Fuori controllo.
Con il passare del tempo, Giulio e Gianluca divennero sempre più dipendenti dalla loro tossica amante e, a causa dello sballo costante, i loro comportamenti erano instabili, sconsiderati e talvolta fuori controllo. Consapevoli che il peggioramento dei loro disturbi comportamentali fosse strettamente correlato all'abuso quotidiano di cannabis, i loro genitori, per il loro bene, decisero di comune accordo di ridurre significativamente il denaro che davano loro quotidianamente, con l'intento di diminuire la quantità di droga che i figli potevano acquistare. Dopo pochi giorni, questa strategia, fu in parte superata da un'astuta soluzione escogitata da Giulio, che sfruttando il debole che i nonni paterni nutrivano nei suoi confronti, orchestrò e mise in scena davanti a loro una scena melodrammatica degna di un premio Oscar. Grazie a tale messa in scena, Giulio riuscì a convincerli, nonostante il divieto del padre, a concedergli la generosa «paghetta settimanale» che gli avevano elargito con piacere fin da ragazzino. Tuttavia, i quattrini dei nonni non permettevano ai due amici di mantenere lo stesso tenore di vita di prima. Pertanto, Giulio, con l'idea di fare soldi facili, riportò alla luce lo scooter elaborato con cui aveva corso e vinto diversi trofei da ragazzino, iniziando a partecipare a rischiose gare clandestine notturne che si svolgevano sui sentieri sterrati della campagna della sua città. Furono molte le volte in cui arrivò primo al traguardo e vinse le cospicue somme di denaro messe in palio, ovviamente tutte finite letteralmente «in fumo», così come i tanti profitti che Gianluca aveva guadagnato vendendo degli efficienti rilevatori di microspie a vari esponenti di clan mafiosi. Soddisfatti dalle remunerative attività illecite, dopo alcuni mesi cominciarono a falsificare e commercializzare certificati assicurativi e di revisione automobilistica, riuscendo a venderne in breve tempo a bizzeffe. Per quasi un anno, svolsero queste attività a pieno ritmo, intascando molti soldi e spendendone altrettanti in droga, alcol e sesso a pagamento, finché un giorno furono informati che le loro falsificazioni erano oggetto di indagine da parte della polizia locale. A quel punto, spaventati, ma illuminati da un fugace momento di buon senso e amor proprio, interruppero immediatamente la loro carriera criminale. Dopo essersi liberati delle prove schiaccianti di quell'esperienza oltre i confini della legalità, non potendo più contare sui loro introiti illeciti e avendo sperperato tutti i loro guadagni, ritornarono a chiedere ogni giorno ulteriori soldi ai loro genitori che, stanchi di vederli sprecare la loro vita e calpestare la loro salute, li pregarono con il cuore in mano di andare a sottoporsi a un trattamento di disintossicazione presso la comunità terapeutica di recupero «San Patrignano», una proposta che Giulio e Gianluca non presero nemmeno in considerazione. Sebbene fossero rattristati dal loro rifiuto, i genitori di Giulio, di natura gentile e accomodante, continuarono ad elargire giornalmente denaro al figlio, esortandolo ogni giorno a considerare un percorso di disintossicazione. Al contrario, il padre di Gianluca non solo smise di dargli denaro, ma iniziò a vessarlo quotidianamente, accusandolo di essere un drogato fannullone senza valori. Intimamente provato dagli sguardi di disprezzo, dai sospiri esagerati di stentata rassegnazione e dai continui rimproveri del padre, Gianluca trovò un lavoro in nero come magazziniere presso un'azienda che produceva pregiato champagne. La paga era misera e il carico di lavoro eccessivo, ma sentendosi apprezzato dal padre, lavorò come un mulo per oltre un anno, fino a quando una sera, senza preavviso o giustificato motivo, il suo datore di lavoro lo licenziò con un breve messaggio telefonico. La mattina seguente, con l'intento di salutare i suoi colleghi e svuotare l'armadietto che gli era stato assegnato, Gianluca si recò in fabbrica, ma prima di lasciare l'azienda, decise di manifestare le sue rimostranze al suo ex datore di lavoro, che in realtà