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Autore: Claudio Rossi
Un inverno in Armenia
Storico Avventura
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Un inverno in Armenia

I. Seleucia di Pieria.

Il greco ed io fummo arrestati sulla soglia del magazzino di cordami del mercante Sostene, al porto di Seleucia. Era uno degli ultimi giorni di aprile del 715.
Ormai si parlava apertamente di una nuova guerra contro i parti e la città era affollata di soldati che sbarcavano dalle navi per avviarsi verso Antiochia; per quello non avevo dato peso a una dozzina di legionari, agli ordini di un ufficiale privo di insegne, un optio o un frumentario, che ci attendevano al varco.
Mi resi conto subito che tentare la fuga era cosa impossibile e inutile.
«Sei tu l'agrimensore Fausto Quintilio?» domandò l'ufficiale, già sicuro della risposta.
Prese per un assenso la mia indecisione nel rispondere, e fece segno ai legionari di prendermi in custodia.
«Viene con noi anche il suo segretario, il greco», aggiunse senza nemmeno alzare la voce. Quindi con due dita indicò ai suoi uomini il pescatore che era venuto a prenderci per condurci a Tiro.
Due legionari lo spinsero contro il muro del magazzino e lo coprirono di bastonate senza nemmeno dargli il tempo di protestare. Il poveretto dopo i primi colpi finì a terra, ma la gragnuola continuò finché non fu evidente che aveva perso i sensi.
Il liberto Hicesius, il greco mio segretario, aveva fissato il pestaggio ad occhi sbarrati, deglutendo e temendo che anche a lui sarebbe toccata la stessa sorte. Ma non fummo maltrattati, e nemmeno ci legarono le mani. Quattro legionari si schierarono al nostro fianco e ci scortarono in una caserma attaccata alle mura, un edificio in cui erano ospitati, supposi, gli uomini che prestavano servizio al dazio alle porte della città. Ci fecero entrare in un alloggio privo di finestre e il legionario più anziano ci rivolse poche parole: «La latrina si trova in fondo al corridoio. Non tentate di andarvene, la cosa non sarebbe presa bene dall'ufficiale», e fece il gesto di scorrere il pollice al disotto del mento.
Vennero messi due uomini a sorvegliare il corridoio, ma la porta rimase solo accostata.
«Ci capisci qualcosa, Hicesius?» domandai al greco non appena fummo lasciati soli.
Egli stava esaminando la povertà della stanza e delle due brande. Scosse il capo: «È assai difficile capire cosa stia accadendo, Quintilio. Questo non è certo un carcere, e ci hanno presi in consegna limitandosi ad avvisarci. Ci hanno persino lasciato le sacche da viaggio. Credo però che un tentativo di fuga non sarà tollerato».
«Già. Lo credo anch'io. Ma perché non ci hanno condotti in un carcere?»
«Forse non vogliono che parliamo con altre persone. Quell'ufficiale che comandava il drappello non è né un centurione né un optio in servizio regolare, deve essere qualcosa d'altro.»
«Credi che stiano origliando ciò che diciamo?» gli sussurrai all'orecchio.
Hicesius scosse il capo: «A che pro, Quintilio? Siamo nelle loro mani, se vogliono possono torturarci e farci confessare anche ciò che non abbiamo fatto».
La nostra situazione non era semplice: ce ne eravamo andati di soppiatto senza averne ricevuto l'ordine, e questa nell'esercito è considerata diserzione. Eppure non sembrava un vero arresto, nel qual caso ci avrebbero condotti da un ufficiale o consegnati al carnefice. Hicesius, che era intento a tastare la branda, l'aveva già capito.
«Greco, non c'è bisogno che ti ricordi cosa stiamo rischiando» insistetti. «Ma fammi capire: come mai non ti vedo tremante e pieno di paura?»
«Quintilio, noi siamo appena rientrati da una sciagurata operazione in cui nemmeno abbiamo capito chi fossero i nostri veri nemici, e forse essere imprigionati fa parte della catena di inevitabili disgrazie che sono l'essenza stessa del tuo disgraziato lavoro.»
«Ma... come sarebbe a dire che non sappiamo chi siano i nostri nemici? Io credo che tu non ti renda conto di cosa rischiano i disertori!»
«So benissimo qual è la pena per i disertori. Volevo solo farti osservare che per mesi siamo stati assillati dal timore di essere catturati dai parti per essere impalati. Ma con quelli non abbiamo mai avuto problemi, e ora che siamo rientrati nelle terre della repubblica sembra invece che i nostri nemici più pericolosi si trovino qui.»
