«Il fortino dell'esercito dovrebbe essere ai piedi di quelle colline che si vedono là in fondo» disse Lucio, il mio compagno di viaggio. «Abbiamo già percorso una quindicina di miglia, non dovrebbe mancare molto». Il sole era appena sorto e nonostante fosse ottobre si preannunciava una giornata calda. Eravamo partiti a notte fonda, risvegliati dai preparativi degli altri viaggiatori con cui avevamo condiviso una rustica stanzetta che fungeva da dormitorio, in uno dei punti di sosta dell'esercito. Conveniva spostarsi il più possibile durante le ore della notte per evitare l'arsura del deserto. «Se allunghiamo il passo, ci saremo tra un paio d'ore» aggiunse Lucio. Ormai potevo arrischiarmi a usare l'ultima acqua contenuta nell'otre: facendo coppa con la mano, con parsimonia, diedi da bere al lupo che avevo con me, in realtà un incrocio tra un lupo selvaggio e un cane domestico. Era insieme a me fin dalla Germania e non si era ancora abituato al clima dell'Egitto; quando aveva caldo, camminava con quattro dita di lingua penzolante a lato del muso e a volte dovevo bagnargli la testa. «Da quando abbiamo lasciato il Nilo, abbiamo incontrato a malapena una dozzina di viaggiatori.» «Qui non ci vive nessuno, Marco! Siamo ai confini meridionali dell'impero, per questo il luogo è adatto a noi. Non ci cercheranno mai qui.» Stavamo percorrendo le cento miglia che dal villaggio di Kàine, sul Nilo, conducono a Porfirites, nel bel mezzo delle aride montagne oltre le quali si apre il Mare Arabico. La strada militare, un tracciato di sabbia e sassi, si snodava parallela al letto secco e polveroso di un antico corso d'acqua di cui si era persa memoria; attraversava valli riarse la cui unica scarna vegetazione erano sterpi spinosi rinsecchiti. I rari cespi d'erba secca andavano in polvere al solo sfiorarli. Per quanto Lucio ed io non conoscessimo la regione, era impossibile perdersi: la strada era ben tracciata, solcata dai segni lasciati dalle ruote dei carri e punteggiata dallo sterco nerastro degli asini. Eravamo completamente soli e nessun rumore, oltre al crepitare della ghiaia sotto le nostre calighe, spezzava il silenzio. Per recarci alle cave imperiali di marmi preziosi, l'ufficio del reclutamento di Alexandria ci aveva rilasciato i permessi, dei papiri coi bolli che ci consentivano di mangiare e dormire presso quelle isolate costruzioni, simili a fortini, che sorgevano lungo la strada a un giorno di cammino l'una dall'altra; erano i punti di sosta predisposti dall'esercito per le carovane che portavano al Nilo i marmi pregiati, e per coloro che per ragioni di servizio si recavano a Porfirites o a Mons Claudianus.
Al fortino, un edificio costruito con terra e paglia impastate con acqua, ci accolse lo stazionario, un legionario barbuto, greco all'apparenza, che volle vedere i nostri papiri prima di far segno a un servo che ci lasciasse entrare a mangiare. Guardò storto il lupo. Gli avevo messo una corda al collo per mostrare che ne avevo il controllo ed evitare commenti. Prendemmo posto in una stanzetta simile a una bettola; a un tavolaccio erano già sedute altre quattro persone e il servo ci additò l'orcio dell'acqua. Il luogo, nonostante l'indiscutibile povertà, appariva accogliente a chi giungeva dall'esterno, complice un gradevole profumo di cucina e la frescura emanata dal pavimento di terra battuta. Un giovane seduto a un passo da noi, un portaordini a giudicare dalla divisa con i fulmini, ci aveva visto entrare e aveva notato la rapidità con cui avevamo dato fondo all'orcio. Non si trattenne dal commentare, con un sorriso: «Si vede che siete nuovi di qui!». «Sì, veniamo da Alexandria.» «Andate al presidio di Mons Claudianus?» «No, siamo diretti a Porfirites.» «Io vado alle cave di Mons Claudianus. Sono appiedato anch'io, non porto messaggi importanti. Mi chiamo Nicasio. Voi non mi sembrate scalpellini.» Il giovane, quasi di sicuro un ausiliario, aveva camminato da solo per tutta la giornata ed era in vena di chiacchiere. Gli altri tre uomini seduti intorno alla tavola stavano discutendo tra di loro in un dialetto incomprensibile e, a giudicare dall'odore penetrante che arrivava fino a noi, dovevano essere asinai. «Siamo architetti, in effetti» confermai al portaordini, ricevendo