l'aveva licenziato per assumere con un contratto regolare il figlio di un suo amico. Dopo averlo fatto aspettare deliberatamente per tre ore nella sala d'attesa, il suo ex capo lo fece accomodare nel suo ufficio, preannunciandogli con aria apertamente beffarda che stava sprecando tempo se intendeva richiedere la sua buonuscita, poiché aveva già impiegato tale somma per l'acquisto di due scatole di pregiati sigari cubani e una cassa di squisito rum Zacapa. In quel momento, di fronte all'ennesimo sopruso, Gianluca, incapace di contenere la rabbia, adottò un tono di voce minaccioso, comunicando al vecchio volpone che avrebbe presentato un reclamo all'ispettorato del lavoro e che, tramite un avvocato, avrebbe richiesto un risarcimento per il danno morale ed economico subito. Un'intimidazione alla quale quel vecchio volpone con riso sardonico, rispose, dicendo: «Se osi denunciarmi, dirò a tutti gli imprenditori della città che sei un ladro e un fannullone e che per questo motivo sono stato costretto a licenziarti... vedrai...una volta sparsa la voce, nessuno vorrà più assumerti...pensaci bene, giovanotto...è in gioco il tuo futuro!». Avendo capito di essere solo una misera pedina in un gioco più grande, Gianluca abbassò i toni e non rispose al contrattacco di quell'avido sfruttatore. Invece, come un cane bastonato con la coda tra le gambe, salutò con calma e se ne andò. Tuttavia, mentre tornava a casa, tra il fumo di una canna fumata con foga, meditò vendetta contro quel disonesto. Il destino volle che qualche giorno dopo, durante una festa, Giulio e Gianluca incontrassero Mario, un ragazzo dal passato turbolento e travagliato, con alle spalle una lunga storia di tossicodipendenza da cocaina. Sentendosi in sintonia con la sua natura ribelle e con il suo forte e irriducibile desiderio di sballarsi, nei giorni successivi lo invitarono a partecipare alle loro serate all'insegna dello sballo, durante le quali, in un momento di confidenza, Gianluca raccontò a Mario dei soprusi subiti dal suo ex datore di lavoro, confidandogli di essere ancora in possesso delle chiavi del cancello principale e della porta d'ingresso dell'edificio aziendale. A ciò seguì un'immediata proposta da parte di Mario, che propose a lui e a Giulio di rapinare quel figlio di una cagna. Assetato di vendetta, senza alcuna esitazione, Gianluca accolse a braccia aperte l'idea di Mario, informandolo che vi erano numerosi beni di valore che avrebbero potuto trafugare, come la preziosa collezione di bottiglie di champagne esposta in una cantinetta di cristallo ubicata nell'ufficio del volpone, il server aziendale di ultima generazione ancora imballato, nonché la cassetta contenente il fondo cassa aziendale, sempre stracolma di contanti. Mosso dal desiderio di punire quell'imprenditore disonesto, alla mercé di uno spirito di incoscienza ed eccesso, figlio di una marcata tossicodipendenza, anche Giulio, dopo qualche esitazione, abbracciò l'illecita impresa. Per circa due mesi, i tre pianificarono accuratamente la rapina, concordando ogni dettaglio e prendendo accordi preliminari con un ricettatore di nome Paolo, presentatogli da una comune conoscenza. Pronti ad agire, attesero con innaturale flemma il momento più propizio, che giunse quando una mattina appresero con certezza che l'avido Volpone aveva licenziato le guardie di sicurezza che da tempo sorvegliavano l'azienda, con l'intento di sostituirne il lavoro con un tecnologico e innovativo sistema di videosorveglianza, che tuttavia non era ancora stato installato, poiché il taccagno, affetto da manie di grandezza, aveva insistito per pagare solo la metà dell'importo richiesto dall'azienda che avrebbe dovuto occuparsi dell'installazione. Questa sconsiderata decisione commerciale lasciò la fabbrica incustodita e fornì ai tre ladri improvvisati un'occasione d'oro per mettere a segno il colpo. Lo stesso pomeriggio, a bordo di un furgone a noleggio, strategicamente allestito con vari scaffali pieni di attrezzi e materiale elettrico, i tre amici ben nascosti tra la boscaglia, si appostarono a debita distanza