È buio, sento il gelo del marmo sul viso; sono disteso a terra, in una tiepida pozza che si spande sul pavimento, stremato e con un dolore lancinante all'altezza del petto. C'è qualcosa tra le mie dita, un liquido denso e viscoso che sospinge il suo odore pungente verso la faccia. Ho freddo e non riesco a muovermi. Eppure sono tranquillo: in qualche modo sono riuscito nel mio intento. Vorrei tanto una sigaretta; e mentre penso che sarebbe meraviglioso poter uscire di scena come uno di quei pistoleri sopravvissuti a un duello mortale, che nascondono gli occhi tra la tesa di un vecchio cappello e il fumo denso di un sigaro davanti alla faccia, mi ritrovo lentamente a sorridere. Da qualche parte giace il mio antagonista. Non posso vederlo perché non riesco a sollevare le palpebre, ma ne sento l'ingombrante presenza. Spero solo sia morto, non ho forze per combattere ancora. È strano, ma mi sento felice. La paura ha allentato la presa e i miei pensieri tornano pian piano a schiarirsi senza più atrocità o storture che ne intaccano il corso. L'aria intorno è ferma, quieta, in un lieve silenzio che sembra il preludio di una serenata notturna. Un gesto con l'arco, un breve respiro e inizia la musica, tenera e appassionata: è una docile voce argentina sospesa nel tempo. Le note s'inseguono dolcemente, una sull'altra, in un canto espressivo che vorrei ricordare, domani, quando sarà tutto finito. Faccio fatica a respirare, ma non importa: la mia mente si rasserena e il tuo viso torna a splendere luminoso. È stupendo vederti di nuovo senza il filtro di un'oscura follia, gravida di demoni e mostri, che imbratta il mondo di una tinta violacea. Mi parli e la tua bocca è un papavero mosso dal vento, solo che non riesco a sentirti e la tua voce si confonde con quel suono amorevole che vibra nell'aria. Il dolore si affievolisce sotto un manto di freddo torpore che ricopre il mio corpo, mentre un tiepido tocco mi sfiora le labbra. Ha il sapore del sangue. Lo sento in fondo alla gola, sulla punta della lingua, e il suo odore s'insinua tra le narici fino al cervello, tingendo di un rosso amaranto la voce che canta nella mia testa. Pochi istanti di intensità, poi la melodia si allontana, sensuale e nostalgica, scolorando in un'eco leggera che si spande fino a dissolversi. Troppo breve. Il tuo volto svanisce e il tempo torna a scorrere silenzioso, lento e malinconico, come un addio che riverbera tra i vetri di un treno in corsa. Sono di nuovo solo, ma è stato stupendo e ... chissà? Forse domani tornerò persino a suonare. Rumori dal corridoio: qualcuno è entrato dalla porta d'ingresso, facendosi largo tra il tavolino, i mobili e i libri che ho rovesciato a terra mentre fuggivo dalla mia paranoia, nel tentativo di erigere una barriera tangibile che i fantasmi non potessero oltrepassare. Procede incerto, un passo alla volta, cercando di non scivolare in mezzo a tutto quel ciarpame di carta e legno; ha una voce familiare, forse l'unica voce amica che mi è rimasta. Lentamente il passo si fa più pesante e il suo incedere perde la sua prudenza. Avanza allarmato, poi d'improvviso si ferma e il fruscio dei pantaloni mentre si china sulle sue gambe è inconfondibile: raccoglie qualcosa da terra e rimane in silenzio, giusto il tempo di iniziare a capire. « Oh mio Dio no ... ». Apro un poco gli occhi e, in controluce, scorgo la sagoma nera di un uomo rialzarsi. Si guarda intorno e, non appena incrocio il suo sguardo, mi corre incontro, lasciando andare ciò che tiene stretto davanti a sé. Un riflesso di luce guizza nella penombra e il rumore squillante di qualcosa che rimbalza sul pavimento mi colpisce le orecchie. Il mio ospite sta gridando, ma le sue parole sono lontane, confuse e frenetiche; parla veloce e non riesco a capire quello che dice. Ho freddo, mi sento così stanco. Richiudo gli occhi e l'uomo urla di nuovo, con un tono potente che graffia la gola, quasi volesse soffocare un'ingombrante disperazione in fondo allo stomaco. Le sue mani mi scivolano sotto la schiena e in un attimo sto come volando: mi alza di peso, tenendomi in braccio, ma sono esausto e non riesco a tenere sollevata la testa che ciondola verso il basso. Piange, singhiozza; vorrei tanto dirgli qualcosa, ma sento braccia e gambe che oscillano inermi, pendendo scomposte sulle giunture di spalle e ginocchia. D'improvviso, il dolore torna in un unico impulso, tremendo e atroce, come una lingua di fuoco che brucia sulle ferite, mentre i sensi riaffiorano quel tanto che basta per mettere in fila il senso di poche parole. «Coraggio amico mio, ti porto in ospedale». Non sento più nulla, il dolore è un involucro troppo spesso che ricopre i miei sensi. Divento io stesso il dolore e tutto il resto si perde nel vuoto.
