Autore:
Andrea Ballotti |
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Una vertigine di sconfitta
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Romanzo di Formazione
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Una vertigine di sconfitta
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Forse ce la faccio. Ma sì, dai. Non ci metto niente... No, no. È tardi. Venti minuti da qua a Rue de la Fayette. E Sara non tollera i ritardi.. Ma cosa vado a pensare? Di che cazzo continuo a illudermi? Lei non verrà... Sicuro che non verrà. Posso tardare quanto voglio... Ma se stavolta, stavolta che è l'ultima, ci lascio le penne? Pazienza... E poi rischiare la vita fa bene alla salute. Purifica le arterie, ripulisce il fegato... Rischiarla lontano da casa, poi, è ancora più salubre... Si riscosse, aprendo la finestra, soffocando l'ansia, affacciandosi sul vuoto. Parigi intanto aveva ricominciato a muoversi, rientrando nella sera come fanno le mucche tranquillate alla luce delle lanterne, alla paglia che solletica gli zoccoli. A parte i muggiti, l'odore del latte grasso, erboso, e il ronzio delle mosche, i toni grigi delle tegole e dei marciapiedi non sembravano tanto diversi dalla penombra delle vallate alpine. Ma erano le montagne che sempre lo richiamavano e lo possedevano e lo strizzavano di inquietudine. Guardando forte in basso, e poi in alto, si ritrovò a ricordare e anche a rimpiangere l'aria scura che avvolgeva le Dolomiti quando si faceva più notte. Questo significa essere un alpinista, in fondo. Innamorarsi delle storture metereologiche, delle attese e delle sere che finiscono... Ma lassù, sotto i cieli francesi e lividi e indefiniti, era impossibile anche solo trovare lo stesso buio, quel buio fitto che risaltava le stelle e che, nonostante la calura ago stina, metteva i brividi e spingeva a entrare nella tenda e chiudere in fretta la cerniera del sacco a pelo. Lassù, lungo i boulevards o ciondolando nei parchi, la domenica, quando il vento si alzava, non si poteva fare altro che rimanere indifferenti. Gente che andava, macchine, voci, cappotti, autobus. Non fosse stato per le foglie dei platani che si mettevano a fruscia re e ad ancheggiare, allora sì che sarebbe stato difficile resistere e rimanere per tutto quel tempo. Eppure, con un po' di fantasia, si poteva almeno tentare di trovare un accordo, un misero punto in comune, una sciagurata parentela. Sulle teste, per esempio. Le teste pettinate e berrettate e calve e inciuffate potevano rassomigliare ai sassi puntuti che si accavallavano sui ghiaioni. I comignoli alle cuspidi di dolomia. I tubi di scolo alle fessure glabre che solcavano il granito. Ma erano esercizi faticosi e di scarso risultato. Smise di pensare e ricominciò a muoversi. Non era la prima volta che lo faceva. Anzi. In sette mesi, togliendo la prima settimana, una volta al giorno, anche due, si potevano contare un quattrocento volte, almeno. Uscendo dall'abbaino si ritrovò sulla cornice, stretta ma non strettissima, una trentina di centimetri buoni. Da lì Parigi si spalancava come un enorme catino umido; c'erano ancora i segni del temporale appena passato. Si mise faccia a monte e traversò raggiungendo le due semicolonnette di metallo avvitate sulla lamiera che si rizzavano per un paio di metri e finivano sul pianoro orizzontale. Era un passo un po' azzardato (venticinque metri di volo e atterraggio sull'asfalto se andava male, sul tettuccio di un'auto se andava un po' meglio) ma ne valeva la pena. Bisognava solo pinzare bene con le dita, allungare un piede su una vite sporgente e arrugginita ma solida, fare un movimento leggermente dinamico, afferrare il bordo e via, tirarsi su, svelti, fino a ritrovarsi su un'altra cornice un po' più larga, da dove, a volerlo, si potevano seguire i gradini e i saliscendi, camminare fra nuvole e tetti e attraversare i palazzi come fanno i gatti randagi e gli antennisti. Di questo si trattava. Alto e basso. Ma lontani. E con un bel pezzo di futuro davanti. Risolto il passo con rapida nonchalance, si accucciò a terra, si mise una sigaretta fra le labbra e la accese aspirando forte la prima boccata. C'erano, inutile nasconderlo, un tre quarti buoni di malinconia e un quarto abbondante di incertezza disciolti sull'anima e sulle mani, ma quelle, bisognava