Resoconto tragicomico di un Erasmus indimenticabile
1. Come tutto ebbe inizio "Non sono sicuro che tu sia la donna della mia vita. Prendiamoci una pausa di riflessione." Furono queste le parole con cui cominciò la mia avventura Erasmus. Si può decidere di trascorrere un semestre all'estero per svariati motivi. C'è chi è alla ricerca di un'esperienza umanamente stimolante, che si traduca nell'incontro con giovani provenienti da paesi e culture diverse. Giovani con i quali confrontarsi sui grandi temi della vita, stringere amicizie destinate a durare per sempre e, perché no, far nascere epiche e internazionali storie d'amore. C'è chi desidera vivere finalmente come un adulto, gravato da nuove responsabilità ma appagato dalle soddisfazioni che solo l'indipendenza è in grado di dare. Ad esempio: occuparsi del bucato, far quadrare i conti, andare a dormire all'alba, svegliarsi poco prima del tramonto, nutrirsi solo di cibo spazzatura e scoprire quanto alcol si sia in grado di assumere prima di perdere i sensi. C'è chi dice di voler arricchire il proprio curriculum accademico o, più probabilmente, spera solo di superare presso qualche ateneo straniero gli esami che in patria risultano più ostici. Diventando così la dimostrazione vivente di quelle leggende metropolitane che da sempre avvolgono il mito dell'Erasmus: “Mio cugino è stato sei mesi in Islanda e ha dato 10 esami”, “Il fidanzato della cassiera del supermercato si è trasferito nel Lichtenstein, ha finito l'università, ha trovato un lavoro meraviglioso e ha sposato una modella”, fino a “la nipote della vicina di casa della mia prozia Ninuzza è andata sul cucuzzolo dello scoglio della Rocca di Gibilterra, si è laureata in tre mesi con 110 e lode, il bacio accademico, la dignità di stampa, e ora vive in una villa sulla spiaggia e ha Bill Gates come maggiordomo”. Infine ci sono loro, gli eterni romantici, quelli che scappano via dal proprio paese perché gli è stato spezzato il cuore, perché sono stati traditi o lasciati, perché amano da anni senza essere riamati. Costoro non cercano neanche di ammantare le proprie motivazioni con una parvenza di rispettabilità umana, accademica o sociale, ma ammettono candidamente la cruda verità: la loro è una fuga. Io, ovviamente, appartenevo a quest'ultima categoria. L'uomo della mia vita, il mio sole, la mia ragion d'essere, mi aveva improvvisamente lasciata per telefono e io, invece di cancellare immediatamente dalla mia testa e dalla mia esistenza uno che non si era neanche preso la briga di alzare il culo dal divano e venirmi a mollare di persona, mi ero ridotta a uno straccio. Ciondolavo per casa in pigiama con i capelli arruffati e gli occhi cisposi, ammorbavo chiunque avesse la sventura di darmi retta con il resoconto dettagliato delle mie sofferenze e, naturalmente, versavo copiose lacrime. L'unica soluzione per risollevare una situazione così triste, abbrutente e patetica fu fare le valigie e partire. 2. Boris, mein Schatz Ero stata lasciata a Novembre del 1999 e consegnai la domanda per la borsa di studio a metà Gennaio del 2000. Un pomeriggio di primavera ricevetti la telefonata di un'amica: “Sono uscite le graduatorie, complimenti, vai a Berlino!” Berlino, negli ultimi 20 anni o poco più, è diventata incredibilmente (e meritatamente) popolare anche in Italia come meta Erasmus ma all'epoca non era affatto così. All'epoca, nella mia facoltà, la gente si prendeva a pizze in faccia pur di andare a fare l'Erasmus a Salamanca, in Spagna. Ma io no, io misi come prima opzione proprio Berlino. Berlino, la capitale della Germania. Non ebbi alcun dubbio e ora vi spiego il perché. Mettetevi comodi, preparatevi, non è una motivazione particolarmente intelligente ma è la mia. Quand'ero una ragazzina col monociglio che frequentava le medie, venni folgorata da un'angelica visione: Boris Becker(*) che giocava a tennis. Il sedere di Boris Becker che vinceva l'Australian Open avvolto in un paio di stretti calzoncini. Gli occhioni blu di Boris Becker che mi fissavano