Quando rientrai a casa, qualche ora prima, era pomeriggio inoltrato. La lunga vetrata dell'ingresso risplendeva di un arancio vivo e, come sempre in estate, ebbi l'impressione che il tramonto fosse venuto a rintanarsi nel piccolo disimpegno antistante il salotto: che se ne stesse in silenzio ad aspettare il mio ritorno. Accesi una sigaretta e inalai a fondo, gustandomi le vertigini che ultimamente il fumo mi provocava, mentre gli occhi tornavano a rimettere a fuoco. Entrai in salotto con equilibrio ancora instabile e, con la cura di sempre, mi sfilai dalle spalle il violino per poggiarlo su quella che, tanti anni prima, era diventata la sua sedia. Uno sguardo distratto all'ambiente circostante in un giorno che sbiadiva veloce, mentre le gambe mi indirizzavano altrove. Infilai la cucina, con l'eco dei passi che ticchettava leggero, in lenta armonia con il vecchio pendolo poco lontano. Superai il tavolo e aprii la dispensa, in cerca dell'unica cosa che ormai mi teneva in vita in quel suo modo crudele e spietato: il mio demone verde – era così che lo chiamavo. Una lacrima scivolò via dagli occhi, accompagnata da un leggero indurirsi di labbra: il mio dolore si andava destando e non ero ancora pronto a riceverlo. Così arraffai senza troppa delicatezza il primo bicchiere che mi capitò a tiro, non badando al rumore di qualcosa che rotolava sul pavimento. Tornai di fretta in salotto con la sigaretta ben stretta alle labbra, senza accorgermi che anche il tramonto se ne era andato e le sue fulgide fiamme avevano lasciato il posto a una squallida e vischiosa penombra. Accesi la luce e mi lasciai cadere sul divano, mentre le dita si attorcigliavano intorno al collo della bottiglia in cerca del tappo. Respirai a fondo, gonfiando i polmoni, trattenendo meccanicamente il fiato, come il momento di lucida analisi prima del balzo verso l'abisso.
Saltai ...
Il primo bicchiere fu rapido e insapore: solo una lingua di fuoco che precipita verso lo stomaco. Il secondo portò il gusto dolciastro dell'assenzio e una nuova lacrima. Respirai, quasi che quel semplice gesto potesse calmare le mani e fermare il lieve tremore che l'alcol recava sempre con sé. Al terzo allentai la cravatta e incontrai il mio riflesso nel vetro del mobile accanto: un uomo triste, vestito di tutto punto, con le dita impigliate in un cappio di seta e lo sguardo oscurato dal fumo di un mozzicone ormai amaro. Di nuovo un teatro, di nuovo un concerto: ore di lavoro accumulate per non sentire i crampi del cuore che gridava la sua solitudine. Vivevo con il peso immane della tua assenza solo per eseguire melodie che non avresti ascoltato, per imprimere nell'arco emozioni che sentivo sempre più estranee, a eccezione di quella tristezza che solo la morte è in grado di provocare: una pena indelebile, simile a una rovinosa infezione che si spande in silenzio, insinuandosi in ogni cellula, fino a colmare l'intero organismo con il suo male. Finché, a un certo punto, la disperazione è tutto ciò che rimane.
... allargando le braccia al vuoto, precipitando in silenzio verso la distruzione e la sua solitudine.
Dopo il quarto bicchiere, bevuto più lentamente, iniziai a perdere lucidità e la vista divenne appena offuscata. Quando infine giunse il ricordo di te, la bottiglia era già mezza vuota e i gemiti erano cessati da un pezzo; rimasi in apnea, con lo sguardo perso tra i riflessi di luce che brillavano sul mio anello.
Giorgio Valerio Galli
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