Alina e il piccolo Willy.
Krylios, a ben vedere, non era neppure troppo distante, lontano appena una dozzina di anni luce da Sempiterno. E come Sempiterno era anch'esso confinato in una zona periferica della galassia. Il viaggio, ciò nonostante, sarebbe durato ben più di una settimana, data l'impossibilità di proseguire nell'iperspazio durante l'ultimo tratto di volo, per la presenza di un vasto campo di asteroidi. La mattina del secondo giorno successivo alla partenza, Panito se ne stava in disparte, silenzioso e assorto nei propri pensieri, con lo sguardo perso al di là della grande vetrata che campeggiava nella cabina di comando e le mani incrociate dietro la schiena. Fuori, le stelle, distribuite senza coerenza su un tappeto scuro e dalla profondità infinita, scintillavano di luce bianca, gialla e rossa, disseminate in ammassi dalle forme composite. Erika entrò con prudenza, quasi in punta di piedi, lui, sentendola, girò il busto e abbozzò un sorriso. «Sei preoccupato?» Hortego alzò le spalle, incerto sulla risposta da dare, che formulò dopo un ripetuto batter d'occhi. «Mi sono stancato di studiare all'infinito le carte e i documenti che riguardano questa folle avventura. Ormai, tutto quello che c'era da sapere l'ho letto sino alla nausea. Con quali risultati? Nulla di concreto e preoccupazioni alle stelle.» «Ci sentiamo tutti un po' impotenti, forse inadeguati.» «La verità è una sola, dopo avere girovagato per la galassia, esplorandola in lungo e in largo, ci ritroviamo ancora ai nastri di partenza.» «Inoltre,» aggiunse sconfortato, «col pericolo reale e incombente di essere attaccati da un momento all'altro.» «Impossibile darti torto, in ogni caso, dobbiamo sforzarci di essere positivi. Da parte mia, sento che qualcosa sta per accadere, che Krylios potrebbe significare la svolta che aspettiamo.» «Mi piacerebbe avere la tua fiducia e il tuo ottimismo. Ma dimmi, hai qualche elemento a supporto delle tue aspettative?» «Nulla di preciso, considera, però, che le sensazioni di Radia hanno spesso un fondamento non distante dalla realtà.» «Hai fatto bene a ricordarmelo,» disse Panito, sforzandosi di sembrare meno scettico, «dunque, auguriamoci che i prossimi avvenimenti siano il preludio per ridare linfa alla missione.» «Lo spero anch'io!» esclamò Erika, cercando di enfatizzare la sua risposta. «Piuttosto,» riprese con identica determinazione, «ora che hai deciso di disertare i tuoi solitari e appassionati studi, potremmo ingannare il tempo tenendoci un po' di compagnia?» «Capisco il tuo garbato rimprovero, e mi rendo conto di essere un pessimo compagno di viaggio.» «Nessun rimprovero. Beviamo qualcosa insieme?» «Ottima idea, vieni sediamoci.» Presero a sorseggiare due succhi di frutta dal gusto fresco e dissetante. «Ti va di discorrere un po'?» chiese Erika. «Certo, volentieri.» «Sai, Panito, dacché ti conosco, ho sempre percepito la grande tristezza e il profondo dolore che vivi intimamente.» «Non immaginavo fosse così evidente.» rispose Panito, sorpreso per la sortita di Erika. Alzando gli occhi, precisò senza riflettere: «Che stupido, è ovvio che per te lo sia!» «Panito, che dici? Non penserai che Radia sia un'intrigante o una guardona?» «Ma no,» rispose, con evidente imbarazzo, «tranquilla, non lo penso affatto.» La donna si fece seria. «Hai mai pensato di farti una famiglia?» «Una famiglia?» chiese stupito, questa volta sorridendo con spontaneità e un pizzico di nostalgia. «Certo che sì,» continuò, abbassando lo sguardo, «non ci crederai, ma me l'ero proprio fatta una famiglia.» «Sul serio, e poi cosa successe?» «Non ne ho mai parlato con facilità...» «Scusami, sono stata indiscreta.» «Lascia stare, prima o poi dovrò pur smettere di nascondermi dietro ai fantasmi del passato.» «Se non ti va, possiamo parlare d'altro.» La interruppe senza esitazione, deciso ad abbassare la