dall'azienda, attendendo fino a tardo pomeriggio che gli operai e il volpone lasciassero lo stabilimento. Quando al calar della sera, finalmente videro l'ultimo operaio andare via insieme al capo, per accertarsi che in fabbrica non fosse rimasto nessuno, con un numero di cellulare intestato a una persona inesistente, chiamarono tutti i numeri di telefono dell'azienda. Pronti all'azione, indossarono le tute da lavoro che avevano precedentemente acquistato, fissandone bene in vista, i contraffatti cartellini di riconoscimento che avevano riprodotto per l'occasione. Dopo aver completato gli ultimi preparativi, si spostarono dalla posizione di vedetta e parcheggiarono il furgone sulla stradina adiacente all'edificio. Benché tesi come le corde di un violino, fattisi coraggio, con il cuore in gola e l'adrenalina a mille, dopo aver raccomandato a Mario di tenere gli occhi ben aperti, Giulio e Gianluca presero in spalla le borse degli attrezzi, indossarono i guanti da lavoro e scesero dal furgone. Giunti alla soglia del cancello principale, come un vittorioso giocatore di poker con un asso nella manica, Gianluca estrasse le chiavi dalla tasca dei pantaloni e aprì il cancello, aprendo poi, con sua grande soddisfazione, l'ingresso dell'edificio. Una volta entrati, si diressero furtivamente verso l'ufficio del volpone, sfondarono rapidamente la porta e trafugarono le preziose bottiglie di champagne dalla cantinetta di cristallo, per poi appropriarsi della cassetta del fondo cassa aziendale e dei preziosi sigari cubani conservati sulla scrivania del volpone. Terminato il proficuo saccheggio dell'ufficio, si recarono nella stanza adiacente, dove in un batter d'occhio, smontarono rapidamente tutti i dispositivi elettronici più trasportabili e costosi dal server aziendale. Dopo aver sistemato con cura la refurtiva nelle loro borse, prima di abbandonare l'azienda, al fine di simulare in tutto e per tutto un furto e depistare eventuali indagini della polizia, svuotarono diversi cassetti, gettandone il contenuto sul pavimento, disegnarono dei simboli anarchici e anticapitalisti sulle pareti e manomisero le serrature della porta dell'edificio e del cancello principale. Una volta terminato il lavoro di camuffamento, lasciarono l'area aziendale e salirono a bordo del furgone. Senza fare domande e senza perdere tempo, Mario immantinente accese il motore e si allontanò con i suoi amici dal luogo del furto. Durante il tragitto che li separava dalla casa del nonno di Giulio, porto sicuro dove avrebbero occultato la refurtiva, il silenzio e la paura di essere fermati dalla polizia la fecero da padroni, al punto da reprime in loro anche la voglia di fumare. Solo dopo aver superato il vialetto di ingresso dell'abitazione del nonno e aver nascosto il bottino nel garage, i tre amici si tranquillizzarono e tirarono un lungo sospiro di sollievo, accendendo subito dopo il primo «cannone del trionfo». Dopo qualche ora e diversi cannoni stracolmi di hashish, strafatti e ancora esultanti, lasciarono la casa del nonno per tornare alle loro rispettive abitazioni. La mattina seguente, dopo che consegnarono il furgone che avevano noleggiato, aprirono la cassetta di sicurezza del fondo cassa aziendale che avevano rubato, trovandone al suo interno due milioni di lire in contanti. Festanti per l'immediato profitto del furto, acquistarono cinquecentomila lire di erba, diverse bottiglie di champagne e varie cibarie, per poi fare strada verso una spiaggia sperduta, dove fumarono, bevvero e mangiarono smodatamente fino a tarda notte. Giunta la mezzanotte, inebriati dalla marijuana e dall'effervescenza delle bollicine, completamente fuori di senno, come spesso accade alle feste stravaganti delle celebrità, i tre amici si fecero il bagno con le bottiglie di champagne rimaste. Al termine dei festeggiamenti, grazie a un barlume di saggezza, si resero conto di non essere in grado di guidare l'auto e pertanto decisero di montare la grande tenda da campeggio che Giulio teneva sempre nel bagagliaio della sua auto, riuscendovi dopo numerosi e goffi