Il suono vibrante dell'arpa
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Novembre 1989, Sara.
‹‹Devi venire Sara, ho bisogno di parlarti, sono uno straccio senza di te, non mangio più, il frigorifero è vuoto da giorni e non riesco a dormire.›› - così Philippe mi ha detto ieri al telefono. Non andare mai a un ultimo appuntamento. - queste parole di mia madre, mi hanno impedito il sonno della notte. Ma Philippe è ancora mio marito, non posso far finta di niente, in fondo mi sta solo chiedendo di aiutarlo ad abituarsi a vivere senza di me. Gli ho già fatto la spesa, tra poco esco dall'ufficio e gliela porto. Sono trascorsi ventotto giorni da quando l'ho lasciato. Se ripenso ai nostri tre anni di matrimonio mi sembra ancora di soffocare. Anni difficili, noi due isolati dal resto del mondo perché lui è sempre stato insofferente agli altri. Non ce la facevo più a portare avanti quel rapporto così opprimente che mi toglieva il respiro e, soprattutto non ce la facevo più a stare lontano da mia madre Margherita e da mia sorella Emilia. Le giornate con lui erano diventate vuote, prive di significato, scandite da ritmi monotoni e pressanti. Solo offese e parole fredde, spigolose, pungenti come gli aculei di un riccio. Un amore tossico e maligno che mi ha devastato l'anima. Nulla lo scalfiva neppure le mie lacrime neppure il mio desiderio di avere un figlio. ‹‹Siamo io e te, non abbiamo bisogno di un urlatore in casa.›› Godeva a vedermi soffrire e a schiacciarmi sempre di più. Tante volte avevo pensato di lasciarlo ma, se non fosse stato per Emilia non ci sarei mai riuscita. Una sera, all'uscita dal lavoro, me la sono trovata davanti. ‹‹Tu vieni a casa con me - mi ha detto, in modo tassativo - la mamma ci sta aspettando.›› Salgo in auto e mi tuffo nel caos delle strade parigine. Accendo la radio, lo speaker esulta alla notizia della caduta del muro di Berlino. Anche il mio muro di alienazione e di sudditanza è caduto, dopo anni di privazioni, di menzogne, d'infelicità, ho riacquistato la libertà. Che meraviglioso sapore ha la libertà, forte come le onde del mare, audace come un giovane eroe, fresco come una sera d'estate. Agli inizi del nostro rapporto avevo creduto di poter amare davvero Philippe nonostante i suoi pochi pregi e tanti difetti, il suo carattere cupo, ermetico, scostante. Ci siamo conosciuti in una giornata di fine ottobre quando l'autunno regala un tripudio di luci e colori che catturano lo sguardo orgoglioso dei parigini e quello estasiato dei turisti e non si può fare a meno d'inchinarsi di fronte allo spettacolo delle foglie cadute che generano armonia e infondono calore. Il giorno giusto per innamorarsi. All'inizio, stavamo bene insieme anche se c'è sempre stato qualcosa di sfuggente in lui che m'intimoriva, forse la sua gelosia eccessiva o quella strana sensazione che non mi dicesse sempre la verità. I segnali perché io stessi attenta c'erano tutti. Sono io che, stupida non gli ho ascoltati. Margherita, mia madre, aveva tentato qualsiasi cosa pur di convincermi a non sposarlo. ‹‹Fai un lungo viaggio da sola o con Emilia. Quando tornerai, avrai nuovi occhi e tutto ti sembrerà diverso.›› Ci siamo sposati, in una fredda giornata d'inverno. Davanti all'altare, sono stata presa da un profondo senso di angoscia, sarei voluta scappare ma era troppo tardi, mi sentivo in trappola senza vie di scampo. E allora mi sono illusa di poterlo cambiare ma più i giorni passavano più il nostro rapporto diventava aspro e pungente. Non faceva che criticarmi: ‹‹Sbagli sempre tutto. E' mai possibile che tu non capisca? Tu non meriti di essere amata da me! Questo tuo modo di fare mi rende nervoso.›› Si lamentava anche del mio corpo: ‹‹Sei grassa e stai diventando brutta, attenta che non me ne cerchi un'altra! Resto con te perché mi fai pena, chi ti vuole più?›› Mi sono messa a dieta, una dieta rigida che mi ha indebolita e mi ha reso ancor più fragile e remissiva tanto da accettare qualsiasi cosa con estrema passività senza la minima reazione. Ero io quella sbagliata, quella che lo rendeva volgare e aggressivo. Era solo colpa mia. Tre anni di prigionia, di insinuazioni, di subdole perfidie, di una violenza sottile come una lama di ghiaccio, di derisioni e lunghi silenzi. Oggi sono una persona diversa. Accanto a me ci sono Emilia e Margherita che hanno aperto la porta della mia gabbia e liberato il canarino e che mi stanno dando la forza di andare oltre, oltre la manipolazione e il plagio, oltre la sofferenza e il dolore, oltre le offese e le umiliazioni. Entro nel cortile condominiale e parcheggio nel nostro posto riservato. Prendo le borse della spesa e salgo in casa. La casa dei miei sogni diventati un incubo. Ultimo piano. L'ascensore si ferma e le porte si aprono. Indugio qualche istante prima di inserire la chiave nella toppa. Non andare mai a un ultimo appuntamento. - queste parole continuano a martellarmi in testa. Apro. La luce non si accende. Le tapparelle sono abbassate. Lascio la porta d'ingresso spalancata perché possa entrare un filo di luce. Metto le borse della spesa vicino alla scala che sale in mansarda. ‹‹Philippe!