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Autore: Vanessa La Rosa
Bambina d'autunno
Narrativa
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Bambina d'autunno
Samuele, Kyoto 2023.

Rimango in acqua un po'. Mi volto, sottraendomi agli sguardi puntati su di me. Non ho voglia di star qui, ma ho ancora meno voglia di inseguirlo negli spogliatoi.
Vorrei sprofondare dentro l'acqua, ma non è consentito immergere i capelli. E di regole oggi, ne abbiamo trasgredite fin troppe.
Forse ho esagerato. O forse merita di sapere una volta per tutte cosa sia successo davvero. Cosa abbiamo vissuto mentre lui se ne stava dall'altra parte dell'Atlantico.
Non conosce nulla degli ultimi cinque anni della mia vita. E soprattutto dell'ultimo, che ho trascorso perlopiù in silenzio, diviso tra l'ufficio, con gente di cui non mi importa niente, e la soffitta, dove mi rifugio la sera a dipingere.
Non mi importa che nessuno abbia visto i miei quadri, eccetto Sofia, e comunque non quelli dell'ultimo anno, che hanno come unico soggetto la sola persona a cui vorrei mostrarli, i miei ricordi più felici, i momenti che non torneranno mai più.
Perché a volte aggrapparsi a ciò che è stato è l'unico modo per non precipitare.
Ho sempre ammirato Matteo, ma solo adesso mi rendo conto di non averglielo mai detto. Lo ammiro per la tenacia e la leggerezza con cui affronta la vita. Perché sa sempre come raggiungere i suoi obiettivi senza perdere mai di vista se stesso.
Quando eravamo piccoli, invidiavo la sua capacità di fare i capricci per qualsiasi cosa non gli andasse a genio. Aveva un talento straordinario nel convincere tutti a fare sempre a modo suo. Ogni tanto, quando giocavamo insieme, giocavo a essere come lui. Imitavo Matteo. I suoi gesti risoluti, i pensieri ego-riferiti. Mi crogiolavo nella serenità che, per qualche istante, mi regalava ascoltare i miei bisogni soltanto.
Poi mi capitava di fargli male per errore, di vederlo piangere. E lì tutto crollava. Tornavo a essere Samuele, il fratello maggiore che se ne prendeva cura e gli chiedeva scusa per qualsiasi cosa.
Non so se si sia mai accorto che, mentre lui sognava di essere un supereroe, io sognavo di essere lui.
Non ricordo esattamente quando, né come sia successo. Ma a un certo punto le nostre differenze ci hanno separati, poi allontanati. Non ho mai smesso di volergli bene, però. Anche se adesso non riesco più a imitarlo. E non ci sono riuscito nemmeno quando ne avrei avuto più bisogno, quando anche io sarei voluto scappare. Sarà per quello che ho cominciato a giudicarlo.
Dubito che oggi riusciremo a fare altro insieme, così decido di portare a termine da solo le tappe della giornata.
Mi asciugo per bene. Osservo per l'ultima volta le goccioline di rugiada, ormai tutte cadute a terra o dissolte nell'aria. Mi chiedo se hanno memoria di esserci state, anche se nessuno può più vederle. Mi dirigo verso gli spogliatoi e, riappropriatomi di pantaloni e dignità, leggo il seguito della lettera che abbiamo aperto al mattino.

Dopo esservi rilassati, siete pronti a parlare di Sogni. Del coraggio necessario a realizzarli e della fortuna che a volte ci dà una spinta! E del non mollare anche quando sembra che non ne valga più la pena. Ma andiamo con ordine...