«Una volta tanto, visto che siamo nei guai, potresti evitare di parlare per enigmi? E cosa c'entrano ora i nostri nemici?»
Hicesius non raccolse, mi degnò a malapena di uno di quei suoi sguardi da cane bastonato per far intendere che non aveva colpa lui dell'accaduto, infine mormorò: «Ci hanno portati qui per qualche altro scopo, serviamo loro in buona salute e non fustigati. Ma quale sia questo scopo non posso di certo saperlo».
Hicesius doveva avere ragione. Gli capitava spesso di avere ragione, specialmente quando non erano presenti delle donne con cui darsi dell'importanza, e quando non c'era nulla che avesse a che fare con la letteratura o con papiri ammuffiti.

Senza che venissero mai usate le cattive maniere, ci tennero segregati per tre giorni. Avemmo tutto il tempo che ci serviva per discutere su chi fossero i nostri veri nemici, e su ciò che stava accadendo nella repubblica dopo la spartizione delle province tra i triumviri. Seleucia di Pieria era in Siria, ed eravamo quindi sotto il comando di Marco Antonio, il luogotenente di Cesare.
La sera del terzo giorno, mentre il greco leggeva alcune pagine di Tucidide, quel suo concittadino che, secondo lui, era un lume nella notte, un legionario venne con un tavolino e nuove lucerne, indizio sicuro che presto avremmo avuto visite.
A notte fonda udimmo parlare nel corridoio, e quando il legionario aprì la porta entrò un trentenne di bella presenza, dai capelli nerissimi e l'aspetto italico. La divisa era quella d'ordinanza ma non portava nessun segno distintivo del grado. Aveva con sé una voluminosa cartella di cuoio; diede un'occhiata alla miseria dell'alloggio e disse: «Bene, vedo che c'è anche il segretario greco...» e fece segno ai legionari che desiderava essere lasciato solo con i prigionieri.
«Io sono Lucio Commidio Gemino», si presentò, aprendo la cartella e traendone fogli di papiro, calami e la boccetta dell'inchiostro; Hicesius, che aveva capito che si sarebbe scritto, provvide ad alzare lo stoppino dei lumi.
«La vostra missione non è finita, e mi dicono che tutti e due vi siete allontanati dal servizio in cui eravate stati comandati senza averne ordine, e nemmeno avete chiesto il permesso al vostro superiore.»
Ritenni necessario mostrarmi collaborativo, data la premessa, e mormorai: «Siamo ai tuoi ordini».
Gemino fece segno col capo d'aver gradito la risposta, e aprì i suoi papiri: «Mi risulta che siate civili aggregati al Genio, e che la vostra presenza qui in Siria sia stata richiesta dal generale Corvo proprio per partecipare a questa missione».
Feci un cenno d'assenso senza interromperlo.
«Risponderete al generale Corvo, visto che siete alle sue dirette dipendenze. A me invece dovrete dare dei chiarimenti su alcuni fatti su cui sto indagando e che non hanno una logica spiegazione. Mi riferisco a ciò che è accaduto durante la missione in Armenia.»
Dalla proprietà di linguaggio capii che mi trovavo davanti una persona istruita, forse un tribuno, e gli risposi: «Poni le domande, ti risponderemo per ciò che sappiamo e di cui siamo stati testimoni». La posizione mia e di Hicesius però era abbastanza difficile e aggiunsi: «Ci saranno conseguenze per noi?».
L'ufficiale mi diede uno sguardo serio e senza sbilanciarsi rispose: «Vedremo».
Tra i papiri che aveva posto sul tavolo c'erano lettere e permessi, e alcuni fogli cuciti insieme a un angolo per evitare che si disperdessero; tra di essi riconobbi l'elegante grafia del Generale Corvo e la relazione che Hicesius ed io alcune settimane prima avevamo preparato per il Comando di Antiochia. Sapevamo che sarebbe finita nelle mani di Publio Canidio Crasso, il luogotenente di Antonio, e il tribuno Lucio Commidio Gemino che mi stava interrogando doveva essere uno dei suoi aiutanti.
«Vedo dal tuo sguardo che hai già riconosciuto la tua relazione», disse. «L'ho letta attentamente diverse volte e la conosco quasi a memoria, ma voglio sapere di più su come vi siete mossi, sulla gente che avete incontrato e sui controlli a cui siete stati sottoposti. Ora tu e il tuo segretario greco mi racconterete tutto ciò che avete visto e fatto, a partire da quando siete sbarcati in Siria».