un calcio nello stinco da Lucio che mi ricordava di non spargere informazioni. Ci interruppe il servo, che mise in tavola la pignatta col rancio caldo: un minestrone di fagiolini, ceci e pollo in cui spezzammo il durissimo pane. «Vi restano da fare due giorni di strada», sorrise il giovane portaordini «se non avete del bagaglio pesante arriverete presto!». «Capisco che tu sei pratico di questi luoghi», osservò Lucio col tono amichevole che usava quando voleva cavare delle informazioni a qualcuno, «raccontaci di Porfirites, noi non ci siamo mai stati». «Non è un brutto posto, credo che ci lavorino quasi un migliaio di uomini. L'esercito paga bene alle cave.» «Paga tutti? Non ci sono servi?» «Sia a Porfirites sia a Mons Claudianus di servi ce ne sono pochi; sono impiegati solo nei lavori più semplici, come curare gli animali da tiro o coltivare qualcosa negli orti. Non li fanno lavorare sui marmi preziosi. Gli scalpellini delle cave sono tutti uomini esperti, gli ufficiali non vogliono correre il rischio che le lastre o le colonne vengano rovinate da gente incapace!» «C'è caldo così anche a Porfirites?» Il giovane sorrise: «Questo è niente, la stagione calda è già passata. Ma a Porfirites starete meglio, è in mezzo ai monti, là si lavora anche d'estate». Chiacchierammo per un altro po' di cose vane, ma il giovane non sapeva nulla degli ufficiali presenti a Porfirites, che era poi la sola cosa che interessava a Lucio.
Dormimmo insieme agli altri su stuoie d'erba halfa in una stanzetta che fungeva da camerata e, a notte fonda, all'inizio della quarta vigilia , molto prima che il sole si alzasse in cielo, ci organizzammo per partire. Riempimmo gli otri alle giare per l'acqua che costituivano il deposito del fortino e, fatto bere abbondantemente il lupo Edrich all'abbeveratoio degli animali, ci avviammo per un'altra giornata di cammino. Dopo poche centinaia di passi, alla spettrale luce della luna e delle stelle, fummo di nuovo soli con la polvere e il rumore delle calighe sull'arida ghiaia. «Guarda queste colline deserte: non avrei mai pensato di poter finire così lontano. Questo deve essere il luogo più remoto dell'impero!» Lucio sorrise: «No, Marco. Il luogo più lontano che potresti raggiungere, credo che sia il fiume Osroene, la porta del regno dei Parti. Ma credo che comunque anche queste montagne dell'Alto Egitto siano una meta assai lontana per dei comuni cittadini di Roma». Dopo un istante aggiunse: «Tu temi che possano cercarci anche qui?». «Non lo so, Lucio. Siamo pur sempre dei fuggiaschi e non sappiamo come funzionino le cose da queste parti.» Lucio annuì serio, e non aggiunse altro.
Quando il sole si alzò nel cielo, cominciò l'assedio di mosche e tafani e intravedemmo in lontananza una moltitudine di animali e persone. «È la carovana di cui avevamo udito al posto di sosta.» Ci spostammo a lato della strada per non essere d'intralcio: erano due giganteschi carri con otto ruote ciascuno, trainati da due tiri di una trentina d'asini affiancati dai servi che li guidavano. Quando ci passarono davanti, vedemmo bene il carico: su ciascun carro erano sistemate, accuratamente protette da tavole di legno e bloccate da funi e cunei, tre pesanti colonne di porfido viola, lunghe non meno di una dozzina di piedi ciascuna. «Sono solo sgrossate! Certo, non è che così pesino di meno» osservò Lucio. «La rifinitura si fa sul luogo di destinazione, e la lucidatura finale viene fatta solo quando sono sistemate sul frontone.» Conoscevo la tecnica di costruzione, era il mio lavoro. Con l'indice feci segno al lupo e lui, ubbidiente, si accucciò a terra dietro di me come qualunque animale mansueto, per non innervosire gli animali da tiro. La vista del lupo non sfuggì ai servi addetti agli asini, che si fecero segno l'un l'altro finché il conduttore della carovana non fece schioccare la frusta. Un servo, chinandosi di tanto in tanto, dava una manata di sego sugli assali in movimento. Si allontanarono al passo lasciando un po' di polvere sollevata da terra, simile a bassa foschia, e qualche escremento degli animali da soma. Riprendemmo il cammino a passo sostenuto per cercare di coprire quanta più distanza possibile prima che il giorno cominciasse a bruciare sopra le nostre teste.
