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Autore: Elena Piccardo
L'eco del martello
Drammatico
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L'eco del martello
"Sei sempre stato sottomesso, schiacciato, umiliato ma si dà il caso che io ora ti abbia trovato dunque ti donerò la tranquillità che hai sempre sognato.”

Leggendo i fatti di cronaca nera che pullulano sui giornali, vi sarete chiesti almeno una volta nella vita cosa trasforma un uomo in un violento: la pazzia, l'avidità o forse l'amore non corrisposto? No, nulla di tutto questo o meglio, non solo per queste ragioni si può nuocere al prossimo, perché talvolta, anche l'animo più mite, può scoprire che infliggere dolore potrebbe rivelarsi estremamente divertente. Prendete come esempio il protagonista della nostra storia. Guardatevi intorno e scegliete tra la folla un Tommaso qualunque: un uomo né gracile né robusto, non troppo alto ma neppure basso, decisamente non attraente ma nemmeno così brutto da poter spaventare chi lo guarda. Insomma, un tipo ordinario, con alle spalle una famiglia perbene, una buona istruzione, una casa indipendente, un lavoro e con poche ambizioni da soddisfare. Uno come tanti. Un tizio come noi che conduce la sua routine con sorprendente tranquillità a tal punto da renderlo un numero, uno tra milioni di comunissimi esseri umani.
Ogni individuo può vantare una lista più o meno lunga, più o meno marcata di pregi e di difetti e sì, ammetto che il nostro Tom era un tipo molto introverso, eccessivamente timido, spesso taciturno, ma dopotutto, ditemi cosa c'è di sbagliato nel voler condurre una vita pacifica: immerso nella campagna, in compagnia della sola cosa che amava più di qualunque altra, le piante e i suoi animali.
Il nostro uomo si prodigava nella cura del giardino con maniacale devozione. Scommetto che nemmeno voi, attenti osservatori, sareste riusciti a trovare un filo d'erba fuori posto, un ramo disordinato o un animale malconcio. Pensate, che quando le piogge trasformavano il suo adorato pollaio in un pantano, lui non tollerava che le sue preziose galline si sporcassero le zampette ma se anche fosse successo, Tom, sarebbe stato disposto a lavarle ed asciugarle una ad una. Si rendeva conto di essere un tantino compulsivo ma dopotutto, di queste sue manie, non doveva renderne conto a nessuno.
Con queste ultime righe però non vorrei avervi dato un'immagine eccessivamente solitaria del nostro uomo poiché in realtà, Tommaso, non era del tutto un “orso”, infatti, quotidianamente sentiva la necessità di recarsi al solito bar per bersi un caffè e scambiare quattro chiacchiere con i frequentatori abituali.
Villastella era una cittadina sperduta tra le verdeggianti pianure, circondata da due fiumi e vaste coltivazioni di granturco che si estendevano per chilometri. Le graziose fattorie con gli animali al pascolo e qualche foresta selvaggia che cresceva rigogliosa grazie al clima sempre mite, costellavano il paesaggio. Insomma, un posto idilliaco ma incapace di offrire degli intrattenimenti a coloro che avrebbero voluto svagarsi: nessuna discoteca, nessun cinema ma solo un vecchio pub. Un posto perfetto per un semplice Tommaso che si accontentava delle frivole conversazioni al bar: come va il lavoro, questo tempo sta cambiando, l'Inter ha vinto la coppa e via discorrendo. Oltre al frequentare la caffetteria, Tommaso, esercitava una buona professione. Un amante degli animali come lui non poteva essere altrimenti che un veterinario.