«...fin da quando siamo sbarcati in Siria?»
«Sì, fin da quando siete scesi dalla nave. So che siete stati richiamati dall'Hispania e risulta che siate giunti ad Antiochia l'estate scorsa. Voglio sapere con chi avete parlato e cosa vi siete detti, fin da quando avete messo piede in Siria. Molti fatti accaduti durante la vostra missione li conosco già, ne ho discusso a lungo con il generale Corvo e con altri testimoni, per cui vi dirò io di saltare ciò che è già noto.»
«Capisco», sussurrai. «Inizierò a narrare proprio da quando siamo sbarcati sul molo di Seleucia, a poca distanza da qui. Il segretario Hicesius ha buona memoria essendo un letterato, e mi interromperà per fornire precisazioni se sarà necessario».
L'ufficiale non aveva mostrato astio, forse ci avrebbe aiutati ad alleggerire la nostra posizione. Ragionai anche che il mio racconto avrebbe richiesto molto tempo.
Collaborare era l'unica possibilità.
Tornai quindi con la memoria al lungo viaggio per mare che avevo fatto da Roma fino a Seleucia, e alla mattina in cui la nave era entrata in porto.
Un pensiero però mi colpì: l'ufficiale che mi interrogava aveva detto che voleva sapere con chi avevo parlato.
Capii che stava cercando una spia o un traditore.

II.

Era trascorso quasi un anno da quando ero sbarcato a Seleucia, il terzo giorno alle idi di luglio del 714.
I marinai della nave che dall'Italia mi aveva condotto qui avevano gettato le funi per l'attracco al molo a pochi passi dalle mura di Seleucia. Mura robuste, costruite con blocchi squadrati di pietra giallastra. La porta d'accesso alla città, sorvegliata da legionari in armi, dava proprio sul porto. Dopo una ventina di giorni trascorsi sul mobile tavolato della nave, la terra ferma sotto i piedi faceva uno strano effetto, e il liberto Hicesius mi seguiva ondeggiando, spaesato.
Gli ordini che avevo ricevuto al Comando dell'Urbe erano chiari: dovevo attendere alla porta della città che il tribuno Prisco mandasse qualcuno ad accompagnarmi in caserma. Mi sistemai quindi, con il segretario e le sacche da viaggio con le nostre cose, proprio a fianco della guardiola del dazio, e rimasi ad attendere.
Verso l'ora ottava vidi un optio nel bel mezzo della porta che si guardava intorno; scambiò due parole con gli uomini di guardia, e infine guardò fisso verso di me. Gli risposi con un cenno del capo.
«Siete voi i due agrimensori che vengono da Roma?» domandò.
«Sì... l'agrimensore Fausto Quintilio sono io, e il liberto greco è il mio segretario Hicesius da Thessalonica. Dobbiamo venire con te?»
«No, hai ordine di recarti a uno stallaggio poco fuori città, sulla via per Antiochia. Dovrai rimanere lì e attendere altri ordini.»
«Quindi non devo venire in caserma?»
«Agrimensore... sei forse sordo? Devi uscire dall'altro capo della città e proseguire sulla via di Antiochia per due miglia. A un certo punto, sulla sinistra, presso alcune abitazioni di contadini, vedrai uno di quegli stallaggi che sono utilizzati dall'esercito. Lo riconoscerai perché alla finestra ci sarà un drappo rosso. Hai capito?»
Non potei che annuire, e feci l'atto di prendere la mia sacca. Il liberto Hicesius, a cui sembrava strano che non potessimo sostare nemmeno un giorno o due in una caserma in cui avremmo trovato delle brande e una mensa, sussurrò: «Quintilio... dobbiamo partire subito?».
L'optio lo udì e scosse il capo: «Vedete di non fare i lavativi, voi due! Qui a Seleucia abbiamo la disciplina, non fatevelo ripetere. Hai capito anche tu, liberto?». Gli lanciò un'occhiata bruciante quindi, senza nemmeno salutare, se ne andò per gli affari suoi.
