaggio mettiti al sicuro, con Marco, da tuo zio Cleante. Ti manderò là un messaggio appena saprò qualcosa di più preciso.

Uscì sulla strada, attese di veder passare uno di quei vetturini che trasportano a pagamento merci e persone e lo fermò: «Devi portare con la massima urgenza questo biglietto alla villa del medico Aulo Svetonio, nel vicolo che sta dietro il tempio di Serapide, quello dove c'è l'edicola con le sei colonne. Sai dov'è?»
Era un giovane scuro di carnagione con i capelli ricci; annuì: «Sì, so dov'è, non è lontano da qui. La villa di Aulo Svetonio, hai detto?»
Intascò la moneta di rame con un sorriso.
«Devi andare subito!»
«Certo signore, è qui vicino, stai sicuro che tra poco quelli che abitano nella villa avranno il tuo messaggio!»
Il ragazzo era sveglio e Svetonio se ne sentì rassicurato: il messaggio non si sarebbe perso per strada.
Lucio aspettava sul marciapiede, spaesato.
«Dove andremo, Svetonio?»
«Non lo so, non ho avuto tempo di pensare. Mi sembra di essere ubriaco, quasi che questa sciagura non stia nemmeno accadendo a me. Dobbiamo comunque allontanarci dalla caserma, non voglio essere visto da qualche soldato che mi conosce.»
La fuga rappresentava l'ammissione della sua colpevolezza.
Non che avesse molta scelta, se fosse rimasto in caserma ad attendere d'essere arrestato, l'aver propinato al legato Cornelio Frontone quella pozione comportava comunque una sicura grave condanna.
Svetonio non aveva nessuna idea di cosa gli convenisse fare. Si fermò a pensare nel vicolo, tra i rifiuti gettati dalle case, mentre la gente del posto gli passava a fianco: qualche operaio sporco di terra, donne con le sporte della spesa. Un ragazzino improvvisava giochi evitando gli escrementi che appestavano la strada.
Svetonio era un tipo d'uomo che poteva piacere alle donne: lo sguardo sicuro, la battuta pronta, facile al sorriso. Negli anni il lavoro al valetudinarium della XXII gli aveva fatto crescere un certo carisma. I legionari si fidavano di lui, lo osservavano quando con fare indagatore studiava ferite e malesseri, non stancandosi di controllare più volte, e non potevano fare a meno di concludere che sapesse quello che faceva. Svetonio in effetti era un medico capace, non meno degli altri due medici della legione; esperto nella cura dei mali del corpo, un po' meno nel rimediare alle ferite provocate dalle armi o nel tagliare arti, operazioni in cui si faceva aiutare da Lucio. Avrebbe potuto far strada nella legione se qualcuno dall'alto gli avesse dato un piccolo aiuto. Si sa, nessuna porta o porticina si apre da sé, o per bravura dell'interessato.
Della sicurezza che ostentava nel valetudinarium ora non era rimasta traccia. Avrebbe dovuto rispondere della morte del comandante della legione e molte cose non sarebbe mai stato in grado di spiegarle se non ammettendo la propria malafede. I servi l'avevano visto quando gli aveva propinato una dose di asaro sei volte superiore a quella cui l'ufficiale era abituato per rimettersi a posto l'intestino. Avevano udito il dialogo con Lucio e avrebbero riferito ogni parola.
E nel vaso di terraglia che era rimasto nella stanza del legato Frontone non c'era dell'asaro, ma un veleno terribile e sconosciuto.
Lucio lo scosse: «Dobbiamo andarcene, Svetonio. Siamo ancora vicini alla caserma, se qualcuno ci vede ci farà arrestare!»
La porta orientale della città distava ancora mezzo miglio; lo percorsero guardandosi spesso alle spalle.
«Non faranno nulla durante la visita del Prefetto Caio Vibio Massimo. Forse non gli denunceranno un fatto del genere durante una visita ufficiale!» osservò a un certo punto Svetonio, più per tranquillizzare sé stesso che per convinzione.
