10 febbraio, venerdì.
“No, questi senz'altro non sono miei”. È da qualche secondo che osservo perplesso un paio di sandali infradito in plastica nera, posizionati ordinatamente sotto il termosifone del bagno nella casa dove abito. Più che dei sandali infradito, hanno l'aspetto di due tavole da surf o da snow board. Sono infatti di una taglia abnorme che non saprei quantificare, così esagerata che potrebbero appartenere a Godzilla o al fratello maggiore di Gargantua. E comunicano la sensazione sgradevole che, in mia assenza, la casa sia stata abitata da qualche organismo extraterrestre di dimensioni sovrumane. Provo timidamente a calzarli ed è un'immagine che fa tenerezza. Quei dieci centimetri abbondanti che corrono fra la fine del mio tallone e il bordo di quelle specie di pinne mi ricordano quando, da bambino, infilavo le scarpe di mio padre e mi presentavo soddisfatto in famiglia, trascinando ai piedi le sue pantofole o i suoi mocassini. Ricolloco gli oggetti misteriosi sotto il termosifone, ascoltando lo schiocco che generano mentre atterrano sulle piastrelle verdi del bagno, e mi viene da pensare che qualcosa deve essere successo in mia assenza. Una lunga assenza. Mi chiamo Valerio Lupi, ho quarantuno anni, sono nato e vivo a Roma, ma ormai da quindici anni il lavoro mi trattiene per lunghi periodi lontano dalla mia città. Sono ingegnere minerario, specializzato nella ricerca dei giacimenti di petrolio e gas e nella progettazione e realizzazione sul posto degli impianti che ne consentono l'estrazione dal sottosuolo e la prima lavorazione necessaria per immetterli nella rete di trasporto verso le raffinerie. La mia è stata una specie di vocazione precoce, innescata, nei primi anni della scuola elementare, dalla lettura folgorante del capolavoro di Jules Verne, quel ‘Viaggio al centro della Terra' che si tradusse presto in una sorta di condanna per i miei genitori. Nel senso che ho continuato per tutti gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza a tormentarli con il mio desiderio incessante di visitare grotte e vulcani, ovunque si trovassero, e a pretendere giochi e letture sempre ispirate ai minerali, alla loro ricerca, e alle meraviglie nascoste sotto la superficie terrestre. Poi la tesina per la maturità sul vulcanismo, che mi consentì di raggiungere il massimo dei voti, il corso di laurea in Ingegneria a Roma, fortemente orientato verso quella specializzazione, completata con un master in Ingegneria Mineraria e Geologica in Inghilterra. Un'attenzione monomaniaca verso le profondità della Terra che ha sempre provocato le facili ironie delle mie amicizie adolescenziali, ma ha anche consentito un percorso verso il lavoro decisamente più rapido se rapportato alle peripezie sofferte dalla mia generazione. Dopo un paio di stage non retribuiti, ho infatti presentato il curriculum vitae alla International Oil Company, una delle più grandi compagnie private specializzate nella ricerca, estrazione e distribuzione di idrocarburi, che ha localizzato a Roma la sede da cui controlla le proprie attività nel continente africano. Un sommario colloquio negli uffici dell'Eur e mi spedirono in Canada per un corso di formazione nella loro scuola aziendale, poi il contratto e il primo incarico di lavoro, in missione a cercare petrolio nelle sabbie bollenti del deserto algerino. Dopo l'Algeria, la Libia, l'Egitto, la Tunisia, l'Angola, fino all'ultima trasferta in Nigeria, da cui sono rientrato questa mattina. Il contratto per la mia qualifica professionale e per questo genere di incarichi prevede che ogni sei mesi di missione all'estero il dipendente abbia diritto ad un periodo di rientro lavorativo di almeno trenta giorni nella sede di origine, periodo che a volte si può prolungare anche per mesi quando la compagnia ha in corso di progettazione una nuova missione o per motivate esigenze personali. La mia permanenza in Nigeria, in un impianto per l'estrazione di petrolio nel delta del fiume Niger, è