ricordarselo, erano cose fisiologiche che naturalmente si sprecavano sugli addii, sui punti esclamativi, sulle feste comandate. Ma c'erano anche i giorni appena andati e le persone che aveva conosciuto e gli indirizzi e i numeri di telefono appuntati sul quaderno. E nessuno aveva fatto due più due, nessuno si era storto o spaventato sentendo scandire quel cognome, un cognome, poi, a fissarlo bene dentro, lettera su lettera, tanto anonimo e volgare da passare quasi inosservato. “Desideri”. Per esteso, “Marco Desideri”. No. Nessuno lì sapeva chi fosse suo padre e quello che aveva fatto, nonostante non fosse certo da escludere. La fama, quella fama lì, andava ben oltre i confini, i passi nevosi e gli oceani. Eppure, niente di niente. Magari era soltanto pudore o soltanto la voglia nera di parlottare dietro alle spalle tenendo una facciata squallida di ignoranza e quei denti aguzzi da predatore furbo. Per una volta, non importava. Si rimise in piedi, si sforzò di distrarsi, di pensare ad altro, e rivide sua madre, i suoi fianchi smagriti, le resistenze filacciose, la salute ballerina; poi, traguardando le lamiere bagnate dei tetti, riuscì a cambiare direzione e giurò a sé stesso che il primo stipendio sarebbe finito tutto in quel negozietto di Via Oberdan. Beh, non tutto, ma un bel pezzetto, almeno. No, tutto tutto, affanculo! Comprerò le mezze corde della Edelrid, otto millimetri e mezzo, me le sogno da una vita, poi una serie completa di chiodi a lama, un imbrago coi cosciali regolabili e due paia di scarpette, almeno... un paio di ballerine per la falesia, morbidissime, sensibilissime, carissime, e un paio di... Boh... Non aveva ancora deciso, ma comunque qualcosa di più robusto e adatto alle vie lunghe in Dolomiti. Coi soldi rimasti, avrebbe girato per gli scaffali a scegliere articoli a caso fino a esaurimento fondi. Certo, adesso il tempo per scalare sarebbe stato più corto ed erano da scordarsi le estati lunghissime, universitarie, a scorrazzare per monti e valli, ma anche così, si poteva continuare a salire e a restare un po' bambini e lasciarsi impressionare dalle altezze. Si rimise faccia a monte, tornando concentrato ma non troppo, affacciandosi alla discesa. Piede basso, spingere col palmo della mano, vite arrugginita e... il mocassino vacillò, perdendo l'appoggio, puntando il vuoto. Swoshhh. Si riprese per un soffio, colpo di reni, forte sulla pinza, sbandierata subito contenuta. E attento, cazzo! Ricominciò più lentamente, strisciando sull'ultimo metro, e atterrando sulla cornice e buttando fuori l'aria. Passò le mani nei capelli e si riprese scattando e traversando ancora e infilandosi dentro all'abbaino. Raggiunse la porta, diede una breve occhiata ai bagagli già fatti poi si preoccupò di dire addio. Fece va gare lo sguardo, senza fretta, senza malinconia, nel piccolo appartamento in cui aveva vissuto. Una minuscola mansarda nel pieno centro di Parigi. Non fosse stato per l'azienda che l'aveva pagato (tremila franchi al mese per più o meno diciotto metri quadri, alla faccia del pieno Centro), così come anche il corso di francese a dirla tutta, non se lo sarebbe mai potuto permettere. Si ripromise di chiamare il direttore appena atterrato a Roma, per ringraziarlo ancora del l'opportunità. Non era necessario, certo, ma comunque il buon senso e un pizzico di furberia di cui era perfettamente consapevole, ma che in qualche modo lo turbava e gli avvitava dentro una nota di disgusto, lieve e trascurabile, gli suggerivano di continuare sulla retta via e dare una buona impressione. Si innervosì inciampando sulle buone impressioni, sui tagli e sulle sforbiciate, e zacchete zacchete, qui e là, dov'era necessario per avanzare leggeri. Ma la leggerezza, gli sovvenne, è una cosa buona e utile, soprattutto quando si va verso l'alto, meno peso e meno stanchezza. Si mosse ancora, chiudendo la porta e scendendo e camminando più in fretta. Non ci voleva molto ad arrivare. Girato l'angolo, con un po' di sudore sotto al colletto, smise di credere al peggio perché, con gli occhi strizzati, Sara era già arrivata e stava lì dentro al giubbotto di pelle rossa, descritta una volta per tutte, così almeno gli sembrava, nella cornice dei suoi sorrisi ampi e affievoliti.
Andrea Ballotti
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