I. L'anno del secondo consolato di Caio Giulio Cesare e Servilio Vatia Isaurico fu anche l'anno in cui il liberto Hicesius ed io, coinvolti in oscure trame, combattemmo contro i sicari: troppe cose, e troppo in fretta, avvennero in quei mesi. Tutto ebbe inizio nel maggio 705 , quando l'architetto Sestilio, l'uomo che Cesare aveva incaricato di rendere produttivo l'agro incolto a ponente di Mantua, venne trovato morto nella sua tenda, ucciso durante la notte con due pugnalate. L'assassinio era avvenuto all'interno dell'accampamento del Genio di Vadus, vicino a Mantua, e in un primo tempo ne ero stato accusato io solo perché quella notte non mi trovavo nell'accampamento. La questione, assai pericolosa, era stata chiarita; avevo tratto un insegnamento da quella sciagura e qualcosa era cambiato nei miei pensieri e nelle mie riflessioni. Negli ultimi tempi mi ero convinto che ciò che era accaduto faceva ormai parte di un periodo della mia vita che aveva avuto una fine naturale e sarebbe rimasto per sempre dietro una porta chiusa. Forse presto o tardi mi sarebbe venuto il desiderio di far rivivere quegli eventi e mi sarei arreso a vergare le memorie di quei giorni per me stesso o per una donna, se ne avessi trovata una che sapeva leggere, o per dei figli o dei nipoti, se la sorte me ne avesse dati. Per questo certe volte mi attardavo a studiare il calendario dei lavori della limitatio in cui avevo annotato gli eventi di ogni giornata. Stavo pensando di trascriverne una copia: l'avrei tenuta da parte per mantenere viva nel tempo la possibilità di ricostruire con esattezza i fatti, così come essi erano avvenuti, magari quando fossi diventato vecchio e inutile per gli altri. Immaginavo già che il futuro mi riservasse solo anni monotoni di fatica nell'erba alta, a tagliare ramaglia per fare rilievi con la groma, o a inveire con gli aiutanti per far piantare loro di malavoglia i picchetti. Non sapevo allora, come nessuno di noi sa, che forse la vicenda non era finita del tutto, e che gli dèi a volte ci tengono in serbo altre avventure che potrebbero rivelarsi belle o brutte. O forse mortali. II. Ci fu un'avvisaglia, che non tutto era finito, durante l'estate, mentre insieme al liberto Hicesius, il greco erudito che era sempre rimasto insieme a me, ero ancora intento a lavorare nella centuriazione di Vadus. Ai primi di luglio mi si presentò l'occasione di ascoltare la testimonianza diretta di un ufficiale che era a conoscenza della vicenda del traditore Rogaziano, un patrizio che aveva avuto a che fare con l'assassinio dell'architetto. Un giorno, infatti, un drappello di una ventina di soldati agli ordini di un centurione lasciò la via consolare per entrare al nostro campo: l'ufficiale, un certo Egnazio Riano, aveva delle lettere da consegnare al nostro prefetto. Fu lui a venirmi a cercare nella mia tenda mentre ero intento a trascrivere sui papiri il lavoro svolto durante la giornata. «Saresti tu quell'agrimensore che ha combinato tutti quei guai?» mi disse sorridendo. Era un uomo di mezza età, prestante e dallo sguardo aperto, e la sua non era una domanda o un rimprovero, quanto piuttosto una battuta scherzosa. Sgranai gli occhi, incerto su cosa rispondergli. «Non capisco a cosa ti riferisci, centurione» balbettai cercando di guadagnare un istante per riflettere. «Ti facevo più avanti d'età» continuò, il sorriso sulle labbra. «Quanti anni hai?» «Ho venticinque anni. Posso forse aiutarti, centurione?» «No... ero di passaggio sulla Via Postumia, sto recandomi a Verona e mi sono fermato a consegnare degli ordini per questo campo. Sapevo che tu eri ancora qui e mi è semplicemente venuta la curiosità di vederti in faccia. Io so tutto di te, per via del gran parlare che si fece mesi fa a proposito della morte del vostro architetto.» Cominciai a capire: si trattava solo di chiacchiere bonarie, per quanto non si sappia mai, nei discorsi degli ufficiali, quanto possano essere inoffensive le chiacchiere. I problemi miei e