Ogni giorno il nostro uomo visitava a domicilio diverse fattorie e ciò mi riporta alla mente un pensiero: mi stavo quasi dimenticando di parlarvi dei suoi pregi. Quindi sentite: era talmente una brava persona il nostro Tommi, che il più delle volte i padroni dei pazienti, accampando scuse, gli chiedevano di poter pagare le prestazioni veterinarie in un'altra occasione e lui, ingenuamente accettava, motivo per il quale spesso si ritrovava con il conto in rosso. Ehi, ma che ci volete fare? Tommaso era così. Convinto che la sua generosità sarebbe stata un giorno apprezzata dai clienti al punto, che riconoscenti, lo avrebbero rispettato e non si sarebbero rivolti alla concorrenza. Raramente Tom prevaricava il prossimo, non lo aveva mai fatto in passato quando i suoi genitori gli imposero la scelta dell'università e non lo faceva nemmeno ora, sebbene le difficoltà economiche lo incalzassero persino quando, arrivato al limite, si rivolgeva ai suoi clienti quasi fosse un mendicante e loro, con crudele disprezzo, gli rendevano ciò che gli spettava. Una volta addirittura accadde che gli sventolarono e poi gli gettarono delle banconote per terra, così lui fu costretto ad inginocchiarsi per raccoglierle. Mentre le sue mani arraffavano il denaro, egli si sentì profondamente umiliato, ma nonostante ciò, tacque e non protestò.
Questo è stato solo uno dei molti episodi degradanti che minarono l'autostima del nostro amico. Potrei citarvi di quando fece la sua prima proposta romantica ad una ragazza e lei gli scoppiò a ridere in faccia dicendogli: «neanche morta» oppure, per dirne un'altra, ci fu quell'occasione in cui venne ridicolizzato davanti a tutti i suoi compagni di scuola, quando andò alla cerimonia per la laurea e cadde generando l'ilarità collettiva e moltissime altre umiliazioni che lo resero un uomo sottomesso.
Tommi rincasava nella sua oasi di pace. Una casetta immersa nel verde con solo due case confinanti: una cascina nella quale vi abitavano due discreti matusalemme e una casa microscopica in vendita da anni. Ora, dopo una lunga mattinata di lavoro (iniziata alle cinque) il nostro uomo era solito accompagnarsi con la musica classica mentre consumava un frugale pasto, poi beveva comodamente il caffè nella sua veranda e per concludere, si dedicava alla cura dell'orto, del giardino e degli animali.
Tommaso aveva lavorato tanto per il suo paradiso e ci teneva a condurre uno stile di vita sano. Non comprendeva le persone che bevevano o fumavano. Rovinarsi la vita con degli effimeri piaceri artificiali era per lui impensabile.
Tom auspicava semplicemente di poter vivere sereno nel suo paradiso ma ovviamente, come spesso accade a noi comuni mortali, la vita può rivelarsi dispettosa mettendo a dura prova i nostri nervi, e in questo caso, la sfida per Tommaso aveva un volto e un nome: Maria.
Ricordate la casa in vendita da anni? Ebbene, un giorno venne acquistata da una donna single sui cinquant'anni suonati, con lunghi capelli corvini e spettinati, una corporatura leggermente sovrappeso per la sua bassa statura ed indossava sempre dei vistosi occhiali da vista, che simili ad una lente d'ingrandimento, facevano apparire i suoi occhi scuri ancor più terrificanti di quanto già fossero. Priva di grazia, di fascino e di una buona educazione, la sua voce invadente echeggiava per tutta la vallata. Come se esistesse solo lei.
La pace nella ridente campagna era finita.
Tommaso ad ogni modo non era un tipo prevenuto e non si dimostrò ostile in principio, tutt'altro, seppur per un breve periodo, cercò di rendersi utile ed aiutò la nuova vicina a sistemarsi nella casa. Le dava una mano ogni qualvolta ce ne fosse stato bisogno anche se il nostro uomo, a quel tempo, ignorava che Maria era la tipica persona alla quale porgi un dito e ti fagocita l'intero braccio. Invadente e irrispettosa, la donna, presto si rivelò essere un serpente falso e velenoso nascosto dietro ad una maschera di apparente cordialità. Ebbene sì, Tom malamente sopportava il ghigno diabolico che Maria aveva sempre impresso sul volto ma il sorriso, in realtà, era solo la punta di un colossale iceberg.