stata questa volta decisamente più complicata del solito. Tutte le compagnie che operano nella zona hanno subìto infatti attacchi armati da gruppi di ribelli radicati nei villaggi locali, con danni alle persone ed agli impianti, e la situazione di emergenza è stata tale da non consentirmi il rientro al termine del primo semestre. Manco quindi da casa e non vedo Monica, la mia fidanzata con cui convivo, da un anno. Già, Monica. L'ho avvertita solo qualche giorno fa del mio rientro ed ho una gran voglia di vederla. Ci siamo conosciuti sette anni fa durante una vacanza estiva, insolitamente lunga per me, al termine di un incarico di lavoro in Tunisia. Con la congrua indennità di missione ricevuta mi ero comprato l'agognata Harley Davidson, da sempre la mia passione insoddisfatta, e avevo deciso di godermi la Sardegna in splendida solitudine, con moto luccicante e tenda. Monica, tre anni meno di me, era nello stesso campeggio con due amiche ed è stata una folgorazione reciproca, forse l'attrazione della diversità. Lei insegnante di materie letterarie in un liceo, grande appassionata di romanzi e con una chiacchiera inarrestabile, io intriso di cultura scientifica, riservato e di poche parole. Fatto sta che, dopo un giorno scarso di conoscenza, Monica ha salutato le amiche e abbiamo proseguito la vacanza noi due in giro per l'isola, anche se il mare l'abbiamo appena intravisto, dato che trascorrevamo delle magnifiche giornate rintanati in tenda a fare l'amore fino allo stremo delle forze. Dopo due anni la scelta di convivere e, con essa, l'inizio della crescente consapevolezza che la nostra diversità non era solo fonte di attrazione, ma anche di qualche incomprensione e conflitto. Monica è abitudinaria, molto legata gli affetti familiari e amicali, ordinata in modo maniacale e sempre alla ricerca di regole anche quando non servono. Io refrattario alle consuetudini e costantemente propenso alle esperienze nuove, ormai assuefatto ad un contesto di rapporti affettivi precari a causa delle lunghe assenze per lavoro, affetto da disordine cronico e felicemente dedito a spargere calzini e biancheria intima in giro per casa. È successo così che la nostra feconda passione iniziale abbia iniziato a cedere sotto i colpi di una tensione prima latente e poi manifesta, alimentata anche da scelte di vita divergenti, con i suoi accenni, sempre più frequenti, al desiderio di mettere su famiglia e la mia costante elusione del problema, visto che continuavo ad accettare missioni all'estero invece di valutare possibili alternative di lavoro nella sede romana della compagnia. Mentre mi scorrono in testa immagini e pensieri del rapporto con Monica, sono entrato in camera da letto e sono davanti al comò dove riponiamo una parte del nostro vestiario. È un mobile moderno con due colonne di quattro cassetti contrapposti per lato e il ripiano di marmo scuro, sovrastato dall'unico specchio della casa. Quasi a rassicurarmi della sua presenza, apro il mitico secondo cassetto della colonna di destra, riservata a lei, dove ripone la biancheria intima. Mitico perché più volte mi è capitato di descriverne il contenuto per rappresentare agli amici increduli il livello maniacale di ordine della mia compagna e convivente e le incolmabili differenze con le mie abitudini. Si, è tutto come al solito. Le sue mutande sono impilate in una modalità a me ignota, piegate in tre e addossate l'una all'altra in modo da restare sospese in posizione verticale, disposte in fila in ordine cromatico, dalle bianche, via via più scure, fino alle nere, e profumate con sacchetti di lavanda. Uno spettacolo da fare invidia ai migliori atelier di intimo femminile. Sorrido. È ora di vestirmi e quindi apro il corrispondente secondo cassetto della colonna di sinistra, destinato alla mia biancheria. I miei capi intimi sono accumulati su un lato del cassetto nel consueto disordine, mentre nell'altra metà campeggiano nuove inquietanti tracce dell'essere gigantesco, tracce