«Dovremo passare le mura?»
«Sì, ho il lasciapassare. Non credo che sia già stato dato l'allarme.»
Mostrò la tessera tenendola alta con la mano e le guardie della porta, che lo riconobbero per romano, lo fecero entrare senza fargli perdere tempo, superando una dozzina di persone del posto.
I due si tolsero dalla strada principale e si infilarono nei vicoli di Alexandria, tra tuguri fatiscenti, odore di cipolle, di zuppe di porro e di liquami sparsi a fianco della strada.
«Che io sappia c'è solo un posto dove possiamo andare e dove non ci verranno a cercare.»
«È lontano?»
«È un magazzino vicino alle mura di meridione.»
Attraversarono una via di calderai con gente annerita dalla carbonella e ragazzi che battevano lamiere intralciando buona parte della via. Si fecero strada tra botteghe di pollaioli i cui marciapiedi erano ingombri di gabbie di vimini con oche e pollame. Galline spennate ed eviscerate erano attaccate agli uncini, un ragazzo ne scacciava le mosche con un flabello di piume.
Svetonio continuava a rimuginare camminando distratto e a un certo punto gli venne in mente qualcosa: «Lucio, l'avevi macinata tu l'ultima radice di asaro?»
«Sì, Svetonio, l'avevo macinata io. A volte mi dà una mano il liberto Celso quando io sono occupato in altre cose. Ma l'ultimo asaro l'avevo preparato io due giorni fa. Non riesco a immaginare cosa possa essere successo.»
«Celso sa dove teniamo il vaso dell'asaro?»
«Certo che lo sa. L'hai visto anche tu mille volte andare e venire con dei medicamenti, come faccio anch'io. Da che mi ricordo quel vaso è sempre stato in fondo alla mensola e l'etichetta è ben leggibile! È l'armadietto dei veleni che teniamo sottochiave, quelli li maneggi solo tu.»
«Tu l'hai visto stamattina Celso?»
«No, non mi pare d'averlo visto. Credo che abbia dormito nel valetudinarium stanotte, sai che abbiamo quei due uomini con le febbri che si sono aggravati.»
«Quindi stanotte poteva entrare nello stanzino delle medicine.»
«Certo che poteva entrarci. Lo fa sempre, lo sai benissimo. Pensi che sia stato lui a sostituire la polvere?»
«Non lo so. Non posso saperlo. Siamo quasi arrivati. Fermiamoci qui un istante e controlliamo che non ci sia gente in giro.»
Alcuni ragazzini giocavano per la via e si udivano le voci acute di un battibecco tra due megere in lite. Attesero che passasse un vecchio con un asino e si infilarono lesti in uno stretto vicolo in fondo al quale, a pochi passi dalle mura della città, il medico bussò a una porta dipinta di nero.
Dovette bussare tre o quattro volte prima che una voce dall'interno rispondesse: «Cosa volete? Andatevene!»
«Sono Aulo, apri, Sobal.»
Si udì grattare una spranga e un tipo magro mise fuori la testa dalla fessura per guardare se ci fossero curiosi nel vicolo.
«Vieni dentro. È con te il giovane?» Avuto l'assenso si affrettò a richiudere la porta e a far scorrere un catenaccio arrugginito.
«Non mi aspettavo di vederti qui, Svetonio. Cosa ti porta alla mia officina?»
«Questo giovane è il mio aiutante Lucio. Siamo in guai seri.»
Lucio diede un'occhiata all'interno della buia officina: un grande tavolaccio, del tipo di quelli usati dai falegnami, stava in mezzo alla stanza; contro i muri erano allineate grosse casse di legno simili a cassapanche.
«E come avresti fatto a cacciarti nei guai? Anche questo tuo aiutante è nei guai?» domandò Sobal.
Lucio, esaurita la prima curiosità suscitata dalla strana officina si decise ad esaminare con più attenzione l'anziano.