Con il passare dei giorni il nostro amico incominciò a notare che ogni richiamo della natura veniva sovrastato dal gracchiare perpetuo di quella megera.
«Cazzo ma questa tizia parla da sola! Dannata cornacchia maledetta, non è possibile che si senta solo lei» borbottava spesso lui detestando quella voce, che giorno dopo giorno, gli intasava le orecchie soppiantando il canto degli uccelli, delle cicale in estate e il gracidare delle rane la sera. Certamente lui non era un vicino affabile alla “Ned Flanders” infatti, tutt'altro che socievole ed invadente, gradiva starsene per i fatti suoi e non voleva avere o creare problemi.
Ogni giorno, che fosse nell'orto o nel pollaio, dentro casa o in veranda, Tom riusciva a captare la voce di lei. Percepiva ogni discorso, ogni singolo vocabolo che usciva dalla bocca di Maria; se per caso la signora litigava al telefono con qualche malcapitato, i suoi strepiti risuonavano nelle orecchie di Tommi come un insistente martello pneumatico.
Il peggio però arrivò quando Maria decise che la proprietà privata aveva l'unica valenza di un semplice cartello affisso su di un cancello, iniziando così ripetutamente a violare il giardino di Tommaso. Sovente accadeva che il nostro amico si affacciasse alla finestra e con indignato disappunto, sorprendeva la donna mentre era intenta camminare tra le sue aiuole, la vide stendere il bucato sulla rete elettro-saldata che sosteneva le sue giovani piante di alloro, la osservò mentre gettava le potature degli alberi nel suo giardino e la notò recidere alcuni dei suoi splendidi iris. Pensate inoltre, che quelle rare volte che i nipoti venivano a far visita alla nonna, lei gli permetteva di oltrepassare la recinzione e giocare a pallone nel terreno del vicino. In un'occasione gli distrussero persino la finestra della cucina. Tom, non solo raccolse i frantumi di vetro, ma dovette per giunta combattere contro la sua frustrazione generata dal fatto di non aver ottenuto nemmeno delle semplici scuse, anche se ad onore del vero (almeno in quel dì) cercò di farsi valere provando ad ottenere quantomeno un misero “mi dispiace”, chiedendo con cortesia alla donna di rispettare i suoi confini ma lei, come a volerlo prendere in giro, con un sorriso falso come il bacio di giuda, lo tranquillizzò dicendogli: «va bene non si ripeterà più ma ora da bravo, torna dalla tua parte e lascia giocare i ragazzi!»
Della parola scusa, nelle frasi della vicina troppo vicina, non vi era traccia. Maria dal canto suo, che amava crogiolarsi nell'egocentrismo imperante nel suo animo, era convinta di essere sempre dalla parte della ragione e non si curò mai dei sentimenti del vicino.
Tommi si sentiva disarmato, minato nella sua profonda sensibilità ma nonostante ciò, non replicò. Non lo fece perché gli mancavano le argomentazioni, bensì ne aveva troppe e temeva, che se avesse scoperchiato il vaso di Pandora esternando le sue lamentele, la situazione e l'armonia sarebbero state irrimediabilmente compromesse.
Tommaso cercò di consolarsi e come ogni volta volle credere che le promesse di pace della vicina fossero vere: che quello sarebbe stato l'ultimo episodio in cui lei, o la sua progenie diabolica, violavano il suo spazio personale. Non fu così e Tommaso iniziò a non dormir più la notte. Continuava ad essere perseguitato dall'incubo di ritrovarsi quella strega dentro casa e nella sua testa rimbombava quella voce insopportabile. Notte dopo notte, divenne sempre più difficile per lui prender sonno e sussultava ad ogni rumore, sobbalzava per ogni ombra che appariva all'improvviso e si fissava davanti alla finestra, cercando con lo sguardo, i segni di una nuova intrusione. Una sera gli sembrò addirittura che lei lo stesse chiamando così inforcò in fretta gli stivali, indossò una vestaglia e corse in giardino. L'umidità della notte aveva impregnato il prato di microscopiche gocce d'acqua che brillavano sotto la luce di una luna d'argento.