tentativi. All'interno della tenda, continuarono a fumare e a bere finché non caddero in un sonno profondo. Il giorno dopo si svegliarono a mezzogiorno, inzuppati di sudore sotto un sole cocente che aveva trasformato le loro tende in saune roventi, sature di un pungente lezzo misto a sudore, fumo e alcol. Un'ora dopo il risveglio, ancora provati dagli effetti di una notte da leoni all'insegna dello sballo, pulirono la spiaggia, raccolsero le loro cose e smontarono la tenda da campeggio. In seguito, come pecore semi intontite dal caldo, in piena fase down, tornarono alle loro case. Trascorsi due giorni, dopo essersi informati sul reale valore della merce rubata, si incontrarono con Paolo e gli consegnarono la mercanzia, attendendo per come da accordi che nel giro di una settimana questo gli rendesse il loro cospicuo compenso. Passato il tempo pattuito e non avendo ricevuto alcuna notizia da Paolo, Giulio tentò più volte di contattarlo al suo numero di cellulare, ma senza riuscirci. Con il forte sospetto di essere stati truffati, i tre amici chiesero informazioni al ragazzo che li aveva presentati, ma questi alzò le spalle e se ne lavò le mani come Pilato, dicendo che non vedeva né sentiva Paolo da un mese. Furibondi, nei giorni successivi cercarono Paolo per mari e per monti, ma non lo trovarono da nessuna parte. Non dandosi per vinti, a distanza di due settimane, ricevettero una soffiata e lo scovarono a una festa fuori città. Era lì, ben vestito e con indosso dei preziosi gioielli d'oro, mentre come un prestigioso broker finanziario si vantava con un gruppo di persone dei suoi brillanti investimenti in borsa. Senza dare nell'occhio, nascosti tra la cerchia degli illusi che pendevano dalle sue labbra, i tre amici attesero che fosse solo prima di avvicinarsi a lui con un pretesto e costringerlo a salire sulla loro auto. Dopo che Giulio e Gianluca furono saliti a bordo, come solitamente accade in un rapimento, provvidero prontamente a bendare Paolo, ad imbavagliarlo con del nastro adesivo e a legargli le mani, mentre Mario avviò l'auto e si diresse velocemente verso un bosco nelle vicinanze. Arrivati sul posto, fecero scendere Paolo dall'auto e gli tolsero le bende che gli coprivano gli occhi e il nastro che gli tappava la bocca, slegandogli per ultimo le mani, divenute violacee a causa della corda legata troppo stretta. Dopo averlo liberato, anche se ancora increduli di aver commesso un rapimento, decisi a recuperare i loro soldi, dissero a Paolo che era arrivato il momento della resa dei conti e che volente o nolente doveva dargli i loro quattrini. Tuttavia, Paolo cercò di suscitare la loro compassione, spiegando di aver utilizzato tutti i loro soldi per l'intervento chirurgico di cui necessitava la madre, una giustificazione che non sortì alcun effetto, poiché erano certi ch'egli fosse orfano di madre fin dalla sua giovane età. Stanchi di essere presi in giro, accusarono Paolo di essere un bugiardo e un truffatore e gli svuotarono le tasche con la forza. All'interno trovarono due milioni di lire e un sacchetto di cocaina del valore di oltre un milione di lire, una prova innegabile che stava facendo la bella vita con i loro soldi. Nonostante la sua natura normalmente pacifica, Giulio divenne furioso e fuori controllo. Afferrò un ramo da terra e colpì ripetutamente Paolo, fino a quando questo gridando come un forsennato, tirò fuori una pistola che nascondeva nella tasca della giacca e fece per sparare contro di lui, venendo prontamente fermato da Mario, che ardito gli si avventò contro disarmandolo. Agitati dal gesto estremo di Paolo, i tre amici lo sommersero sotto una raffica di calci, pugni, sputi e insulti, fermandosi soltanto quando Paolo a gran voce disse loro che gli avrebbe reso i loro soldi. Con gli occhi iniettati di sangue e la rabbia che scorreva nelle vene, lo aiutarono ad alzarsi da terra e lo fecero salire in auto. Messo alle strette e temendo un'altra efferata aggressione, Paolo indicò a Mario il tragitto da percorrere per raggiungere la sua abitazione. Arrivati sul posto, Paolo li fece accomodare in