del greco Hicesius erano iniziati con la morte dell'architetto, e il centurione, chissà come, doveva saperne qualcosa. «Senti, agrimensore, sono stato tutta la giornata a cavallo e non mi va proprio di sorbirmi il rancio di questo accampamento. Qui intorno non c'è una taberna dove sappiano far da mangiare bene?» «Sì, c'è un posto del genere a un miglio da qui, al ponte sul Mincio. La moglie dell'oste è una donna esperta, è originaria di Tibur. A volte prepara piatti di gran pregio perché la via è trafficata e anche i benestanti devono mangiare.» «Vuoi venire a cena con me? Hai forse qualcosa d'urgente da portare a termine?» Avevo intuito che il drappello proveniva da Mediolanum ed era una buona occasione sia per raccogliere qualche informazione, sia per mettere sotto i denti qualcosa di meglio del rancio dell'accampamento. «Avviso il liberto che mi aiuta nei calcoli... anzi, se non ti dispiace potrei chiedergli se vuol venire con noi.» «Non sarà per caso quel segretario greco...?» «Sì, è il liberto Hicesius, è un erudito. Qui nel campo ci sono solo dei legionari, non ha nessuno con cui chiacchierare.» «Fallo venire, so già chi è!» Forse l'ufficiale era solo in vena di scambiare delle parole, ma qualcosa mi diceva che conosceva bene i fatti miei.
Il centurione si fece accompagnare da un legionario dall'aspetto imponente, una specie di guardia del corpo, e il greco venne volentieri con noi, interessatissimo. Riano veniva proprio da Mediolanum come avevo supposto e di sicuro ci avrebbe raccontato qualcosa di interessante. Nella taberna, alla moglie dell'oste era giusto avanzata mezza anatra; la riscaldò per noi e quando il centurione la vide sgranò gli occhi: «Ma questa la conosco: è l'anatra lessata con i pinoli e i datteri!» La donna, una sformata cinquantenne che indossava un grembiule bisunto, gongolò, lieta che un occasionale passante avesse riconosciuto il piatto: «La preparo secondo la ricetta tradizionale» chiarì senza nascondere l'orgoglio. «Bisogna abbondare con il pepe dell'oriente finemente polverizzato, e non dimenticarsi il ligustico, il cumino, e il coriandolo. Alla fine, ci va anche la menta e l'origano!» Il centurione sembrava affamato, così lasciammo a lui la mezza anatra per dedicare la nostra attenzione a verdure fritte e carne di porco arrostita. «Quindi tu, da quanto capisco, conosci già le nostre vicende?» si spinse avanti con finta prudenza il greco Hicesius, che non era meno curioso di me. Gli altri avventori se n'erano già andati ed eravamo rimasti solo noi nel locale. Il centurione, mentre le ossa del volatile si ammucchiavano a terra, diede un'occhiata intorno e gli rispose sottovoce: «Si è parlato parecchio di voi due. Io conosco i fatti perché ho fatto parte del drappello che venne mandato a Mediolanum... per sistemare le pendenze, se mi capite.» Non era certo il luogo adatto per parlare di queste cose; cambiammo discorso e il greco Hicesius ed io fingemmo di essere desiderosi di raccontargli del nostro lavoro nell'agro incolto. Stavamo completando la rete dei fossi affinché tutti i lotti di terreno fossero coltivabili dai coloni cui sarebbero stati assegnati, veterani che avevano terminato il servizio. Una volta rientrati all'accampamento mi procurai un orcio d'acqua e vino, e il centurione Riano, che avevamo accompagnato nella tenda che ci serviva da ufficio, non si fece pregare; narrò a Hicesius e a me i fatti senza nascondere nulla, come se anche noi fossimo stati presenti. «Dovete sapere che il centurione Duilio, un mio collega» prese a raccontare, «aveva preparato l'operazione nella massima segretezza, con un'accurata ricognizione intorno alla villa del patrizio Giulio Rogaziano, alla periferia di Mediolanum. Per l'occasione avevamo mandato avanti separatamente tre dei nostri uomini travestiti da liberti e da servi di campagna, per non dare nell'occhio.» Sorbendo di tanto in tanto un sorso d'acqua e vino, e comprendendo il nostro interesse, si addentrò nei particolari.