Era una notte luminosa quella, ma Tom che vagava inseguendo l'eco della vicina, sembrava non riuscire a vedere al di là del suo naso.
«Avanti smidollato vieni qui!» gracchiava lei.
«Maria dove sei? Non riesco a vederti» replicò lui avanzando lentamente nell'erba bagnata.
«Ci credo che non riesci a trovarmi, non sono così stupida da farmi stanare da un fallito come te!» disse ancora la voce.
«Non capisco perché devi essere scortese. Piuttosto, per quale motivo mi hai chiamato a quest'ora della notte?» domandò lui seccato.
«Volevo farti notare come muoiono le tue piante. Non posso credere che oggi tu non mi abbia vista mentre spruzzavo il diserbante?»
Tom digrignò i denti: «non osare toccare il mio giardino altrimenti io...»
«Tu cosa, piccola nullità? Cosa potrà mai fare un fallito e sottomesso come te? Le piante saranno solo l'inizio, io distruggerò tutto il tuo mondo. Ucciderò i tuoi animali e cancellerò l'intero lavoro della tua miserabile vita.»
La voce lentamente si affievolì sparendo in una risata mefistofelica. Tommaso tremò per la furia e la paura che provava.
«Dannazione, quella vecchia strega si prende gioco di me. Ora basta! Ne ho le palle piene di lei e dei suoi comportamenti, devo fare qualcosa e subito!» Ringhiò lui, decidendo che ciò che era avvenuto doveva essere l'ultimo sopruso.
La mattina seguente si recò al commissariato di Villastella per informarsi se ci fosse un modo legale per scongiurare altre intrusioni. Raccontò nel dettaglio ai militari ogni cosa fosse accaduta fino a quel momento e lo fece con parole esasperate come il suo linguaggio del corpo: agitato, tremolante e decisamente collerico. Di tutta risposta ci mancò poco che i carabinieri gli scoppiassero a ridere in faccia: le autorità, infatti, trovavano inconcepibile e ridicolo il fatto che un uomo adulto non fosse capace di gestire i rapporti con la sua vicina, pertanto, gli consigliarono di evitare discussioni e situazioni di tensione con la donna. Insomma, Tom avrebbe dovuto evitarla il più possibile (come se fosse un consiglio semplice da mettere in pratica).
Tommaso, frustrato e inviperito, concluse che anche gli agenti dovessero far parte di un'ipotetica e quanto mai improbabile cospirazione ordita dalla vicina. No. Tom non poteva fare nulla per fermare l'invadenza della donna, fatto salvo che non si fosse verificato un qualche grave incidente, altrimenti, le guardie non avrebbero mosso un dito per difenderlo. Ora capiva cosa provassero le vittime di stalking nel momento in cui riuscivano, dopo molti tentennamenti, a trovare il coraggio per chiedere aiuto: percepì quindi un frustrante senso di abbandono, d'impotenza e di rassegnazione.
Inaspettatamente, dopo la sua gita in caserma, seguirono mesi di apparente tranquillità. Una quiete equiparabile alla calma prima della tempesta, una pace fragile che il nostro protagonista stentava a godersi. Lui viveva in un febbrile stato di perpetua paranoia e la sua sanità mentale si era aggravata senza che lui ne cogliesse i segnali: piccole e grandi avvisaglie che avrebbero dovuto indurlo a chiedere l'aiuto di un professionista il quale, senza dubbio, avrebbe evidenziato la profonda sensibilità dell'uomo ma anche la sua incapacità di gestire i rapporti sociali. Tom non aveva mai saputo difendersi né replicare.
La tempesta si abbatté infine su Tommaso. Entrò nell'occhio del ciclone quando la signora decise di acquistare un grosso cane molosso. Inizialmente, fino quando l'animale era solo un grazioso cucciolo, ella si prese cura di lui donandogli tutte le attenzioni del caso ma poi, una volta che il cane divenne adulto, lei se ne disinteressò. L'animale annoiato dalla sua solitudine e dai pochi stimoli iniziò quindi a fuggire quotidianamente dalla proprietà della donna, fu solo questione di tempo prima che decidesse di violare il terreno del vicino.