casa, per poi aprire davanti ai loro occhi una cassaforte nascosta dietro un quadro, riponendone senza indugio l'intero contenuto sul tavolo vicino, giurando sulla propria vita che era tutto quello che gli era rimasto. Sul tavolo aveva riposto venti milioni di lire, sei panetti di hashish di ottima qualità e alcune bustine piene cocaina, una ricompensa che non era paragonabile alla somma inizialmente pattuita per la refurtiva che i tre amici gli avevano consegnato. Tuttavia, accettarono ugualmente, poiché erano consapevoli che Paolo aveva speso il resto dei loro soldi per acquistare la polvere magica di cui era fortemente dipendente. Dopo aver preso l'hashish e i venti milioni, prima di andarsene, a titolo di risarcimento per i danni fisici subiti durante il pestaggio, restituirono a Paolo i due milioni di lire precedentemente prelevati dalle sue tasche. Tutt'altra fine fecero le bustine di cocaina e la sua pistola che Mario, in disaccordo con Giulio e Gianluca, senza sentire ragioni, volle tenere per sé. Ancora una volta tutto era andato per il «verso giusto», avevano recuperato una parte dei loro soldi e una quantità significativa di hashish, ma soprattutto non era stato ucciso nessuno. Come al solito, Giulio e Gianluca, continuarono a non voler comprendere che la loro tossicodipendenza li stava portando a perdere sempre più il controllo delle loro azioni. Nei giorni a seguire, con le tasche sempre piene di cocaina e sotto l'influenza di alcuni suoi vecchi amici, Mario tornò a farsi pesantemente di «polvere magica». La sua vecchia amante, che non aveva mai dimenticato, nel giro di qualche settimana lo rese ancora più schizzato di quanto non fosse già, allontanandolo in pochissimo tempo da Gianluca e Giulio, che non ne condividevano l'uso. Era così tanto preso dalla «Bamba» che l'ultima volta che si incontrò con questi ultimi, mostrò con orgoglio il suo nuovo tatuaggio raffigurante la sanguinaria regina della cocaina Griselda Blanco, per la quale nutriva una devota ammirazione. Ben diverso fu l'imminente prosieguo delle vite di Giulio e Gianluca, che dopo il rocambolesco recupero dei proventi del furto, tornarono per un breve periodo alla loro solita vita da «fattoni perdigiorno», fino a quando, lungimiranti, decisero di investire una parte del loro tesoretto per prendere in gestione un' attività commerciale di copertura che in seguito riuscirono ad acquistare. Questo permise loro di guadagnare soldi puliti e di rendere orgogliosi i loro genitori illusi, nonché di coprire l'illecita attività che da lì a poco avrebbero intrapreso. Di pari passo ai preparativi per l'apertura dell'attività commerciale di copertura, grazie all'amico Pasquale, acquistarono dallo sfregiato delle discrete quantità di marijuana, hashish e cocaina, per poi iniziare a frequentare i salotti buoni e le spiagge alla moda della loro città, dove con occhi esperti individuarono i benestanti frequentatori più viziosi e dediti all'uso di droghe. La loro idea era quella di tornare a sguazzare per un breve periodo nella putrida palude degli affari illeciti e soldi facili, con l'obiettivo di guadagnare attraverso lo spaccio di stupefacenti il denaro necessario per ritirarsi in una cascina di campagna e aprire un'azienda agricola. Per raggiungere il loro obiettivo finale, dopo aver adocchiato i loro potenziali clienti, stilarono una lista dei tossicodipendenti più facoltosi e delle droghe che erano soliti usare. Stilato l'elenco dei potenziali clienti, tramite uno scambio di favori e qualche conoscenza comune, riuscirono ad abbordarli e a proporsi come i loro nuovi spacciatori discreti e fidati. Di lì a poco, fornendo merce di qualità a prezzi inferiori alla media, Giulio e Gianluca riuscirono a sbaragliare la concorrenza. Dopo aver constatato la loro vasta conoscenza delle sostanze stupefacenti e la loro abilità nel procurarsi qualsiasi tipo di droga, i loro clienti li soprannominarono i «farmacisti». Gli affari andavano a gonfie vele e potevano annoverare tra i loro clienti più affezionati degli insospettabili e facoltosi blasonati, giovani