«Sobal è medico, è un nostro collega» chiarì Svetonio.
«Sì, faccio il medico ogni volta che me lo chiedono. Quando hanno bisogno di me mi sopportano anche se non sono greco.» Notò lo sguardo interrogativo di Lucio e spiegò: «La mia famiglia venne qui molti anni fa, dovette andarsene dalla Giudea, erano gli anni della guerra di Vespasiano e Tito, c'erano massacri ovunque. L'Egitto per noi era meno pericoloso.»
Doveva avere passato la sessantina da un pezzo e i capelli, come la barbetta, ormai erano candidi; la pelle del viso e delle mani era inscurita e raggrinzita. Di giudei come lui era piena Alexandria, era un tipo comune che nessuno avrebbe mai degnato di uno sguardo. Emanava però un odore particolare: aromi di erbe e medicine mischiati a un diffuso afrore, simile a quello di sangue e urina che si percepisce dove macellano degli animali. In effetti quell'odore, dopo che la porta era stata chiusa, si sentiva in tutta l'officina.
«Ma qui di cosa ti occupi?» chiese Lucio, per gentilezza. «Vendi carbonella? Vedo delle casse e dei sacchi.»
Nemmeno aveva finito di porre la domanda che riconobbe cos'era quell'odore così particolare, che un po' gli era familiare: le macchie che lordavano la veste dell'anziano di sicuro nel tempo gli avevano impregnato la persona, e consentivano di indovinare che l'uomo curava malati, magari li guariva a volte, ma la maggior parte del suo tempo lo passava coi cadaveri.
«Vedo dal tuo sguardo che hai capito che qui mi occupo di imbalsamare i morti. Certo non mi tiro indietro se c'è da dare una mano a una partoriente o a qualcuno bisognoso d'aiuto che non ha i tetradrammi sufficienti per permettersi un medico greco.»
«È un uomo che sa fare il suo mestiere, Lucio» annuì il medico Svetonio. «Più di una volta mi ha mostrato i visceri di persone morte da poco e mi ha fatto toccare con mano certi strani groppi che si formano nel corpo umano e che nessuno sa cosa siano.» Quindi rivolgendosi al giudeo gli domandò: «Puoi nasconderci per qualche giorno?»
«Non devi nemmeno chiedermelo, Svetonio! Sai che non posso negarti nulla. Ma se sei nei guai la mia casa è piccola e troppo frequentata. Mia moglie è vecchia, non si cura se vede degli estranei, ma ho anche mia figlia con suo marito, e spesso ho anche qualcuno dei miei figli.»
«Capisco. Potremmo forse fermarci qui?»
«Certo, puoi rimanere finché vuoi, qui non viene nessuno a ficcare il naso. Lì nell'angolo c'è il braciere di terracotta, se vuoi scaldarti qualcosa da mangiare, e in fondo al vicolo c'è il pozzo del quartiere. Quando fa buio non c'è più nessuno in giro e puoi andare a fare acqua senza che ti vedano. Devi restare nascosto a lungo?»
«Non posso saperlo, Sobal. Sono in un grosso guaio. Immagino che non potrò mostrarmi in giro finché non sia chiaro cos'è successo.»
«C'è di mezzo un morto?»
Il medico annuì.
Il giudeo non mostrò d'essere stupito: «Dovrai sorbirti la loro compagnia.» Indicò con la mano le cinque lunghe casse dall'aspetto sinistro allineate contro il muro. «Non sono peggio dei tuoi malati. Ora devo andare al mercato a comprare delle erbe che mi servono. Avete bisogno di qualcosa?»
Svetonio diede uno sguardo al tetro locale: «Riesci a rimediarci una stuoia per fare un giaciglio?»
«Sì, dovrei trovare qualcosa. Immagino che avrete anche bisogno di cibo.»
Il medico e Lucio annuirono, nemmeno ci avevano pensato, tanto erano stati pressati dai fatti funesti delle ultime ore.

Claudio Rossi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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