›› - chiamo. Nessuno risponde. C'è un silenzio agghiacciante. Non è vero che il silenzio tace, il silenzio ha mille voci diverse e questa voce è terribile, grida odio e vendetta. Mi entra nella pelle e comincia a scavare e scavare fino a divorarmi, sbranando ogni filamento del mio corpo. Devo scappare, mi volto, lui è in piedi davanti a me. Ha in mano una pistola. Mi fissa. ‹‹Sara, - ride con quel suo modo sguaiato e diabolico che mi ha sempre terrorizzata - non avrai forse pensato che fosse così semplice lasciarmi?›› Sono impietrita, non riesco più a muovermi. Perché sono qui? Sento di nuovo la voce di mia madre: Non andare mai ad un ultimo appuntamento. E' tutta colpa mia, anche questa volta. Mi gira la testa, il respiro è strozzato, il mio cuore è sul punto di scoppiare, le mie mani sono ghiacciate. Non riesco più a muovermi, le gambe sono paralizzate. Punta la pistola verso di me. Cado a terra come un fantoccio di pezza mentre l'odore acre del mio sangue mi violenta le narici. Faccio appena in tempo a sentire il fragore sordo di un altro sparo. Finchè morte non vi separi.
Dicembre 1989, Emilia
A volte, penso di scappare. Vorrei trovare il coraggio di andare altrove per ricominciare, per vedere paesaggi nuovi, respirare atmosfere diverse, percepire sensazioni che mi travolgano la mente e destino i miei pensieri. Non ho paura dell'ignoto. Non temo la solitudine. Sto aspettando il momento giusto per muovere il primo passo e quando arriverà, mi lascerò trasportare dal vento e nulla potrà impedirmi di volare. L'aria fresca e pungente di dicembre mi schiaffeggia il volto, la natura è in silenzio, gli alberi sono nudi e i prati deserti. Il mio dolore sembra rimpicciolirsi fino a scomparire ma è un attimo solo un attimo e poi ricompare più forte di prima. Sono salita sulla tour Eiffel, solo quassù riesco a trovare conforto. Mi sento come un vetro rotto, devo riuscire a rimettere insieme i pezzi e ricompormi. I miei occhi gonfi, arrossati, pieni di lacrime, osservano lo scorrere lento e armonioso della Senna nel suo costante divenire mentre i colori accesi e vibranti del calar della sera mi nobilitano i sensi. Il susseguirsi dei tetti color argento, bombati o spioventi, con migliaia di comignoli in argilla sono un mosaico a cielo aperto che incantano per la monumentale bellezza e per i segreti nascosti sotto le coperture di zinco e di ardesia. Penso a Margherita, mia madre, ai suoi lunghi capelli che il tempo aveva reso ancor più soffici e lucenti e al suo gracile corpo che profumava di avvolgenti fragranze floreali. ‹‹Sta arrivando tua sorella - mi ha detto, l'ultima volta che ci siamo abbracciate - mentre le accarezzavo il volto emaciato - ho così voglia di rivedere Sara dopo tutti questi giorni di assenza e di vuoto.›› ‹‹Lo so, mamma, ma resta ancora un attimo con me, solo un attimo.›› - l'ho supplicata mentre lei, sdraiata sul letto, guardava fuori dalla finestra i colori del sole al tramonto che si dissolvevano in cielo. ‹‹Non posso, devo andar via. Il mio piccolo fiore di loto mi sta aspettando.›› - mi ha sussurrato, con la voce sempre più flebile, nell'istante in cui il giorno cedeva il passo alla notte e la vita alla morte. ***
Oggi il cielo è ricoperto da strati di nuvole che, come macchie d'inchiostro, formano strani disegni capaci di smascherare la personalità di ognuno di noi. Sprofondo nella consapevolezza di essere rimasta sola in questa grande città dove non c'è più nessuno a farmi compagnia, a leggere le emozioni nascoste nel mio cuore, a ridere e sorridere con me. E' passato solo un mese dalla morte di Sara e sedici giorni dalla morte di mia madre. Una ferita troppo profonda che solo il tempo potrà cicatrizzare. Anche mio marito mi ha lasciata perchè non sopportava più di vedermi piangere. ‹‹Tu sei morta con loro ma io non voglio morire con te.