e viziose amanti di personaggi famosi, impensabili figure ecclesiastiche e persino alti funzionari delle forze dell'ordine che, volendo rimanere anonimi, si servivano dei loro faccendieri per acquistare da Giulio e Gianluca le droghe di cui avevano bisogno. In poco più di due mesi, i due amici avevano messo in piedi un'organizzazione funzionale e redditizia finalizzata al traffico di droga. Affidarono l'approvvigionamento degli stupefacenti a Clotilde e Matilde, due escort astute e fidate con la fedina penale pulita, con le quali da diversi anni trascorrevano delle libertine e sfrenate notti di sesso. Queste donne, ben vestite e con disinvoltura, erano in grado di trasportare grandi quantità di droga all'interno dei loro corpi, senza destare alcun sospetto ed eludendo ripetutamente i controlli della polizia stradale, grazie al loro fascino irresistibile e alle loro facce da ragazze perbene. D'altra parte, gli ordini, i pagamenti e le consegne erano gestiti personalmente da Giulio e Gianluca, che durante le consegne si travestivano in modo diverso per ogni occasione, come quella volta che si travestirono da preti per consegnare in una parrocchia di campagna diverse bibbie con copertine imbottite di cocaina pregiata al faccendiere di un'anonima alta carica ecclesiastica, ricevendo in cambio delle vesti talari in cui era stato occultato il denaro della vendita. Nel giro di tre mesi, come un fiume in piena, la loro merce tossica circolava tra i benestanti viziosi della loro città. I loro cellulari intestati a ignari pensionati squillavano da mattina a sera e i luoghi di incontro con i clienti erano i meno sospetti e impensabili. Tutto procedeva senza intoppi fino al momento in cui un articolo di prima pagina del quotidiano locale turbò profondamente Giulio e Gianluca. L'articolo riportava la notizia della morte per overdose di un noto politico della città, avvenuta durante un festino privato a base di droghe, sesso e alcol. Con loro grande stupore e sgomento, il politico in questione era un loro abituale cliente, che il giorno precedente, tramite il suo faccendiere, aveva acquistato ingenti quantità di cocaina e altre sostanze stupefacenti. Colti dal panico, la prima cosa che fecero fu quella di gettare nel water le esigue scorte di stupefacenti in loro possesso, ad eccezione delle scorte di hashish e marijuana che decisero di conservare per se stessi. Subito dopo, si recarono in una spiaggia desolata e gettarono in mare i telefoni cellulari utilizzati per le attività di spaccio, per poi recarsi presso l'abitazione di Clotilde e Matilde al fine di informarle dell'accaduto e sollecitarle a liberarsi immediatamente dei cellulari loro forniti. Lo stesso pomeriggio, tramite Clotilde e Matilde, informarono lo sfregiato che, a causa di problemi con la legge, si trovavano costretti, loro malgrado, a interrompere la loro fiorente carriera di pusher e pertanto non avrebbero effettuato l'acquisto del consueto carico mensile. Carico di droga che, a distanza di tempo, Giulio e Gianluca scoprirono che era stato acquistato dalle loro insospettabili e intraprendenti amiche, che allettate dall'idea di arricchirsi, aprirono un lussuoso bordello clandestino, dove offrivano ai loro clienti più viziosi e ricchi delle notti sfrenate di sesso e droga. Ancora una volta, i due amici abbandonarono la via dell'illegalità, sperando in cuor loro di farla franca. La paura di poter essere arrestato e lo stress associato, ebbero un impatto negativo su Giulio, accentuando in modo significativo il suo bisogno di drogarsi, così tanto da spingerlo a fumare come una ciminiera anche durante le poche ore che trascorreva con la sua ignara fidanzata. Presa alla sprovvista dal suo comportamento tossico, Sabrina tentò di aiutare Giulio a disintossicarsi, proponendogli di andare a vivere insieme, credendo fermamente che la convivenza quotidiana avrebbe risolto tutti i loro problemi. Dopo qualche esitazione, Giulio accettò la sua proposta, pensando che una volta riuscito a liberarsi dalla schiavitù della droga, avrebbe potuto finalmente vivere appieno