delle medesime dimensioni abnormi dei sandali infradito. Osservo infatti, ancora più perplesso, una canottiera di cotone bianco che assomiglia ad un lenzuolo, e una mutanda da uomo a dir poco extra-extra-large. La sollevo per le due estremità dei fianchi ed osservo che ha praticamente le dimensioni di una busta della spesa, poi la ricolloco con cautela al suo posto, pensando, con reverente timore, a quello che potrebbe contenere. Beh, Monica avrà senz'altro qualcosa da raccontarmi sugli accessori del gigante, anche perché non li ho trovati occultati in qualche anfratto della casa, ma in bella vista, dove non avrei potuto non notarli. Intanto accantono il problema e penso a come accoglierla al meglio, facendole trovare la cena pronta. Questa mattina, dopo l'atterraggio del mio aereo a Roma, ci siamo scambiati solo un paio di messaggi whatsapp perché lei era a lezione in classe, e mi ha scritto che sarebbe arrivata a casa nel tardo pomeriggio a causa di una riunione degli organismi scolastici alla quale deve partecipare. L'occasione merita il mio piatto forte, a dir la verità il mio unico piatto forte. Mi cimento con successo, in genere il sabato, nel pesce al forno sul letto di patate. Oggi è venerdì e andrò dall'orefice per cercare una spigola, o un'orata, o magari una ricciola, la nostra preferita. L'orefice è l'egiziano titolare dell'unica pescheria del nostro quartiere: smercia specie acquatiche, molluschi e crostacei a prezzi da gioielleria e cerca pure di convincerti che stai per fare l'affare della tua vita. Sono quasi le sette quando suona il citofono, mentre sto predisponendo la teglia con il pesce. Vado a rispondere e sento la voce di Monica che mi dice “sono io”. “Da quando in qua citofoni ! Dai, sali, sto per mettere la ricciola in forno”. Mi sono persino tolto le scarpe e ho infilato le pattine bianche, come lei pretende dentro casa, praticamente il massimo possibile della mia accoglienza. Il tempo di sciacquarmi le mani in cucina e avverto il rumore della chiave nella serratura. Mi affaccio dalla porta della cucina sul corridoio, Monica entra e la guardo per una frazione di secondo. Mi sembra più attraente che mai. I capelli, scuri e mossi, sono più lunghi del solito e sono arrivati alle spalle, la carnagione è ambrata, anche ora a febbraio, un dono della sua splendida terra, la Puglia. Forse è leggermente ingrassata, ma le dona, in un equilibrato mix di fisionomia mediterranea che mi affascinò già al primo contatto. “Ehi, finalmente” – mi avvicino percorrendo il corridoio e mi appresto ad abbracciarla e baciarla sulla bocca, ma lei mi ferma e mi tiene a distanza con un braccio proteso. “Valerio, noi dobbiamo parlare, ora. Ci sono importanti novità che ci riguardano – dice gelida – vado in bagno a lavarmi le mani. Siediti e aspettami in salotto”. Eseguo, e mi siedo sul divano amaranto, uno dei pezzi di arredamento in teoria ‘scelti insieme', in realtà scelto da lei. Dopo qualche minuto Monica esce dal bagno, resta in piedi in salotto a debita distanza da me, mi scruta con l'espressione più combattiva del solito e a braccia conserte. Qualche secondo di silenzio e sono io a rompere il ghiaccio. “Che succede ?” “Che succede ? Succede che sei scomparso ! Sono stata mesi senza ricevere tue notizie e sono dovuta andarle a pietire dalle mogli dei tuoi colleghi. Tu non sei un compagno di vita, sei un fantasma !”