Arrivo come da istruzioni al Kiyomizu-dera, situato a est di Kyoto e arroccato sul fianco del monte Otowa, dopo una passeggiata in salita di circa dieci minuti dalla fermata dell'autobus.
Percorrendo le iconiche strade di Higashiyama e Sannenzaka ho invidiato, ma non troppo, un gruppo di donne in kimono portate in cima a bordo di un risciò. Ho invidiato molto di più la forma fisica di quel tipo che il risciò lo conduceva senza nemmeno un accenno di fatica.
Tutto intorno è stato un susseguirsi di dimore tradizionali, locande e botteghe che vendono cibi e souvenir di ogni tipo.
Ombrellini e lanterne di carta, insegne in legno e sale da tè rievocano l'atmosfera di una foto d'epoca, ma dai colori decisamente più sgargianti.
Non mi sono fermato però ad assaggiare nulla. Da solo non sarebbe stata la stessa cosa.
Ho anche provato a chiamare Matteo per sapere dove fosse, ma non c'era campo o, più probabilmente, ha spento il telefono perché non vuole parlarmi. Non è cambiato poi tanto nel suo modo di gestire i litigi.

Come promesso, oggi parleremo di Sogni.
Ma non di sogni qualunque. Di quelli che tengono svegli la notte, che si impossessano di ogni minuto e pensiero della giornata, finché non vedono la luce.
Di quelli che possono dare senso a una vita intera, anche quando cessano di esistere.
Ad esempio, quello che vedete davanti a voi, prima di essere un tempio fu il sogno di Kashin, un monaco di Nara. Proprio a lui, una notte, apparse in sogno un uomo vestito di bianco che gli ordinò di lasciare la sua casa e dirigersi qui per fondare quello che adesso è uno dei luoghi più visitati di tutto il Giappone.
Avete capito bene. Glielo ORDINÓ! Perché questo fanno i sogni. Sono prepotenti e non chiedono “per favore”.
Quindi cosa ci vuole per realizzare un sogno?
Be', prima di tutto ce ne vuole uno.
Quindi assicuratevi di averlo. E che non sia gentile!

Arrivo a quella che sembra la struttura più importante di tutto il complesso. Si affaccia, nella sua maestosità, su un'ampia terrazza affollata di turisti in estasi e cellulari avidi di momenti da immortalare. È impossibile scorgere qualcuno che si stia semplicemente godendo il momento.
Dopo parecchia attesa, riesco a raggiungere la terrazza e ad affacciarmi. Mi è subito chiaro perché abbia faticato tanto: la vista di Kyoto in lontananza è sorprendente, con la sua torre che svetta sul resto della città.
Ma ciò che davvero toglie il fiato è lo spettacolo che prende vita proprio davanti ai miei occhi, sulla collina circostante. Un trionfo di aceri, ciliegi e faggi che danzano, a turno, con tutti i colori dell'autunno. Ogni sfumatura di rosso, giallo e marrone si è preparata per un anno intero a questa esibizione e sta adesso dando il meglio di sé, sotto gli occhi di centinaia di spettatori increduli.

Quando un giapponese vuole dire “fare il grande passo”, dice che sta “saltando dalla terrazza del Kiyomizu”, perché in passato c'era chi sfidava questi tredici metri di altezza e saltava giù pur di fare avverare il proprio desiderio.
Non ci è dato sapere se i pochi sopravvissuti a quei voli abbiano o no visto il proprio sogno diventare realtà.
Ma immagino cosa abbiano provato nel tentare.
Perché prima di tutto per realizzare un sogno ci vuole Coraggio!

Queste parole mi colpiscono profondamente. Cerco di ricordare, prima di tutto a me stesso, se mai nella vita io abbia avuto quel tipo coraggio. Quello avventato, incosciente, che ti fa saltare da una terrazza e sconvolge l'esistenza. Mi vengono in mente solo versioni sbiadite e reticenti di un'audacia che non mi è mai appartenuta.
Sulla guida scopro che nessun chiodo è stato utilizzato per il tempio alle mie spalle, né per la terrazza, né per i tredici metri di struttura che nel corso dei secoli l'hanno sorretta sulla collina. Il legno puro, plasmato dall'ingegno umano, sorregge tutte e tre le costruzioni.