Il pomeriggio del giorno seguente iniziammo a udire il cupo brontolio dei martelli degli scalpellini. Il rumore, amplificato dall'eco, proveniva dal colle roccioso in fianco della strada. Infine, superata una svolta, apparve il presidio: una bassa fortezza i cui muri, alti una dozzina di piedi, erano costruiti con scaglie di porfido fermate qua e là da una manciata di terra argillosa impastata con l'acqua. Un legionario al portone d'ingresso montava svogliatamente la guardia. «È questa... la nostra destinazione?» Lucio annuì osservando lo squallore del posto. «Chissà quanto tempo dovremo rimanere qui.» «Rimarremo nascosti per il tempo necessario a che le acque si chetino. Qui riuscirò a ottenere dei documenti veri, senza quelli non posso muovermi liberamente.» «Potrebbero essere necessari mesi... o anni!» «Per il momento confondiamoci tra i civili che lavorano per l'esercito. È una buona copertura, per quanto non sappiamo chi comandi qui. Dobbiamo solo lasciar passare un po' di tempo, poi vedremo.» Il legionario di guardia ci osservò con curiosità, non vedeva spesso dei civili arrancare fino al presidio da soli. «Dovremmo parlare col centurione o con l'ufficiale che è in comando in questo presidio» domandai. «Vuoi vedere il centurione Catena?» Annuii. Indicò il lupo: «Quell'animale lì... è tranquillo?». «Sì, non è pericoloso, è con me.» Ci fece segno di seguirlo. Appena passate le mura ci trovammo in un polveroso cortile di terra battuta; vi si affacciava un gran numero di cellette con rustiche porte di legno, quasi un alveare. Somigliava più a un caravanserraglio che a un avamposto militare. Il legionario batté a una porticina con il sasso che penzolava da uno spago legato allo stipite, e un grugnito dall'interno rispose che potevamo entrare. Il centurione Catena, in veste civile e dall'aspetto trasandato, era a tavola intento a sgranocchiare un pollo; pezzi di pane e un orcio di vino ingombravano il ripiano e nella stanzetta aleggiava un afrore di sudore stantio, di urina e di vino scadente. L'ufficiale era del tutto adatto allo squallido ambiente: il ventre gonfio e flaccido era malamente trattenuto dallo spago che gli stringeva la veste alla vita, e l'alito pestilenziale, a causa dei denti guasti e neri, giungeva fino a noi. «Centurione, siamo i nuovi architetti» mi presentai, «forse il nostro arrivo ti è stato comunicato con un messaggio da Tebe alcuni giorni fa». «Parli tu che sei il più giovane? E quello lì?» commentò l'ufficiale indicando Lucio con la mano gocciolante di unto di pollo. «Il liberto è il mio aiutante, l'architetto sono io.» «Ma... non sei un po' giovane per fare l'architetto?» «Sì, sono giovane, ma come leggerai nella lettera che mi hanno dato, sono stato interrogato all'ufficio di Alexandria: hanno verificato che sia in grado di svolgere il lavoro che è richiesto e mi hanno controllato i documenti.» Mi sarebbero bastate poche parole per dimostrare che ero davvero un architetto, quello era sempre stato il mio lavoro; era la mia giovane età, avevo appena ventun anni, che giocava a mio sfavore. Anche la peluria sul mento non faceva buona impressione: pochi peli storti che andavano ognuno per conto proprio e non si decidevano a formare una barba come si deve. Ma qui eravamo in una cava in mezzo al deserto e di sicuro non potevano sperare di avere un architetto di chiara fama. L'ufficiale posò gli occhi sul lupo: «E quell'animale lì? È tuo?». «Sì, centurione, è ben addestrato ed è utile per fare la guardia. Se permetti ora ti mostro i documenti miei e quelli del liberto. Mi è stato affiancato da mio padre perché mi aiuti nel lavoro, è esperto nei calcoli e ha molti anni d'esperienza.» Il centurione era incuriosito dal lupo più che da noi due: «Qui se ne vedono ben poche di quelle bestie, non che non possano essere utili come animali da guardia». «È un ricordo della mia casa d'origine!» mentii. «È con me da un paio d'anni. È ben addestrato, ti assicuro che non combinerà guai». «Sarà meglio per te, sembra proprio un lupo selvaggio! Se dovesse fare danni al pollame o spaventare gli asini, o la gente che lavora, te ne dovrai sbarazzare!» Approfittai dell'istante di distrazione per porgergli le tavolette di legno con i permessi per viaggiare e i papiri che attestavano le nostre identità. Il centurione si concentrò a leggere la lettera che mi avevano scritto ad Alexandria, lasciando i documenti di Lucio ben chiusi sul