guardia, almeno con lei: «Con chiunque altro mi risulterebbe difficile, ma con te è diverso.» Si bloccò a fissare il bicchiere che aveva cominciato a passarsi da una mano all'altra, un gesto istintivo sollecitato dalla carica emotiva che tendeva ad affiorare. Non se ne curò, limitandosi a cercare le parole giuste dalle quali incominciare: «Vedi, Erika, ci fu un tempo in cui m'innamorai perdutamente di una ragazza di nome Alina.» La pausa che seguì, narrava del travaglio intimo che frenava il desiderio di aprirsi, rispetto alla tentazione di continuare a tenersi tutto dentro. Rifletté che di acqua sotto i ponti ne fosse passata ormai tanta, che confidarsi con una persona amica avrebbe contribuito a rendere meno oppressivo il fardello che gravava sulle sue spalle. Forse non sarebbe servito a molto, di certo gli spettri di un tempo lontano avrebbero continuato a tenergli compagnia, ma, in quella circostanza e nello stato d'animo del momento, colse gli ingredienti che lo spingevano a lasciarsi andare. Condividere con Erika la sua storia passata, poteva essere cosa buona, gli avrebbe dato sollievo, almeno per un po'. Provarci, non costava nulla, e sapeva che di Erika poteva fidarsi. Decise di voltare le spalle a ogni reticenza, imponendosi, anzi, di lasciare spazio ai desideri del cuore, cercando di liberarlo dalle inibizioni. «Era giovane, fresca, allegra, pulita, piena di entusiasmo e di voglia di vivere, ricambiava il mio amore e la vita ci sorrideva. Alina aveva occhi neri come la pece e denti bianchi come la neve, in un viso radioso, dall'espressione spensierata e gioiosa. Era snella, energica, leggera. Presto si impossessò del mio cuore, entrò nella mia testa, con spontaneità, con violenza, con l'irruenza di un amore invadente, incontenibile, spregiudicato, appassionato.» La sua voce ebbe un fremito, incespicando nell'emozione di sentimenti lontani, che ora riemergevano con straordinaria intensità e che il tempo non aveva saputo affievolire. Lanciò lo sguardo carico di nostalgia oltre il vetro trasparente, nel vuoto sconfinato dell'universo profondo, e riprese il suo narrare. «I suoi baci, le sue carezze, le sue attenzioni, erano inebrianti, seducenti, elettrizzanti, eccitanti. Non ero soltanto innamorato di Alina, ero pazzo di lei. La vedevo e la sentivo intorno a me, anche quando non c'era. La scorgevo in ogni ragazza che mi capitava d'incontrare per strada, sentivo il suo profumo se soltanto la raggiungevo con la forza del pensiero. Il nostro tempo, scandito dai giorni, dalle settimane, dai mesi, fu tempo di gioia, di passione, di complicità. Tempo di estasi, inebriato dalla sua semplice presenza. Un bel giorno mi presentai a lei, addosso il mio abito nuovo e appena acquistato, in tasca il prezioso anello che avrebbe suggellato la nostra unione, che immaginavo felice e duratura. Fra la mente che mi chiedeva di ragionare e il cuore che correva all'impazzata, e che sentivo scoppiare, scelsi il secondo che, spaccandomi il petto, mi costrinse all'obbedienza. Alina disse sì, con entusiasmo, senza esitare, con felicità e trasporto, percependola come la cosa più naturale e spontanea che potesse capitarci. Mi baciò, non curandosi di lasciare a me l'iniziativa, sulla fronte, sulle guance, sulla bocca. Mi strinse con tutta la forza delle braccia e l'ardore della sua giovane età. Mi ripeté un sì che non poteva essere più convinto, più sincero, più voluto.» La commozione lo costrinse a prendere fiato, deglutì a fatica e nascose lo sguardo, cercando di rimettere sotto controllo il proprio turbamento e il timbro della voce. Bevve un sorso, ricordandosi del bicchiere che teneva fra le mani, e riprese a parlare, tentando di filtrare l'avvicendarsi incontrollato delle emozioni. «La nostra unione fu grande, totale, coinvolgente, fatta di condivisione, di desiderio, di amore, di piccole