Incredibile vero?
Pensate a quanti avrebbero scommesso sul fatto che sarebbero crollati.
Quanta caparbietà nel realizzare un'idea così folle.
Quanta ostinazione nel restare in piedi anche quando tutti si aspettano che voi non ci riusciate.
Non mollare, a volte, fa tutta la differenza del mondo.

Forse quello che è destinato a durare, lo fa e basta. Senza forzature. Ho visto legami indissolubili sgretolarsi sotto il peso del tempo e poi risorgere in silenzio e resistere solidi a malattie e tempeste. C'è una forza invisibile che lega persone apparentemente distanti, ciascuno con la propria vita, i propri progetti. Nessun vincolo, proprio come questo tempio. O almeno è a questo che voglio credere.
Seguo la mappa e giungo al santuario di Jishu, dedicato alla dea dell'amore. Mi stupisce come shintoismo e buddismo coesistano in armonia. È evidente che la serenità di questi luoghi superi il bisogno umano di prevaricazione e consenta a chiunque di brillare della propria unicità.
Mi incuriosisce una folta fila di turisti, soprattutto donne, che percorrono bendate la distanza tra due massi posti di fronte al santuario, a circa venti metri l'uno dall'altro. Mi ricordo di aver già visto quest'immagine sul foglio con le indicazioni. Sospetto di essere stato mandato lì per qualcosa che abbia a che fare con questo strano rito. Così continuo a leggere, preoccupato.

Quelle che possono sembrare due normalissime pietre, secondo la leggenda hanno un potere straordinario.
Pare infatti che chiunque riesca, partendo da una delle due, ad arrivare all'altra a occhi chiusi, sarà benedetto con il vero amore.
Mi piace pensare che valga per ogni tipo di amore. Soprattutto quello per se stessi e i propri desideri.
Crederci ciecamente.
Anche questo serve per realizzare un Sogno degno di questo nome.

In fondo è solo un gioco. Nessuno può prenderlo sul serio. Non aspetterò tutta questa coda per farlo davvero.
E invece sì, aspetto. Mi sudano le mani. È sciocco, lo so. E non è da me. Sono qui in coda, insieme a un gruppo di ragazzine di cui sono certo essere diventato lo zimbello.
Arriva il mio turno. Cerco di memorizzare bene l'immagine che ho di fronte. Uno sconosciuto, evidentemente incuriosito, si prende la briga di bendarmi prima di godersi la scena.
Lascio la pietra e metto un piede davanti all'altro, lentamente. Forse Matteo si sarebbe anche divertito al posto mio. Ma non è qui. E io non sono lui. Sento la folla incitarmi. Fallito? Vorrei mi importasse dimostrargli che si sbaglia, ma la verità è che credo abbia ragione. Perché urlano e non mi lasciano in pace? Mi distraggono. Sono a disagio, confuso. Che ci faccio qui? Sarò sicuramente fuori strada. È chiaro che non raggiungerò mai la seconda pietra. “Crederci ciecamente”. Ma a cosa? Mi gira la testa. Mi fermo. Tolgo la benda e scopro di non essere arrivato nemmeno a metà. La riconsegno al proprietario, senza preoccuparmi nemmeno di ringraziarlo. Scappo. Sparirei, se potessi.
Mi chiedo cosa sarebbe successo se non avessi mollato. Se non mi fossi arreso. E non solo oggi. Se non avessi sempre scelto la comoda speranza di riuscire, chissà un giorno anche lontano, piuttosto che provarci davvero quando ne ho avuto la possibilità. A costo di riservare a me stesso l'ennesima delusione. Sarei ancora con lei? Sarei felice?

In lontananza, proprio alla base del tempio, scorgo le cascate Otowa.
Scendo lungo una scalinata che costeggia la collina che ho visto dalla terrazza poco prima. Il rumore dei pensieri si confonde col chiacchiericcio dei turisti. Entrambi sovrastati, a ogni scalino di più, dallo scroscio dell'acqua. Arrivo dove la sorgente si divide in tre canali distinti. C'è coda anche qui. La gente fa a gara per dissetarsi.