I legionari avevano valutato accuratamente ogni accesso e le difese che i padroni della villa avrebbero potuto mettere in atto per far fronte a un assalto. Uno di loro tentò perfino di vendere della verdura ai servi della villa, ma non venne fatto entrare. Era una proprietà di grandi dimensioni, con una larga via pubblica dal lato dell'accesso e uno stretto vicolo su uno dei fianchi; il retro dava su campi coltivati. L'altro fianco aveva il muro divisorio in comune con un'altra villa, anch'essa abitata da benestanti. Il muro di recinzione era continuo e solido, costruito con mattoni di fornace legati con la calce, privo di finestre. L'accesso che dava sulla via principale non era l'unica comunicazione con l'esterno: esisteva anche una porticina che dal retro dava sull'aperta campagna. Probabilmente era quella utilizzata dai servi per raggiungere qualche fosso della zona per lavare i panni o semplicemente per smaltire avanzi, fogliame e ramaglia del giardino e delle piante da frutto che occupavano il peristilio e l'orto della casa, senza dare disturbo alla zona frequentata dai padroni. Questa porticina era in legno di buon spessore ed era dotata di uno o più chiavistelli all'interno, o forse di un traverso ricavato da una trave di legno. Anche l'accesso principale era munito di una salda porta di legno a due battenti, di quelle con uno spioncino richiudibile con una griglia di protezione di bronzo. Ogni cosa fu osservata e valutata con attenzione. Poiché si temeva una reazione da parte delle guardie del corpo e dei servi armati presenti nella villa, erano stati mobilitati per questo intervento una ventina di uomini; per la maggior parte erano legionari in servizio nella Decima Legione. Duilio ed Egnazio Riano erano centurioni di provata esperienza in agguati e imboscate in Gallia e avrebbero diretto l'operazione. Quando nella notte presero posizione non andarono con le loro divise, ma abbigliati con mantelli neri per essere meno visibili. Le armi erano quelle d'ordinanza, visto che non c'era necessità di nascondere chi fosse il mandante. L'operazione iniziò a notte fonda, nel momento più buio, quando anche il sonno delle persone è più profondo ed è difficile riprendere coscienza immediatamente. Otto legionari si schierarono in silenzio lungo le vie esterne, rimanendo in vista l'uno dell'altro e pronti a darsi man forte o a spostarsi nel caso qualcuno avesse tentato la fuga. Ciascuno aveva un pilum se si fosse presentata la necessità di colpire a distanza qualche fuggitivo. Per ostacolare ogni tentativo di fuga degli occupanti, la porta principale era stata bloccata dall'esterno con una trave di legno messa di traverso e fermata con legacci alle maniglie in bronzo. Inoltre, due legionari erano entrati silenziosamente nella villa del confinante e là avevano preso posizione per prevenire eventuali fughe da quella parte. Otto uomini scavalcarono il muro della villa di Rogaziano con due scale, una dalla parte esterna e una dal lato interno. In pochi istanti, senza far rumore, invasero la casa e al segnale convenuto, tre fischi, vennero accese le torce. Le guardie della villa furono sorprese addormentate o inebetite dai turni di guardia. Il centurione Riano intimò loro: «Non estraete le vostre armi: è la repubblica che ve lo ordina!» Ma tre guardie invece reagirono e sguainarono i gladi nel tentativo di far resistenza. Fecero in tempo a gridare e a dare l'allarme e il panico si propagò per la casa. Una delle guardie fu trafitta al primo scambio di colpi, mentre le altre due rimasero incerte sul da farsi di fronte al numero soverchiante degli assalitori che si trovarono contro. Dalle stanze interne della villa giunsero a dar man forte quattro servi con dei bastoni ma, quando alla luce di una torcia videro che avevano contro dei legionari, lasciarono