cose, di grandi progetti.» Socchiuse gli occhi, costretto a scandire, sussurrandole, le poche parole che in quel momento affiorarono dal suo cuore: «Due anni dopo nacque William.» Disse quel nome con sofferenza, stentando a riconoscere la sua stessa voce, accorgendosi solo ora che non lo pronunciava da molto tempo, almeno nella forma verbale. Ma decise di continuare, respingendo a fatica una lacrima, esprimendo un pensiero che, disegnandosi nell'aria, gli provocò un totale sbandamento mentale e un violento dolore fisico. «Willy, come lo chiamavamo Alina ed io.» Alla soave armonia di quel nome, una luce accese il suo sguardo triste, mentre il suo sorriso, pur spontaneo, rimase imbrattato dall'infelicità. Dovette ricorrere a un profondo respiro e darsi tempo, prima di riuscire a continuare. «Sai, Erika, ero convinto che il mio amore per Alina fosse il sentimento più grande, il più appagante, il più totale, ma dovetti ricredermi. La prima volta che vidi Willy, appena venuto al mondo, era avvolto nelle braccia di sua madre. Lo vidi piccolo, rosso in viso, pieno di capelli, chiari, quasi bianchi. I suoi occhi, che già teneva aperti, erano vivaci, grandi, blu. Agitava le minuscole mani, anch'esse rosse e paffute, e strillava a gran voce. A quel vedere, rimasi incantato, le gambe mi si bloccarono all'istante, e dovetti appoggiarmi alla parete più vicina. Li guardai insieme, madre e figlio, teneramente abbracciati. Non so spiegarti come mi sentissi, di certo inebetito, forse stordito, invaso da una commozione che non conoscevo. Rimandai di qualche attimo un abbraccio che mi avrebbe fatto salire in cielo, per incorniciare e fissare nella memoria un evento irripetibile. Quello, fu il più bel giorno della mia esistenza. Non me ne resi subito conto, ma quando accadde, lo percepii nella maniera più vera e profonda. La presenza di Willy e la sua vicinanza mi fecero comprendere quale fosse la felicità totale e assoluta; spontanea e gratuita; quella che non ti sconvolge, ma che ti appaga; quella che non chiede nulla, ma in cambio ti regala il mondo; quella che non devi conquistare, perché è già tua.» Si bloccò, ansimante, lo sguardo piantato a terra, nell'incapacità di continuare. Erika, da parte sua, lo fissava con occhi di ghiaccio, pur non comprendendone ancora il motivo. Di certo, erano evidenti il disagio, il grande turbamento, lo smarrimento, che scaturivano dalle parole di Panito e dall'evocazione dei suoi ricordi, al cospetto dei quali, anche Erika, si era lasciata coinvolgere, trascinata da un senso di angoscia e di tristezza. Le emozioni di entrambi, stridevano con il racconto di Panito, che richiamava un periodo della sua vita trascorso in grande serenità e costellato da momenti di indimenticabile felicità. Quelle parole, dunque, le percepì come diamanti incastonati in un mondo dorato e prezioso, ormai convinta che un'ombra inquietante e terribile ne avesse decretato la fine. A conti fatti, non poteva ravvisarsi altra spiegazione, perché testimoniato dalla sofferenza germogliata da ogni parola udita, perché confermato dalla tenerezza macchiata di dolore che sostanziava ciascuna delle espressioni pronunziate. La commozione cagionata dalle tinte intense del malinconico narrare, mal nascondeva la certezza che qualcosa di sconvolgente fosse poi accaduta, se non altro perché, di tali gioiosi fatti, oggi non v'era traccia, eccezion fatta per la presenza vivida e tangibile del ricordo. L'uomo, curvo sulla sedia, incrociò le braccia e si strinse nelle spalle, deciso a completare la sua storia. «La nostra vita continuò serena e spensierata, per un tempo troppo breve. Vivevamo su Tolsonne, un pianeta instabile politicamente e solo di recente annesso all'impero galattico, dopo una guerra che lo aveva squassato e segnato nel profondo. Facevo parte di un gruppo di funzionari, all'incirca un