›› - sono state le sue ultime parole prima di uscire per sempre dalla mia vita. Devo ammettere che, da quando Bertrand se ne è andato, sto meglio e senza di lui mi sento libera da invisibili macigni. La sua presenza mi dava un senso di oppressione. E poi, cosa me ne faccio di un uomo che non sa confortarmi ed esserci quando ne ho bisogno? Mi chiedo spesso perchè l'ho sposato e non so darmi una risposta. Forse, per la voglia di essere amata o la paura di rimanere sola o perché, spesso noi donne dimentichiamo di volerci bene e stoltamente crediamo che basti un uomo per essere felici ma la felicità è uno stato mentale di consapevolezza e di benessere che dipende solo da noi. Prima di star bene con gli altri, dobbiamo star bene con noi stesse. Riconosco di aver creduto davvero nella vita di coppia, in qualcuno che riempisse il mio vuoto interiore e che mi amasse come io non sapevo amarmi ma le nostre infinite incomprensioni e le giornate insignificanti hanno calpestato i nostri sentimenti facendoli scivolare nell'oblio. Soltanto quando accetterò il mio passato e supererò il dolore che mi porto dietro come una zavorra, potrò ritenermi pronta e capace di fare scelte d'amore che non mi annullino come persona ma mi completino. Davanti al palazzo in cui abito, incontro Amélie Durand, la portinaia. E' piccola e rotondetta ma ha una voce potente e ridondante che echeggia nel vuoto. ‹‹Madame Grossi, ho una lettera per lei. - grida, per attirare la mia attenzione. O devo chiamarla Mademoiselle?›› - mi chiede, maliziosa, facendo dondolare le braccia avanti e indietro, in un moto perpetuo. ‹‹Non le si può nascondere niente!›› - non posso fare a meno di dirle, in tono sarcastico. Anche a Parigi i segreti hanno vita breve. Non è che io non volessi far sapere di essermi separata ma sono affari miei che alle persone non dovrebbero interessare ma Amélie Durand sa sempre tutto. Sorride, imbarazzata ma orgogliosa di sé mentre si allontana con quella sua camminata curiosa che sembra che le gambe vogliano staccarsi dal resto del corpo nel quale si sentono imprigionate. Rientro nel mio appartamento. Gli eventi degli ultimi mesi mi hanno travolta fino a farmi quasi annegare ma non devo perdere di vista la boa a cui aggrapparmi, sto nuotando a bracciate veloci per raggiungerla e non farmi portar via dalle onde. Mi butto a capofitto sul letto, vicino alla mia gatta che emette melodiosi miagolii rasserenanti. Morfeo, il mitologico figlio del Sonno e della Notte, mi avvolge in un abbraccio e sfiora le mie palpebre con petali di papaveri, per donarmi realistiche illusioni. Ripenso a mio padre. Nelle notti insonni, in cui i fantasmi del passato tornano a farmi visita, immagino il nostro incontro. So che il legame di sangue non garantisce l'intensità di un rapporto ma quest'assenza senza fine mi sta uccidendo l'anima. Vorrei riascoltare ancora i suoi rimproveri e le sue lodi e affogare nel mare dei suoi sorrisi perché il mio amore per lui non si è mai spento anche se continua ad alternarsi all'odio e al rancore, anche se ho cercato, con ogni mezzo, di relegarlo in un angolo del mio cuore. E' trascorso tanto tempo, da quella sera di fine novembre, quando mio padre, Riccardo Grossi, è stato portato via da un vento caldo e silenzioso che soffiava su Parigi. Sul tavolo della cucina, appoggiato ad un vaso di fiori appassiti, aveva lasciato un biglietto con poche, anonime righe: ‹‹Non riesco a guardare Sara Elodie senza pensare a Catherine, quello che mi è successo ha distrutto la mia vita e ho bisogno di allontanarmi per capire come affrontare il mio futuro.›› E il nostro presente di figlie?- avrei voluto urlare mentre soffocavo la rabbia dentro di me. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, faccio fatica a capire e mi chiedo dove abbia trovato il coraggio di scappare da noi, di abbandonarci da un giorno all'altro e non riesco a darmi una risposta. Quando ci ha lasciate, mi sono sentita in colpa, terribilmente in colpa. Capita spesso che i bambini si sentano colpevoli degli errori dei loro genitori e ho pensato di aver fatto qualcosa di terribile finchè è prevalso un infantile meccanismo di difesa che mi ha portata a credere che mio padre fosse stato rapito da una vecchia regina malvagia di qualche regno sperduto e fosse stato imprigionato in un buio e freddo castello di una vallata dimenticata. Non era lui a non voler tornare da noi, era la regina cattiva che lo tratteneva. L'assenza di un genitore è un dolore difficile da gestire, un cammino tortuoso che ti affatica il corpo e l'anima. Ora più che mai, vorrei che fosse qui, mi manca da così tanti anni che, a stento ricordo il suo volto. L'ho cercato più volte tra le forme delle nuvole e più volte ho sognato di tornare bambina per poter correre ancora fino a stancarmi ed esausta e felice buttarmi tra le sue braccia e ubriacarmi dell'odore della sua pelle.
Paola Rolando Tomat
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