immediatamente cadere a terra le armi improvvisate. In quell'istante apparve Giulio Rogaziano. Impugnava il gladio ed era accompagnato da due guardie. Anche a loro il centurione intimò: «Lasciate cadere le armi: è la repubblica che ve lo ordina!» Tutt'altro che impressionato Rogaziano ribatté: «Ma quale repubblica? Chi siete voi che vi presentate armati nella casa di un uomo dello stato? Siete dei malfattori? Chi vi manda?» «Rogaziano, io ti conosco» gli disse il centurione. «Noi non siamo dei malfattori, anche se non indossiamo le divise d'ordinanza. Cesare ci ha mandati per te e tu sai benissimo il motivo, senza che io debba ripetertelo davanti a degli estranei.» Rogaziano, il gladio nella destra e il pugium nella sinistra, era pronto a combattere; sussurrò un ordine a uno dei suoi uomini e rispose: «Visto che sei qui in veste ufficiale, nel pieno della notte come un malvivente qualsiasi, dimmi quello che mi devi dire e non preoccuparti dei presenti, sempre che tu abbia qualcosa da dire.» Il centurione aprì il mantello nero e gli mostrò il medaglione che aveva al collo, che distingueva il suo grado, e gli disse: «Sai benissimo che siamo qui per gli intrighi che hai ordito contro Cesare. Abbiamo prove inoppugnabili: hai fatto assassinare l'architetto Sestilio e hai fermato un corriere dello stato impedendogli di consegnare all'Urbe una lettera segretata indirizzata a Cesare. Ora getta le armi!» Ormai i servi e le guardie della villa erano stati resi inoffensivi, ed era chiaro che Rogaziano, che gettava sguardi di fuoco a destra e a sinistra, stava solo cercando di guadagnare tempo. «Ma senti un po'» inveì, «per questo vi presentate qui camuffati da ladri? E magari volete anche sapere dove tengo i denari di casa, intanto che ci siete?» Si era spostato di un paio di passi per prender meglio posizione e contrastare l'accesso alla parte più interna della villa. Stava trattenendo gli invasori e ormai con le sue chiacchiere era riuscito ad arrestare l'impeto dell'attacco, facilitato in questo dal tentativo del centurione Egnazio Riano di catturarlo vivo. Giunse un fischio da una zona buia della casa e due armati spuntarono dietro a un uomo con la cotta in maglia di ferro, il loro comandante, e insieme impegnarono gli invasori. Mentre si incrociava il primo scambio di colpi Rogaziano scomparve nel buio del peristilio gridando ai suoi di trattenere i nemici. Il comandante delle guardie della casa, dopo aver trafitto al ventre uno dei legionari, approfittando del combattimento in corso si dileguò dietro al padrone. Dopo qualche istante si udì trambusto sul tetto e caddero delle tegole, smosse dai due in fuga che cercavano di passare, attraverso il tetto, alla villa confinante. Anche i legionari messi di guardia a quel lato della casa rimasero spiazzati dalla rapidità dell'azione e, prima che riuscissero a salire a loro volta sul tetto, i due fuggitivi, passati alla villa vicina, si erano già lasciati cadere nei vicoli esterni che non erano presidiati. Giulio Rogaziano, il principale obiettivo dell'operazione, era riuscito a fuggire insieme al suo luogotenente. I due fuggiaschi scomparvero nel buio della notte e a nulla valsero le ricerche dei legionari piazzati al di fuori dalle mura della villa. Le guardie e i servi cessarono subito ogni resistenza. I legionari si ritrovarono con un paio di feriti, di cui uno grave. Considerando inutile una ricerca nel buio, avviarono un'accurata perquisizione della villa, segregando in una stanza la moglie e il segretario di Rogaziano. Nella casa trovarono solo documenti privati: non c'era corrispondenza o altro che avesse a che fare con le attività di governo della Cisalpina o con le centuriazioni di Cremona e Mantua. Il centurione Duilio iniziò l'interrogatorio dei due. La moglie non sapeva nulla e dopo poche domande fu