In una nefasta mattina d'inverno il molosso scappò per l'ennesima volta da casa di Maria e si intrufolò nel pollaio di Tommaso.
L'uomo udì distintamente le urla strazianti dei polli e si lanciò in una corsa disperata nel tentativo di raggiungerli prima che fosse troppo tardi, cercando quanto più possibile di far leva sui muscoli delle gambe, così che essi, lo rendessero veloce come il vento nel suo estremo tentativo di salvare le creature che tanto amava, ma quando infine arrivò trafelato al gallinaio, scoprì con orrore il grosso cane ricoperto di sangue. Tutte le sue galline, che tanto aveva curato e allevato con amore, erano state uccise. Tom rabbrividì davanti a quello spettacolo terrificante: alcuni pennuti agonizzavano irrimediabilmente feriti, le viscere di altri ricoprivano il suolo e il cane scodinzolava contento, con il sangue delle sue prede che gli grondava dalle fauci appuntite. Tommaso urlò con tutta la rabbia che aveva in corpo e il suo grido, quasi disumano, risultò talmente intenso da spaventare persino il predatore che a sua volta, con la coda tra le zampe, fuggì via.
Un'ira cieca ed implacabile scoppiettava nel petto dell'uomo, esattamente come la lava che ribolle nel cratere di un vulcano. I suoi nervi erano tesi, gli occhi divennero rossi e l'iride si fece piccola, il suo cuore batteva a mille e l'espressione contratta del viso divenne statica, congelata dall'odio.
Prima di azzardare una qualsiasi azione cercò comunque di calmarsi respirando a fondo. Sentiva che stava per esplodere come una pentola a pressione; era una bomba ad orologeria e aveva paura di sé stesso ma soprattutto dei sentimenti che provava.
«Uff....respira...calmati. Devi stare calmo Tommaso» ripeté a sé stesso, dopodiché per sentirsi più risoluto e meno in balia dei sentimenti istintivi, cercò una soluzione: «ora andrò da Maria e gli parlerò, lei capirà e metteremo fine a questa faccenda una volta per tutte.»
Così fece. Si recò con passo svelto dalla vicina come se avesse il timore di perdere quell'impavida determinazione che lo dominava. Giunse davanti alla sua porta e con il pugno, ermeticamente chiuso quasi come se volesse prenderla a cazzotti, bussò ripetutamente. La donna uscì fasciata in una vestaglia grigia, i capelli in disordine come sempre e gli occhiali che le cadevano sul naso: «ah sei tu! Cosa cavolo vuoi?»
Lui cercò di modulare il tono arrabbiato della voce fingendo una falsa cordialità: «il tuo cane ha sbranato tutte le mie galline!» lei lo guardò senza battere ciglio.
Non poteva comprendere che per Tom le galline non erano solo animali da reddito ma anche creature da amare. Piccole amiche che lui stesso non si era mai sognato né di mangiare né di ferire in alcun modo.
«Beh? Può succedere, i cani sono carnivori! Non farne una tragedia Tommaso, ti ricompro io due galline.»
No, lei non riusciva proprio a sintonizzarsi con i sentimenti del vicino e non ebbe per niente la reazione che lui avrebbe sperato di ottenere. Era dunque così difficile per Maria capire che per Tommi non erano morti solo dei semplici avicoli ma parte del suo mondo perfetto? Lui pretendeva almeno delle scuse e un minimo di pentimento da parte della donna. Più Tommaso cercava di evidenziare il torto subito più lei, sentendosi un pochino colpevole, diventava arrogante e aggressiva: «ecco, così impari a non chiudere il pollaio! É solo colpa tua, sei un idiota.»
«Come mi hai chiamato?» domandò lui urlando.
Lei a quel punto lo riempì di invettive e ne scaturì una lite furiosa, o meglio, lei urlava e inveiva, lui restava immobile e silente.