. Parla a raffica, gesticola e passeggia per la stanza, è come un fiume in piena che ha rotto gli argini e allaga il salotto con tutte le mie presunte malefatte ai suoi danni. In ordine sparso: sei centrato su te stesso e non ti interessi alla mia vita, sei inesistente per la mia famiglia e i miei amici, dentro casa sei un disastro, non hai interessi per quello che succede nel tuo Paese e nella tua città, sei drogato di lavoro e, questa è la new entry, anche esclusivo responsabile del raffreddamento della nostra vita sessuale. Dopo venti minuti di soliloquio, tento di farle capire meglio quello che è successo in Nigeria, durante l'ultima missione, ma serve a poco. Gli attacchi armati al nostro campo base da parte dei ribelli, la fuga alla chetichella del responsabile della missione e del suo vice, la necessità di assumere io il coordinamento operativo delle operazioni che significava, in quella situazione, avere la responsabilità non solo degli impianti, ma anche della vita di centoquaranta persone. Le gravi difficoltà di comunicazione sofferte per diversi mesi, in quanto alcuni degli attacchi erano stati rivolti a colpire ripetutamente le antenne e la stazione telefonica. Dal tono insolito che ha assunto capisco che, in realtà, non ha intenzione di interloquire ed ha già maturato da tempo la sua decisione. E infatti... “Valerio avevamo già cominciato a discutere della nostra crisi prima che tu partissi”. Provo a replicare che, appunto, era una discussione aperta, ma lei prosegue. “Per me la discussione si è chiusa con il tuo silenzio. Dall'estate scorsa io ho iniziato una storia importante con un altro uomo ed abbiamo già deciso di trascorrere dei periodi di vita insieme” – e me lo comunica con un'agghiacciante freddezza negli occhi, come se fosse una scelta scontata e inevitabile. “In questa casa, mi sembra di capire. Quindi quei sandali mostruosi che qualcuno ha piazzato in bagno non sono di Polifemo, ma di un essere umano ?” – replico aumentando il tono della voce e alzandomi dal divano. “Certo, un essere umano, molto umano – mi ribatte stizzita – Carlo è alto due metri e zero uno ed è stato nazionale di pallacanestro. È un insegnante come me e mi è vicino nella vita di tutti i giorni”. “Quindi non posso neanche aspettarlo sotto casa per spaccargli la faccia ?” – ora sono io ad avere l'espressione incattivita. “Tu non lo faresti mai e comunque te lo sconsiglio vivamente”. “Veramente questa sarebbe la nostra casa” - insisto, ma già immagino la sua risposta. “Valerio sai bene che il contratto d'affitto è intestato a me e che, con il tuo stipendio, tu puoi permetterti di affittare qualunque casa. Noi no”. La sentenza è già stata pronunciata ed è inutile chiedere la grazia. In questi casi la mia eccessiva sintesi verbale non aiuta e vado in difficoltà, da sempre, quando sono aggredito a freddo. Mi esce solo un timido “ceniamo insieme, abbiamo bisogno di parlarne ancora, non puoi gettare via sette anni come...” “Stasera ceno con Carlo – mi interrompe bruscamente, alzando la voce – e ho già portato a casa sua l'occorrente per vivere una settimana da lui. Una settimana, Valerio, non di più. Ho qui tutte le mie cose, i miei libri, i materiali che mi servono per la scuola... e poi Carlo vive in un monolocale, impossibile starci in due più di una settimana”. “Beh, questo lo capisco, viste le dimensioni del personaggio, ma non vedo proprio perché dovrebbe diventare un problema mio. Hai la sensibilità sotto le scarpe se hai concepito di comunicare le tue decisioni facendomi trovare le mutande dell'amante nel cassetto”. Con questo sento che non abbiamo altro da dirci, esco dal salotto e vado in cucina a pulire il tavolo dai resti della preparazione del pesce. Lei prende dal ripostiglio una borsa sportiva e trascorre una decina di minuti in camera da letto e in bagno a riempirla di suoi effetti personali, poi ci infila anche un paio di libri. Quando si affaccia alla porta della cucina indossa già il cappotto blu e la sciarpa bordeaux, pronta per uscire. “Una settimana Valerio, ci conto – insiste ora, con tono più calmo – devi trovare una soluzione provvisoria... per esempio c'è quel residence molto carino vicino al tuo ufficio, potresti...” “Ora basta – esplodo – se pensi di organizzare anche la mia vita futura hai capito male. Ti farò sapere !”. E le faccio cenno con la mano di andarsene. Sento la porta che si chiude. Dal forno viene su un buon odore di pesce, ma non avrà lo stesso sapore a mangiarlo da solo.
Piero Malenotti
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|