migliaio, distribuiti nell'intero globo. In passato, molti di noi erano stati ambasciatori, altri avevano svolto ruoli non secondari all'interno delle ultime compagini di governo. Tutti, comunque, avevamo grande esperienza in politica e nella gestione della cosa pubblica. Il mandato affidato a ciascuno di noi, in stretto coordinamento con i vari governatori delle tante regioni, era quello di osservatore di fiducia dell'imperatore, con il compito di tenerlo costantemente aggiornato sulle vicende politiche di quel mondo inaffidabile e tumultuoso. Dovevamo, insomma, monitorare la pace sociale e cercare di spegnere ogni focolaio di insurrezione. Il termine spia non ci esaltava particolarmente, anche se sintetizzava con sufficiente precisione il nostro ruolo che, come ovvio, si svolgeva nell'assoluta riservatezza. Sovente eravamo costretti a spostarci da una città all'altra, se non a trasferirci in stati lontani, ma questo faceva parte della nostra missione e non ci creava alcun tipo di complicazione. Ad Alina e a me, non dispiaceva affatto conoscere nuovi paesi, anzi, la nostra vita ci appariva interessante e avventurosa.» Osservò il bicchiere che non smetteva di maneggiare con nervosismo e se lo portò alla bocca un'ultima volta. La poca bibita rimasta, aveva perduto la freschezza iniziale e anche il sapore non gli sembrò così gradevole come prima. Buttò giù di malavoglia, sforzandosi di continuare: «La primavera era ormai inoltrata e le giornate si erano fatte più lunghe e luminose. Tre giorni prima del suo secondo compleanno, Willy aveva un po' di febbre, come capita spesso ai bambini di quell'età, nulla di preoccupante, né di straordinario. Fu allora che ricevetti un dispaccio da parte del mio diretto superiore, che mi ordinava di raggiungere al più presto la località di Santinora, situata a quattrocento miglia a sud della città di Maroja dove risiedevamo. Nella missiva erano indicati i motivi del repentino trasferimento e le cose di cui avrei dovuto occuparmi. Tutto secondo un copione che ormai si ripeteva con una discreta frequenza, in linea con i compiti a me affidati. Informai Alina, spiegandole che sarei partito il giorno appresso di buon mattino, mentre lei e Willy mi avrebbero raggiunto appena il piccolo fosse guarito. Presa alla sprovvista, mi sembrò contrariata e osservò che, dal nostro matrimonio, ci saremmo separati per la prima volta. Non aggiunse altro, ma ebbi la sensazione che il suo fosse un latente rimprovero, e che si sarebbe sentita più sicura se avessimo affrontato insieme il viaggio. Vedendomi indeciso sul da farsi, dichiarò, senza convinzione, che capiva quali fossero gli obblighi imposti dal mio ruolo e dunque, ostentando un sorriso affatto spontaneo, si dichiarò d'accordo, lasciando che partissi.» Il mento appoggiato al petto e la fronte corrucciata, scosse la testa ripetutamente, e mormorò: «Se solo avesse insistito..., se non fossi stato così cieco, così ottuso...» Le parole sfumarono, il rammarico gli trafisse l'anima, il suo sguardo deragliò sul freddo pavimento. Erika percepì il senso di angoscia che tormentava lo sfortunato amico, rimanendo a sua volta invischiata da identiche emozioni. Una crescente ansia la spronava a chiedere cosa fosse successo dopo, una rispettosa discrezione la obbligò a tacere. L'uomo si alzò lentamente, gli occhi sbarrati, il respiro affaticato, e mosse alcuni passi. Si sentiva svuotato di ogni energia, appesantito nei movimenti, i pensieri annebbiati, invecchiato di cent'anni. Rimase di spalle, deglutì alcune volte e infine respirò forte, quasi ansimando, prima di riprendere un calvario solo in parte percorso. «Una settimana più tardi, rividi Alina, giaceva immobile nel letto di un anonimo ospedale. Sulla porta della sua stanza, un infermiere mi disse piano che avrei dovuto evitarle ogni pur piccola emozione e soprattutto si