tavolo. Gli interessava l'architetto, non aveva nessun desiderio di approfondire la conoscenza del liberto che fungeva da aiutante. «Ventun anni c'è scritto qui», commentò, scuotendo il capo. «Io mi aspettavo un architetto esperto, il lavoro alla cava è assai impegnativo!». Lucio si era spostato un po' dietro di me. Era una manovra che avevamo usato anche in altre occasioni simili per dissimulare la sua vaga aria da ufficiale dell'esercito: egli intimidiva la gente con la figura eretta e l'assoluta mancanza di quella sottomissione che dovrebbe essere prerogativa dei servi. Perfino con i capelli rasati a zero e la tunica lacera conservava ancora l'aspetto autoritario. Chi l'avesse udito parlare poi, o avesse avuto modo di conoscerlo un po' meglio, si sarebbe accorto subito che non era un liberto. «Non erano questi gli accordi!» mugugnò il centurione. «Qui c'è da mandare avanti una cava gigantesca, ci sono centinaia di scalpellini da tenere al lavoro! E mi hanno mandato un giovane! Poco più che un ragazzo!» sbuffò. La presentazione era andata come volevamo: ci era già capitato che venissero fatte osservazioni sulla mia giovane età e più di un funzionario era andato a curiosare nei miei permessi per capire qualcosa di più. Concentrare l'interesse su di me era utile per evitare che si controllassero a fondo i documenti di Lucio. Era nella lista dei proscritti e qualunque militare avrebbe potuto arrestarlo e mandarlo a morte. I suoi documenti non erano falsi, ma appartenevano a un'altra persona. Li avevamo comprati ad Alexandria, dove perfino lungo le strade c'era un traffico fiorente di permessi rubati ai passanti o addirittura falsificati. Eravamo stati favorevolmente impressionati da un permesso appartenuto a uno scrivano distratto, un certo Lucilio Stazio. Il lasciapassare era in eccellenti condizioni e Lucio lo aveva acquistato perché, essendo intestato a un italico con un'assonanza col suo vero nome, io avrei potuto continuare a chiamarlo Lucio senza sollevare sospetti né rischiare di tradirci. I suoi documenti, quelli veri, li avevamo lasciati addosso a un morto in Germania Superior tre mesi prima, e quello era il motivo per cui non era più ricercato. «Se starete al vostro posto e non combinerete sciocchezze, vi troverete bene qui» concluse il centurione Catena dopo aver esaminato di malanimo i miei documenti. «Lo sapete, i denari girano, chi viene in questo posto desolato lo fa per il bottino che può raccogliere in un anno o due, e anche voi avrete fatto i vostri conti! Hai capito, allora, per il tuo lupo? Non deve disturbare gli animali da tiro né il pollame!» «Sei stato chiaro, centurione, l'animale è ben addestrato e non avrai lamentele.» Cosa verissima, il lupo ubbidiva ciecamente ai miei ordini. Con un martelletto il centurione diede una scossa a un piatto di bronzo al cui suono argentino si presentò un optio, un uomo coi capelli bianchi che aveva non meno di una sessantina d'anni. «L'optio Ebuzio Felice vi condurrà dall'architetto Andronico che domani vi metterà al lavoro. Felice, falli sistemare da lui, ha spazio per altre due persone nella sua stanza.» L'optio ci fece segno di seguirlo. Attraversammo una sequela di stretti corridoi e bugigattoli in cui erano stipati sacchi di cereali, infine giungemmo alla stanza dell'architetto: un vano senza finestre in cui solo una stretta fessura sopra la porta lasciava entrare un po' della morente luce del giorno. «Starete qui con l'architetto. Adesso non c'è, sarà andato a mangiare. Aspettate qui, vedrete che arriverà.» E se ne andò per i fatti suoi. La stanzetta, come tutto il forte, mostrava muri costruiti con scaglie di roccia di scarto della cava, a malapena fermate con qualche manata di terra impastata distribuita qua e là. L'ambiente era veramente squallido. Il lupo Edrich fiutò ovunque: la stanza, come tutto il forte, era impregnata di uno strano odore, un miscuglio di sudore, urina e resina dei pali che sostenevano i tetti. «Forse ci converrebbe trovare una sistemazione sotto le tende che abbiamo visto arrivando» commentai. «Noi romani preferiamo stare tra mura di pietra», disse una voce dietro di me, «le tende sono per i servi e per gli egizi che lavorano nelle stalle e negli orti». Sulla soglia era comparso un vecchio d'età indefinibile con il viso incorniciato da una lunga barba e da capelli canuti, vestito malamente con una veste sporca e piena di toppe.
Claudio Rossi
|