quella relazione sentimentale che aveva sempre messo in secondo piano. Nel giro di poche settimane, dopo aver trovato e affittato una graziosa casa indipendente nel centro cittadino, desiderosi di dare una svolta alla loro vita, Giulio e Sabrina vi si trasferirono. Per un mese, come due fidanzatini, i novelli conviventi trascorsero molto tempo insieme e Giulio, nonostante molti disagi psicologici, riuscì a ridurre notevolmente le quantità di droga che fumava giornalmente. Fino a quando la notizia della morte di Mario, deceduto a causa di un'overdose di cocaina durante un rave party, gettò Giulio in una profonda depressione. La scomparsa dell'amico che, solo pochi mesi prima, lo aveva salvato da un colpo di pistola al volto a costo della sua stessa vita, fu un duro colpo per Giulio. Per alleviare la «nera depressione» che lo aveva inghiottito, non conoscendo altro modo per gestire le sue forti emozioni, nonostante l'assidua e amorevole presenza di Sabrina, Giulio riprese a drogarsi a tutte le ore del giorno. La ricaduta di Giulio rattristò molto la sua compagna, infranse l'incanto della loro novizia convivenza e minò alla radice la loro fragile armonia di coppia... fu così che una mattina d'inverno, la sua ragazza fece i bagagli e se ne andò, lasciando solo un biglietto d'addio sul tavolo della cucina che recitava: «Chi ben semina, ben raccoglie...e per tutti questi anni, tu hai seminato trascuratezza e spesso assenza totale. A causa del tuo amore viscerale per la tua tossica amante, oggi mi perdi. Hai scelto di vivere in un mondo surreale, piuttosto che vivere l'amore reale che provavo per te...addio! P.s.: Prenditi cura di te.». Rincasato dal lavoro, Giulio si trovò da solo in un'abitazione semivuota e insolitamente silenziosa, rendendosi conto del motivo, solo dopo aver letto il biglietto di addio della sua compagna. In quel momento, il suo traballante mondo di carta gli crollò addosso come un macigno e l'unica certezza nella sua vita da sballo allo sbando, si sgretolò, lasciandolo come un castello di sabbia in balia di un mare in burrasca. Completamente apatico per tutto il mese successivo, si svestì del ruolo di protagonista della sua vita, delegando a Gianluca la mansione che ricopriva nella loro attività commerciale. Segregandosi in casa, si abbandonò all'alcool e alla droga, arrivando a consumare un'intera bottiglia di whisky e a fumare trenta purini di erba in un solo giorno. Trascorso un mese, il padre di Giulio insieme a Gianluca andarono a trovarlo, nonostante la sua riluttanza. Quando bussarono alla sua porta, sapendo che era in condizioni pietose, Giulio inizialmente rifiutò di farli entrare. Tuttavia, dopo aver ascoltato l'accorata insistenza del padre, aprì la porta e lo abbracciò come non aveva mai fatto prima. Senza soffermarsi sul suo stato, evitando lunghe ramanzine, suo padre e Gianluca lo aiutarono a riordinare la casa, invitandolo a farsi una doccia e a radersi la lunga barba in stile Alan Parrish del film Jumanji. Quella sera, il padre di Giulio lo invitò a cena in un ristorante, esortandolo amorevolmente per tutta la serata a prendere in mano la sua vita e a iniziare a lavorare nella fabbrica di famiglia. Pochi giorni dopo, rasato, ben vestito e lucido, Giulio andò a trovare suo padre in azienda e frequentò quell'ambiente per diverse settimane, ma il suo spirito libero e anticonformista non gli rese la vita facile. In quell'ambiente intriso di formalità e responsabilità, sentiva quella cravatta al collo come un cappio, quelle scarpe con la suola in cuoio come due zavorre e quell'abito da uomo come un sarcofago mortuario egiziano. Non accettando quello stile di vita, pur sapendo che avrebbe causato l'ennesima delusione al padre, senza alcun ripensamento, decise di porre fine a quell'esperienza. Trascorso più di un anno dalla morte per overdose del loro ex cliente, Gianluca e Giulio decisero che era giunto il momento di investire i proficui guadagni della loro attività di spaccio per realizzare il loro sogno comune.
Vincenzo Laudi
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