raccomandò che non la facessi agitare. Lo rassicurai in silenzio, con un gesto della testa, incapace di parlare, rimanendo con le labbra rigide e serrate. Vedendola, tremai per l'orrore. Il suo viso era livido, bluastro, pestato, sofferente e gonfio; sfregiato e oltraggiato da un numero indefinibile di piccole ferite; la fronte e la testa fasciate dalle bende; il collo tenuto bloccato da un rigido collare. Il resto del corpo era nascosto sotto una spessa coperta bianca, che ne preservava la riservatezza, nascondendo gli altri segni della violenza subita. Mi chinai su di lei e sussurrai il suo nome. Sentendomi, si sforzò di aprire gli occhi, incapace com'era di muovere un qualsiasi altro muscolo. Riuscì a farlo solo col sinistro, mentre l'altro rimase immobile, chiuso, gonfio e tumefatto. Sembrava agitata, cominciò a rantolare e provò a dischiudere le labbra. Non ci riuscì. Erano deformi, violacee, doloranti, secche. Con voce roca e irriconoscibile, e con immenso sforzo, sillabò il nome di Willy. Pensavo di essermi preparato a quella domanda con determinazione e puntiglio, deciso, per il momento, a non provocarle altre più atroci sofferenze. Ora, però, compresi quanto fosse difficile. Mi sentii venire meno, le mie gambe quasi cedettero e mi girò la testa. Reagii come meglio non potei, cercando dentro di me quelle risorse che potessero dare credibilità a una bugia troppo grande per le mie residue forze. Provai a parlare, di fatto cominciai a farfugliare, non so neppure cosa dissi, la mente mi seguiva a fatica, anzi non mi sosteneva affatto. Raccontai che era ricoverato in quello stesso ospedale, che si sarebbe ripreso di certo, che sarebbe guarito, dissi che dovevamo sperare, dissi... non so quante e quali altre menzogne. Appena smisi di blaterare e di incespicare nelle mie stesse parole, chinai il capo, avvertendo la mia personale sconfitta e inutilità. Alina mi conosceva sin troppo bene e comprese subito la verità. Quando il suo occhio sinistro tornò a chiudersi, vidi le sue guance solcate da due lacrime impregnate di dolore e di disperazione. Non emise alcun lamento, o forse non ne fu capace.» «Panito,» disse con discrezione Erika, «tutto questo ti fa male, credo sia meglio smettere.» L'uomo alzò lo sguardo senza fretta, con un sorriso inaspettato scolpito in volto, che strideva oltremodo con la tristezza dei suoi grandi occhi scuri, e la interruppe con una determinazione tanto assoluta, quanto inattesa: «Sai, Erika, il mio dolore lo porto sempre dentro. Oggi non soffro più che in qualunque altro momento, mi accorgo semplicemente che non sono avvezzo a parlarne, e che stento a trovare le parole giuste. Tutto questo, però, è marginale e significa poco.» Il sorriso svani in fretta, ma non intaccò la sua determinazione ad andare avanti. Tornò a girare le spalle, riposizionando lo sguardo verso un punto astratto, e riprese il suo penoso narrare. «I giorni che seguirono, li passai al capezzale di Alina. Le cure si rivelarono di grande efficacia e presto recuperò le forze, anche se l'aspetto del viso, a causa dei traumi subiti e degli ematomi piuttosto diffusi, migliorava con esasperante lentezza. Ciò nonostante, i medici vollero tranquillizzarci, sostenendo che la guarigione era prossima e che sarebbe avvenuta nel migliore dei modi.» Portò le mani alle tempie e le massaggiò appena, poi tossì e si schiarì la voce. «In tutto questo, la cosa più preoccupante era l'atteggiamento di Alina, causato dal violento choc subito, del quale io, come chiunque altro, potevo avere un'astratta quanto imprecisa consapevolezza. Oltre, naturalmente, all'indescrivibile dolore causatole dalla perdita del nostro piccolo Willy. Durante la permanenza in ospedale, dopo il nostro primo, drammatico incontro, non pronunciò mai parola. Difficile dire se la mia presenza le fosse d'incoraggiamento o di aiuto. In