Kiyomizu-dera significa “Tempio dell'acqua pura”.
Non c'è da stupirsi quindi, se questa cascata sia ritenuta portatrice di poteri miracolosi e di grande fortuna.
Ciascuna delle sue tre fonti, però, ha un potere diverso.
Chiunque si trovi a bere, infatti, è chiamato a scegliere se sperare in una lunga vita, in una piena d'amore o nella realizzazione personale.
Attenzione però. L'avidità di provare a bere da più di una non è ben vista dagli Dei e potrebbe rivelarsi controproducente.
A me, dopotutto, è stato concesso di bere da ben due.
Reputo che la Fortuna, a volte, sappia essere molto generosa.
Perché sì, spesso, la realizzazione di un Sogno passa proprio da Lei, e dal sapersi accontentare.

Spero non si aspetti da me né da Matteo che ci mettiamo in coda per bere e chiedere alla Fortuna di assisterci. Lui, la fortuna, la costruisce ogni giorno con le sue mani. E io non saprei nemmeno decidere da quale sorgente bere. Cosa vorrei più di ogni altra cosa? Cosa mi fa battere davvero il cuore? Per cosa rinuncerei a tutto il resto? Non lo so più. Forse non l'ho mai saputo. Credo sia proprio questo il punto. L'obiettivo di questa tappa. Risvegliarmi dal torpore. E costringermi a prendere in mano la mia vita.

E cosa succede se quel sogno non si realizza? Valiamo forse di meno?
Guardate il Kiyomizu-dera. Sapete che era candidato a diventare una delle sette meraviglie del mondo moderno?
Questo finché qualcuno lo ha giudicato “non abbastanza”, preferendogli un altro sito.
Adesso che lo sapete, vi sembra forse meno speciale?
Pensate che non sia valsa la pena di provarci comunque?
È proprio questo il bello dei sogni.
Ci tengono a galla finché devono, poi lasciano il posto ad altro di altrettanto meraviglioso. Forse anche di più.

Matteo storcerebbe il naso davanti a queste parole. Lo immaginano alzare gli occhi al cielo in segno di stizza. Non credo gli sia mai capitato di non sentirsi abbastanza, né che abbia mai contemplato l'idea che perdere sia un esito accettabile. Forse in questo però, siamo simili. La differenza è che, pur di non sopportare la frustrazione di perdere, io non ci provo nemmeno.
Quasi per caso il mio sguardo è rapito da una pagoda, che svetta immersa tra gli alberi, lontano dalla cascata e dal tempio. Leggendo la guida, scopro trattarsi non di un semplice luogo di culto, ma di una vera e propria meta di pellegrinaggio per donne in dolce attesa che da secoli vi affidano la speranza di un parto senza complicazioni e di un nascituro sano e forte.
Come da istruzioni, continuo il sentiero e arrivo allo Zuigudo, l'accesso al luogo più segreto del Kiyomizu-dera. Scendo un'anonima scala e mi ritrovo in un corridoio completamente avvolto dall'oscurità che, leggo su un cartello, rappresenta il ventre materno della divinità.
Una spessa corda lungo la parete come unica guida per non perdermi lì dentro. Mi affido al tatto, concentrandomi su ogni centimetro. Un passo alla volta, mentre cerco di non cedere alla claustrofobia. Raggiungo una sala con un'unica luce a illuminare una pietra, al centro, su cui è inciso un simbolo sacro che le persone davanti a me fanno a gara per toccare. Alcuni si fermano qualche minuto a pregare. Altri si commuovono persino. Non ci sto capendo molto, così vado avanti a leggere.

Sapete cos'è quella luce?
È trascorso qualche anno da quando l'avete vista per la prima volta.
Oggi, in questo luogo intriso di meraviglia, avete vissuto il vostro Tainai Meguri e secondo le credenze, siete appena... rinati.
Bello, no? Un'altra occasione. Cosa ci farete?
Non sprecatela!

Vanessa La Rosa

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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