La taverna dell'orso cattivo
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Tutto iniziò un anno fa, un mattino che avrebbe dovuto essere come tutti gli altri ma che si trasformò nel tragico preludio della mia storia. Fare colazione in silenzio era un'abitudine che mi teneva compagnia da tanto, troppo tempo. Ancora ragazzo arrivai alla conclusione che non mi piaceva il chiacchiericcio di primo mattino e che, essere costretto ad ascoltare controvoglia i discorsi degli altri, inevitabilmente avrebbe provocato in me un nervosismo che mi sarei portato dietro per il resto della giornata. Succube di quest'assurda insofferenza ripetevo sempre gli stessi gesti, chiudendomi in un mondo che non permettevo a nessuno di profanare. Quando sposai Mascia toccò a lei subire il mio mutismo. All'inizio accettò senza protestare questo atteggiamento eccentrico; mi amava molto, come io amavo lei, e questo ci permetteva di superare ogni divergenza di vedute. Con il passare degli anni l'amore finì e con esso anche la pazienza. Ricordo ancora oggi, dopo quindici anni, ogni attimo di quando la vidi per la prima volta. Ero giovane e pieno di belle speranze, tutto mi sorrideva e io sorridevo al mondo. Arrivato alla laurea, senza alcuna voglia di mettermi seriamente a cercare un lavoro, passavo allegramente le mie serate tra una festa e l'altra. Serate interminabili organizzate dai miei amici o dagli amici degli amici, anch'essi freschi di laurea, che cercavano come me di continuare all'infinito e disperatamente la spensieratezza piena di superficialità del periodo appena finito. Fu in uno dei nostri festini chiassosi e inutili che la vidi per la prima volta. Era decisamente bella, tanto da farmi subito pensare, con scarsa obiettività, che fosse una ragazza fuori dal comune, sprecata per un posto inconcludente e pieno di gente che aveva in testa solo l'obiettivo di rimorchiare. Quella sera ero solo, ancora impegnato a digerire l'abbandono da parte della ragazza che avevo frequentato durante il periodo universitario. Mi sentivo ancora prigioniero della disperazione quando fui attratto dalla sua risata, talmente cristallina da provocare la mia curiosità. Mi girai e la guardai: la testa ornata di capelli biondi era leggermente inclinata, mentre la dentatura bianca e perfetta faceva bella mostra di sé; rideva della battuta del ragazzo seduto accanto, che mi parve molto interessato a lei. In quel preciso istante decisi di conoscerla meglio e cominciai a spiare tutte le sue mosse. Ballava con grazia, mettendo in evidenza il suo bel corpo senza alcuna malizia; e beveva a piccoli sorsi per evitare di eccedere nella quantità dei superalcolici, che avrebbe potuto provocare la perdita del controllo. Rideva perfino con garbo alle battute, presuntuosamente giudicate da me cretine, degli amici che facevano a gara per attirare la sua attenzione. Insomma, me ne ero innamorato perdutamente e volli conoscerla a tutti i costi. Dopo aver chiesto qua e là chi fosse, scoprii che si chiamava Mascia e che era al terzo anno di giurisprudenza. Ebbi l'opportunità di avvicinarla dopo circa un'ora di stretta sorveglianza. Era stranamente sola al bancone ad aspettare pazientemente un Margarita. Mi sedetti accanto senza dire una parola e feci finta di essere interessato alle mosse del barman che, sentendosi osservato, shakerava l'intruglio con eccessiva teatralità. Mascia sembrava non essersi accorta di me, anche lei fissava affascinata i gesti dell'uomo. “Ti piace il Messico?” Sussurrai con imbarazzo, mentre il barman le avvicinava la coppa con il bordo orlato di sale e stracolma di Margarita. Mascia non batté ciglio. Pensai che non avesse sentito le mie parole per il rumore assordante della musica. Sollevò il calice lentamente, bevve un sorso e, quando ero ormai rassegnato al suo silenzio, rispose senza guardarmi. “Non sono mai stata in Messico, ma mi piace la tequila.” “Io il migliore Margarita l'ho bevuto nella parte vecchia di Città del Messico.” Ovviamente non ero mai stato a Città del Messico, ma non resistetti alla voglia d'impressionarla. Finalmente lei mi guardò. Aveva un'espressione che, pensai ingenuamente, oscillava tra l'incredulo e l'ammirazione. “Tu sei stato a Città del Messico?” “Un paio d'anni fa. Ho fatto la facoltà di giornalismo e il dipartimento degli esteri ha mandato in Messico i tre migliori studenti per condurre un'inchiesta sui cartelli messicani della droga.” L'avevo sparata talmente grossa che mi pentii subito di quello che avevo detto. “Hai fatto un'inchiesta sui cartelli messicani della droga?” La sua curiosità mi fece sperare che avesse creduto al mio racconto. “Già, mi è riuscita talmente bene che ho utilizzato l'inchiesta per fare la tesi di laurea. La commissione mi ha elogiato e mi ha dato il massimo dei voti, concedendomi il diritto di pubblicazione.” Continuavo a raccontare balle senza ritegno. “Avrai rischiato parecchio, so che i giornalisti in Messico non hanno vita facile.” “Beh, sì... Ti confesso che io e i miei colleghi siamo scampati a un attentato, quando eravamo