Oltrepassammo la guardiola del dazio ed entrammo in città; ci inoltrammo lungo una grande via lastricata i cui portici, a destra e sinistra, traboccavano di botteghe di ogni genere alternate a magazzini bui di terraglia e di cordami, depositi di anfore di vino e di tutto ciò che si può comprare o vendere in una città di mare. La babele era immensa, legionari mischiati a gente comune sciamavano come le api sul favo e dovetti ricordare a Hicesius ciò che un marinaio ci aveva detto sulla nave: «Tieniti ben stretta la sacca! Se qualche ladro vede che sei un forestiero e te la strappa non riusciremo mai a inseguirlo in questa confusione!».
Egli mi fissò con gli occhi ridotti a una fessura e la strinse tra le braccia come se portasse un infante. Il liberto, un greco quasi sessantenne il cui aspetto lo qualificava come scrivano o letterato, era magro come un chiodo e avrebbe potuto confondersi facilmente con uno del posto, cosa che a me, italico e di carnagione chiara, non sarebbe mai stata possibile.
Ci fermammo al carretto di un venditore ambulante di cibi pronti, un grassone barbuto intento ad arrostire della carne su un braciere di terracotta fumante che spandeva un gradevole aroma di carni e spezie; ci concedemmo uno spuntino con pane fresco e cipolle in salsa, a cui aggiungemmo delle listarelle di montone arrosto. Festeggiammo il termine del viaggio per mare aggiungendo un boccale di birra d'orzo.
Non avevamo visto né a destra né a sinistra una bottega di libri che Hicesius andava cercando, e al bianco obelisco che segnava la piazza centrale prendemmo la strada che si dirigeva a levante. Uscimmo dalle mura alla porta di Antiochia insieme a gente che andava di fretta, servi agli ordini di qualche mercante, asini e carretti.
Non parlammo molto; dopo i giorni trascorsi in mare eravamo frastornati dalle novità e dai rumori di Seleucia.
Due miglia più avanti intravedemmo sulla sinistra lo stallaggio che ci aveva descritto l'optio, a pochi passi da alcune casupole cadenti con i tetti di cannicci.
Come mille altri stallaggi distribuiti lungo le strade era un edificio basso, con muri di sassi tenuti insieme da manciate di terra impastata; avrebbe potuto ospitare una dozzina di cavalli. Vedemmo subito il segnale che ci avevano detto di cercare: uno straccio rosso legato alle sbarre di legno della finestrella che dava aria alla stalla.
Nessuno ci stava osservando ed entrammo. Ma qualcuno si era già accorto di noi: un tizio corpulento che indossava una veste sporca, in apparenza un mendicante con barba e capelli in disordine, stava fingendo di sonnecchiare nel fieno.
Mentre Hicesius ed io eravamo ancora sulla soglia, senza nemmeno mostrare il viso si alzò per dare un'occhiata fuori dalla finestrella, forse temendo che fossimo dei malfattori. Constatato che eravamo soli e non c'erano altri compari in strada, si decise a esaminarci meglio con un lungo sguardo.
Nonostante l'aspetto trasandato lo riconobbi subito: il centurione Osterio, infatti, non poteva essere confuso con nessun altro. Le spalle tozze lo facevano assomigliare a un ceppo, e la cicatrice che dall'occhio sinistro gli giungeva al mento era inconfondibile. Era stato ferito un paio d'anni prima, quando prestavamo servizio insieme in Giudea, nel presidio di Jerusalem.
Anch'egli, non meno sorpreso di me, mi riconobbe ed esclamò col suo vocione cupo: «Per il dio Sterculo! Ma tu sei la mezza sega dell'agrimensore! E quello lì è quel buono a nulla del greco! Cosa ci fate qui? Avete disertato?».
«No... non abbiamo disertato... ci hanno detto di venire qui. E immagino che anche tu non ti trovi in questo stallaggio per caso!»
Il centurione venne a osservarmi da vicino, e non riuscii a trattenere un sorriso sentendo l'odore acido di sudore stantio e di vino scadente che sempre l'accompagnava. Nonostante indossasse una veste civile consunta, portava ancora con sé persino l'afrore inconfondibile del sego e della ruggine di ferro della cotta ad anelli. Era sporco come un furfante da strada, e rimasugli di cibo unto gli erano rimasti come grumi nella barba; nessuno avrebbe mai sospettato che sotto quel travestimento, che gli era così congeniale, potesse celarsi un ufficiale del nostro esercito.
«Voi due vi muovete sempre in coppia...», sussurrò, «ve l'ho già detto altre volte, sembrate proprio due amanti! E tu, agrimensore, non vorrai dirmi che sei capitato qui per caso... non è che hai qualcosa a che fare con me? Chi ti ha detto di venire qui? Parla!».