Mentre la donna sbraitava il cervello di Tom venne offuscato, impregnato, affogato, attanagliato dal suono di quella terribile voce. Voce che lo soffocava, che aveva accompagnato troppe notti e troppi giorni, che gli aveva impedito di sentire i suoni da lui amati, che aveva contrastato il flusso dei suoi pensieri. Un gracchiare diabolico che lo aveva avvelenato fin nel profondo del suo cuore. Tommaso in principio sì sentì sopraffatto ma qualcosa cambiò in un preciso momento, esattamente quando i suoi occhi riuscirono ad incontrare lo sguardo arcigno della donna. Successe che all'improvviso nella sua testa echeggiò un lungo fischio prolungato, simile al rumore acuto di una teiera arrivata ad ebollizione, dopodiché quando quel sibilo stridente si silenziò, ogni altro effetto acustico cessò. Tom non sentiva più niente e in quell'inaspettato silenzio ovattato la mano destra si chiuse, il braccio si levò e un poderoso pugno colpì la faccia di Maria. Si udì un forte «crack!» era il rumore della mascella che si ruppe, seguito poi dal tipico tonfo di un corpo che cade. Sul volto dell'uomo si disegnò un sorriso inquietante e un senso di profonda soddisfazione lo pervase.
Il canto della violenza riecheggiò nelle orecchie di Tommi come musica e nella sua testa si scatenò incontrollata una sinfonia: più precisamente la parte finale ed altisonante dell'overture 1812 di Tchaikovsky. Proprio quelle note (che per Tom erano reali, così vere da indurlo a canticchiarle) diedero il via a un sadico balletto a base di calci. Piroettava e giù un colpo nello stomaco. Seguì una giravolta, che terminò con una pedata nelle ginocchia della donna che a loro volta si spezzarono sotto il peso degli stivali dell'uomo. Tommaso saltava e seguiva un destro sulla schiena, poi tre giri su sé stesso e via con un'altra scarica di calci. Maria si contorceva ad ogni percossa esattamente come un verme quando viene estratto nudo ed indifeso dalla terra. Quale splendida immagine di meravigliosa sottomissione! Tom si sentiva potente come mai lo era stato in vita sua. Finalmente reagiva agli eventi e si liberava di tutti i torti che sentiva di aver subito.
Non aveva mai provato un così profondo senso di soddisfazione e di questo se ne meravigliò, a tal punto, da svilupparne un senso di dipendenza. Nulla era mai riuscito a stimolare in lui un così piacevole divertimento. Un calcio dopo l'altro, un osso rotto dopo l'altro, Tommaso rideva e più rideva più danzava, più danzava e più menava botte.
Maria tumefatta e sanguinante provò a strisciare per allontanarsi dal pericolo, tentò di trascinarsi disperatamente con le mani fratturate ma lui, deridendola: «dove credi di andare lurido verme?» la colpì con forza sulla testa e lei svenne.
Tommaso corrugò la fronte ed assunse un'aria contrariata: «no, non è possibile! Il giocattolo si è già rotto?» si chinò su di lei, gli sollevò malamente la testa da terra acciuffandola per i capelli, avvicinò l'orecchio alla sua bocca ed esclamò: «ah che sollievo! Allora respiri ancora. Non mi sono mai divertito così tanto vita mia. Dai vecchia strega, vieni con me, balliamo ancora.»
Sentenziate tali crudeli parole, il nostro uomo afferrò la donna per un piede e la trascinò come un vecchio sacco di carne fino al suo deposito degli attrezzi. Inutile dirvi che la faccia di Maria ora era una maschera di sangue e fango.
Tommaso la scaraventò malamente sulle vecchie travi del pavimento e le legò una pesante catena di ferro al piede come precauzione per evitare che il suo giochino potesse scappare, anche se invero, per le condizioni in cui vessava la sventurata, difficilmente sarebbe potuta fuggire.
Ci vollero ore prima che Maria riaprisse gli occhi ritrovandosi davanti il suo aggressore visibilmente eccitato.

Elena Piccardo

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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