quasi alla fine dell'inchiesta.” “Hanno tentato di ammazzarti? Sul serio?” “Evidentemente con le nostre domande abbiamo dato fastidio a qualcuno. Siamo stati rimpatriati in fretta e furia dalla nostra ambasciata.” Ormai andavo a ruota libera e, lo confesso, cominciavo a prenderci gusto. “Si è ferito qualcuno?” “Per fortuna tutto si è risolto con un grande spavento.” “Per fortuna, sì.” Mi accorsi del suo sorriso ironico e sospettai che, forse, non l'aveva bevuta. Però volli continuare lo stesso con le mie balle. “Quando siamo rientrati ho dovuto fare sei mesi di psicanalisi. Non riuscivo più a dormire senza sognare quei bastardi che volevano a tutti i costi decapitarmi con il machete.” “Accidenti!” L'atteggiamento che continuava a ostentare, guardandomi dritto negli occhi, mi diede la certezza che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Invece di ascoltare con interesse, apprensione e soprattutto preoccupata, Mascia rideva delle mie disgrazie. “Non ci credi, vero?” Il tono rassegnato firmò la mia resa. Quel gioco, se fosse continuato, rischiava di rendermi ancora più ridicolo. “Sì, sì, perché non dovrei?” Parlò con indifferenza come se, in fondo, non gliene fregasse niente delle mie disavventure. Il suo comportamento mi fece capire che la colpa era solo mia e dovevo porre rimedio. “Va bene, ti ho raccontato un cumulo di fesserie, non sono mai andato in Messico e non ho mai fatto inchieste in luoghi pericolosi.” “Ah no?” Sembrava sorpresa della mia confessione, ma non abboccai. “Il viaggio l'ho fatto veramente ma in Spagna, a Barcellona, dove abbiamo fatto un'inchiesta sul perché quella città attira tanto i ragazzi di tutta Europa.” “Non è proprio il viaggio da brividi che mi hai raccontato, ma è pur sempre una bella esperienza.” “Lo so che avevi capito subito che ti raccontavo fesserie.” “E allora perché hai insistito?” Il suo tono era diventato duro. “Vorrei diventare uno scrittore e mi piace lavorare di fantasia. Quando inizio, è più forte di me, non riesco più a fermarmi.” “Più che uno scrittore, mi sembri un povero coglione che cerca di arrampicarsi sugli specchi per fare colpo.” Mascia si alzò e si allontanò, senza che io avessi il coraggio di replicare o di seguirla con lo sguardo. Rimasi imbambolato a fissare il bicchiere vuoto del suo Margarita, con un macigno sullo stomaco e la voglia di sprofondare. Solo dopo parecchi minuti e un paio di martini dry, alzai lo sguardo dal bancone. Scrutai attentamente ogni angolo del locale, ma non la vidi. Probabilmente era scappata, disgustata dal mio insolito approccio da pallone gonfiato. Il giorno dopo mi appostai davanti alla facoltà di giurisprudenza, ma non la vidi. Insistetti il giorno successivo e quelli che seguirono. Non c'era traccia di lei, sembrava scomparsa nel nulla. Cominciai a sospettare che Mascia fosse frutto della mia fantasia, un fantasma che avevo voluto creare apposta per cercare consolazione e per schiacciare la delusione dell'amore precedente, il tutto incoraggiato dall'enorme quantità di alcool tracannato quella sera. Ormai ero quasi convinto di quella ipotesi, quando la vidi camminare con portamento aristocratico verso l'università. M'intimorì quell'incedere austero, tanto da avere il dubbio che potesse essere lei. La vedevo allontanarsi sempre più ma non riuscivo a muovermi, pietrificato dall'eventualità di fermare una sconosciuta. Finalmente mi decisi, dovevo agire alla svelta altrimenti correvo il rischio di perderla definitivamente. In pochi attimi le fui dietro, tanto vicino da farle sentire il fiatone della corsa sul collo. Accorgendosi di una presenza estranea a pochi passi da lei, impaurita accelerò il passo senza girarsi. Era quasi arrivata alla meta, quando trovai il coraggio di pronunciare il suo nome. “Mascia.” Non si voltò, anche se ero sicuro che avesse sentito; continuò a camminare rigida, col passo sempre più austero. Volli insistere, spinto dalla disperazione. “Mascia, me disculpo por ser un imbécil.” Essermi dato dell'imbecille in spagnolo la fece finalmente fermare. Si girò, scrutandomi con un sorriso che mi fece accapponare la pelle. “Tienes razón, solo eres un imbécil.” Parlò lentamente e questo m'inquietò ancora di più. “Mi perdoni?” Dissi con un filo di voce. “In Messico hai imparato bene lo spagnolo.” “Scusami per tutte le stronzate che ti ho raccontato.” “Eri ubriaco?” “Forse, o forse volevo fare colpo su di te.” Il sorriso che mi fece innamorare di lei quella maledetta sera, finalmente riapparve. “Avresti dovuto evitare tutta quella messinscena.” “Hai ragione, scusami.” “Non era necessaria la tua stupida sceneggiata, avevi fatto colpo su di me anche senza dire una parola.” Quello fu l'inizio della mia storia d'amore con Mascia. Incominciò come un amore costruito sulla più totale sincerità, probabilmente a causa del preludio turbolento. Ci giurammo che non ci saremmo mai mentiti, anche a costo di farci del male. E fu con queste premesse che cercammo di costruirci un futuro insieme.
Leo Augliera
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