«Sto eseguendo degli ordini, Osterio!», ribattei prima che si scaldasse. «Devo rimanere qui fino a sera, poi forse giungerà qualcuno».
Per nulla convinto, il centurione piantò gli occhi addosso ad Hicesius: «Tu, greco, sei una vera zecca! Devi sempre stare appiccicato a qualcuno. Lo sanno che sei qui anche tu?».
Il greco tentò timidamente di rispondere, ma prima che riuscisse ad aprire bocca venne zittito: «Avevo temuto di essere stato trasferito per punizione... ma che voi due mi capitiate tra i piedi un'altra volta, è davvero troppo!».
«Centurione», tentai di blandirlo, «noi non ti daremo nessun disturbo, e in ogni caso presto potrai chiedere spiegazioni a chi ti ha detto di venire qui».
«Il difetto della chiacchiera non l'hai proprio perso, vedo.»
Ma a questo punto gli era già sfuggita una smorfia che, solo per colpa della cicatrice che gli deformava completamente l'espressione del viso, non era possibile riconoscere per un sorriso.
Il centurione Osterio era così di carattere, sempre pronto ad abbaiare per un nonnulla e a fare sfuriate. D'altra parte, da anni il suo compito era quello di reprimere giovani reclute ignoranti. Ma in fondo mi parve che gli facesse piacere rivederci.
«Se ci hanno radunati qui ci sarà una ragione, immagino», gli feci notare con il dovuto rispetto. «Tu non ne sai nulla?».
«A un novellino come te dovrei raccontare quali sono gli ordini che mi ha dato un ufficiale?»
Diede un'altra occhiata dalla finestrella e domandò: «Avete qualcosa da mangiare?».
In pochi istanti ci organizzammo: a fianco dello stallaggio c'era un pozzo e il centurione si diede da fare per riempire la giara presso la porta, mentre io mi recai alle casupole che si trovavano a pochi passi per cercare un pezzo di formaggio e del pane. Con un paio di monetine di rame superai l'ottusa diffidenza di una vecchia e ottenni una formaggetta di capra e un cesto di fave.
Osterio era l'ultima persona che mi sarei aspettato di trovare a Seleucia. Mangiammo qualcosa insieme, ma egli non si lasciò mai sfuggire nemmeno un accenno ai motivi che l'avevano condotto qui, in vesti civili peraltro. Un riferimento alla vita militare gli sfuggì solo quando Hicesius, con le cautele del caso vista l'imprevedibilità del soggetto, gli chiese se il nostro vecchio comandante di Jerusalem, il tribuno Variale, godesse di buona salute.
«Non ho più saputo nulla del tribuno», rispose il centurione. «Venni trasferito a Ioppe poco dopo che voi ve ne andaste. Con il nuovo tribuno ho dovuto fare l'istruttore per centurie di reclute ignoranti... non so più dove li vadano a reclutare questi imbecilli! Insegnare qualcosa a delle reclute è peggio che fare la guerra. Parecchi non parlano nemmeno la nostra lingua, e quando dai un ordine devono prima guardare cosa fanno gli altri!».
«Con le conquiste di Cesare l'esercito recluta uomini nelle province, si sa», riconobbi, per non contrariarlo. «Ma perché dicevi che sei stato trasferito per punizione?».
Il centurione sbuffò, allungò una bella fetta di formaggio a Hicesius, che sgranò gli occhi nel vedervi impresse le ditate del centurione, scure come se avesse appena maneggiato del letame, e infine spiegò: «Voi lo sapete com'è la vita nelle caserme. Anche se siete solo degli inutili civili avete visto com'è quando si fa istruzione. A volte con le reclute che non vogliono capire non bastano le paroline dolci, spesso è necessaria la verga, o qualche spintarella».
Il centurione era un uomo manesco, chi sbagliava durante l'istruzione veniva punito con estrema severità.
«A volte capitano delle reclute che hanno la testa particolarmente fragile... come un guscio d'uovo!», concluse.
Non aggiunse altro, capimmo che aveva ammazzato una recluta.
Hicesius nel frattempo aveva terminato di grattare via, usando la lancetta con cui cancellava le pergamene, le ditate del centurione nel formaggio, ed io cambiai discorso.
Parlai del viaggio che avevamo fatto in mare, dall'Italia fino alle coste della Siria, e infine ci mettemmo nel fieno a sonnecchiare.

Claudio Rossi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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