ricondotta in una stanzetta. Il segretario, spaventatissimo, nel tentativo di aver salva la vita disse subito tutto ciò che sapeva: «Ne avevo sentito parlare dal mio padrone» confermò. «Ero al corrente che c'era una lettera diretta a Cesare nel tascapane di quel corriere di cui mi chiedete. Ma io sono solo un liberto, non avrei mai potuto fare nulla.» «Perché questo corriere venne ucciso?» insistette il centurione. «Il motivo esatto non lo so! Il corriere aveva due lettere uguali, una indirizzata a Rogaziano e l'altra all'illustre Cesare. Dopo aver consegnato al mio padrone la prima, al palazzo del governo della Cisalpina a Mediolanum, il corriere proseguì per l'Urbe. Ma venne dato ordine che fosse seguito e poche ore dopo fu ucciso da un sicario che aveva approfittato di una sua sosta alla mansio di Laus Pompeia per avvicinarlo con delle chiacchiere.» «Conosci chi sia questo sicario?» «Certo. È Norbanus, il luogotenente che è appena fuggito con Rogaziano. Quel corriere fu pugnalato a tradimento, spogliato della borsa delle lettere e di ogni altra cosa che avrebbe potuto favorirne l'identificazione, e il corpo venne gettato nel fiume Adda.» Mentre il segretario rendeva la sua confessione un giovane ufficiale che aveva partecipato all'assalto aveva tratto da una sacca di pelle la scatoletta di legno dei calami e alcuni fogli di papiro; sistemato a un tavolino, stava trascrivendo la deposizione del segretario, annotando con cura i nomi di tutti i presenti, prigionieri e legionari. Vennero fatte molte altre domande ma fu evidente che il segretario non sapeva nient'altro di utile per l'indagine. Mentre l'interrogatorio proseguiva, un optio impegnato nella perquisizione della villa allungò un foglio di papiro all'ufficiale incaricato dei verbali. Aveva trovato una strana lettera che parlava dell'acquisto di alcuni schiavi. Dopo un primo esame fu passata al centurione. La lettera diceva:
Il fattore Amulio saluta Giulio Rogaziano. Salute. Ti chiedo di autorizzare l'acquisto al mercato di Ravenna di cinque schiavi giovani e in buona salute per i lavori agricoli dei nuovi possedimenti di Mantua. Gli schiavi saranno tenuti al lavoro nella tua proprietà di Cremona fino all'estate del prossimo anno affinché divengano esperti dei lavori nei campi. Ciascuno di questi schiavi costerà duemilatrecento sesterzi. L'argentario Vesonio, che ben conosci, per anticipare il denaro chiede che tu gli mandi una tua lettera con l'autorizzazione. Amulio fattore di Virginio Rogaziano
Il centurione Duilio sorrise. Sapeva dalle precedenti indagini che i Rogaziano non avevano nessun possedimento agricolo a Mantua. Né avevano bisogno di schiavi per terre che non possedevano. La lettera del fattore faceva riferimento a terre che sarebbero diventate di loro proprietà solo se fossero riusciti a corrompere qualcuno e a farsi assegnare dell'agro centuriato, cosa che non avrebbero mai potuto ottenere con mezzi leciti. Proprio da quelle assegnazioni erano partite le indagini. Fece un cenno all'ufficiale perché scrivesse nel verbale che era stata trovata questa lettera e la conservasse con cura. La missione dei sicari mandati dall'Urbe era ancora lontana dall'essere terminata. Ad un cenno del centurione Duilio, due legionari trafissero il segretario con un paio di colpi di gladio al costato; la moglie di Rogaziano fu stordita con un pugno in testa e le fu tagliata la gola. Non le venne usata nessuna violenza, com'era costume con le donne condannate a morte, solo per rispetto al nome della nobile famiglia del marito. I cavalli erano già pronti davanti al portone della villa e mentre un paio di uomini rimanevano a completare la perquisizione e a interrogare i servi spaventati, i sicari ripartirono per la tappa successiva.
Claudio Rossi
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