verità, presto mi convinsi che facesse di tutto per evitarmi e che, ai miei tentativi di darle conforto e compagnia, parlando o banalmente standole vicino, contrapponesse il suo più totale disinteresse. Ne ebbi la certezza il giorno che fu dimessa. Ci avviammo verso l'automobile noleggiata quella stessa mattina e che avevo parcheggiato davanti alla struttura ospedaliera. Quando azionai l'apertura dello sportello per farla entrare, Alina sembrò indugiare, ma fu il dubbio di un attimo, forse una specie di remora mal soppesata, poi si girò verso di me e sorrise. La sua voce mi giunse chiara e sicura, come non accadeva da molte settimane. Pronunciò poche parole, le soppesò e le caricò di grande determinazione, come se volesse scolpirle nella mia mente a caratteri indelebili. Panito, disse, ci ho pensato molto, in tutti questi giorni. Non c'è più alcun motivo perché tu ed io rimaniamo insieme. Ci lasciamo qui, ora, per sempre. Non fui in grado di reagire, rimasi sorpreso, fulminato, incredulo. Ancor prima che potessi in qualche modo metabolizzare e comprendere quello che ci stava accadendo, la osservai salire sull'automobile e allontanarsi adagio. Prima Willy, ora Alina, da impazzire. E con lei, se ne andava quel poco di consolazione e di aiuto che la nostra unione avrebbe potuto ancora riservarci. Non so dirti quanto tempo passò prima che distogliessi lo sguardo dall'incrocio che la vide sparire ai miei sensi e uscire dalla mia vita.» Voltandosi, cercò Erika, era esausto, la raggiunse e si lasciò andare sulla vicina sedia. Rimasero in silenzio, per un tempo indefinito, sinché, sfiorandogli la mano, Erika sussurrò: «Panito, ti va di raccontarmi che cosa accadde al tuo bambino e ad Alina?» L'uomo, afflosciato sulla sedia e ancora lontano con la mente, sobbalzò, e parve sorpreso della propria omissione: «Ah, che sbadato, non te l'ho detto.» Ritrasse la mano fredda, portandola alla fronte, che sentì ribollire, e chiuse gli occhi, rassegnato a colmare la lacuna. «È andata così: una gang di ribelli deve avermi individuato e, saputo lo scopo della mia missione, ha cercato di farmi fuori, insieme alla mia famiglia. Quella era gente che viveva coltivando odio e mangiando vendetta. Bande senza scrupoli, che non combattevano per un ideale di libertà, perché non avevano la forza necessaria per perseguirla, né il seguito o le capacità per conquistarla. Nella loro logica, fomentata da un fanatismo fine a sé stesso, non era rimasto che lo spazio per compiere atti di sabotaggio, finalizzati a soffocare nel sangue e nella ferocia il rancore accumulato nella frustrazione di battaglie mai vinte. Vivevano nell'emarginazione, senza un progetto politico o sociale, perpetrando stragi inutili e fine a sé stesse. Per lungo tempo, con le loro scorribande, hanno spezzato molte vite e causato altrettanto dolore. Pensavano che fossi col piccolo drappello di persone che hanno attaccato, perché volevano uccidere principalmente me, una spia dell'odiato usurpatore. Poi, come di consueto, avrebbero sfogato la loro rabbia trucidando tutte le altre persone che facevano parte della spedizione. Non trovandomi, devono essersi inferociti più di quanto già non fossero. Non si sono limitati a uccidere, hanno infierito sui malcapitati, torturandoli con sadismo, dando sfogo alla loro crudeltà, enfatizzando la loro profonda disumanità. Li hanno abbandonati dopo averli seviziati per diverse ore, lasciandoli agonizzanti e prossimi a morire. Alina è stata l'unica sopravvissuta di sette persone, compreso il mio piccolo Willy.» I singhiozzi di Erika lo obbligarono a girarsi verso di lei. Soltanto allora, si accorse che piangeva, senza controllo, turbata e sofferente. Sottraendo spazio alle parole, ormai men che superflue, i loro occhi s'abbassarono con discrezione.
Sandro Pinello
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