oltre lo schermo facendomi tacite promesse di giorni d'amore e passione. Io avevo solo tredici anni e quel giorno il mio cuore si aprì ad un sentimento nuovo: l'adorazione senza se e senza ma. Questo mio rapporto a senso unico si protrasse, tra alti e bassi, per anni. Molti anni. Troppi anni per non definire questa mia cotta adolescenziale una patologica ossessione. Questo mio amore, oltre a procurarmi il continuo dileggio di chicchessia, risvegliò in me anche una forte curiosità verso la cultura tedesca. Ad esempio, per l'esame di terza media feci un lavoro interdisciplinare che partiva da Goethe, attraversava 50 anni di storia europea e finiva con un doppio tuffo carpiato nelle torbiere della Foresta Nera. Una roba tutta scritta a macchina, tic-tic-tic, con i calli agli indici e il bianchetto sniffato nei momenti di sconforto. Inoltre, nella mia cameretta conservavo una vera e propria collezione di vocabolari tascabili tedeschi e mini grammatiche. Troppo pigra per imparare la lingua come si deve, ero imbattibile nelle frasi idiomatiche e gli inutili modi di dire. Insomma, una pazza fatta e finita. Natürlich. Per fortuna, con gli anni questa insania andò un poco stemperandosi. Non che certe passioni uno riesca mai a spegnerle completamente ma crescendo, di solito, ci si fa una vita, si acquista consapevolezza delle proprie follie e di come sia saggio reprimerle o almeno nasconderle quel tanto che basta per non finire alla neuro. Comunque, nel momento del bisogno, nel momento in cui la mia giovane vita sembrava perdere i pezzi, io non ebbi alcun dubbio e scelsi la mia destinazione: la Germania. Non per trovare Becker, non per trovare marito, ma per ritrovare me stessa. E Germania fu. Anzi, fu molto meglio, fu Berlino. (*) Formidabile tennista tedesco, in attività tra gli anni '80 e '90. Non è mai stato bello ma a quei tempi aveva il suo perché. Al momento della stesura di questo testo è detenuto a Londra per reati fiscali (colpo di scena!). Non gli scrivo lettere d'amore in carcere. Lo giuro.
3. La Nuova Me La partenza venne fissata per fine settembre e io trascorsi i mesi che rimanevano a preparare documenti, fisico, capelli e guardaroba. Furono mesi molto intensi. Per quanto riguarda la parte prettamente burocratica feci fiduciosamente riferimento al mio coordinatore Erasmus. Questi mi affidò a un'assistente, che mi indirizzò a uno specializzando, che mi rifilò a una segretaria, che mi sbolognò a un inserviente che, passandomi il mocio per i pavimenti, mi liquidò con un: “Non parlo tedesco. Dovrai arrangiarti da sola. Ma mi raccomando non farci fare brutte figure.” “...” “E ancora una cosa, quasi dimenticavo” “Sì?” “Quando hai finito con i corridoi pulisci pure i cessi” Io, di fronte a tanta disponibilità, mi sentii al sicuro come un pulcino avvolto amorevolmente nella bambagia, adagiato in un cestino ornato da pizzi e merletti, e delicatamente depositato in mezzo alla carreggiata dello svincolo autostradale di Roncobilaccio. Sorprendentemente, però, non venni investita dal primo TIR di passaggio ma fui portata in salvo dalla proverbiale organizzazione teutonica. Tramite un fitto carteggio con studentato, università e facoltà berlinesi, mi assicurai un posto letto, organizzai il piano didattico per il semestre e mi venne persino assegnato un Buddy, uno studente tedesco a cui fare riferimento per qualsiasi dubbio o perplessità. Risolte le pratiche necessarie ma noiose, fui finalmente libera di occuparmi della parte più frivola e divertente dei preparativi: smisi di mangiare schifezze consolatorie, mi rifeci il guardaroba e, soprattutto, divenni magicamente bionda. L'obiettivo era essere bellissima per far mangiare le mani al mio ex. Biondissima per mimetizzarmi con la popolazione indigena. E dotata di abiti caldi e femminili per evitare l'assideramento con una certa classe. A settembre, dopo mesi di autoanalisi e shopping terapeutico, potei finalmente esibire un fisico tonico e perfetto, che ricordo ancora con nostalgia. Una chioma artificiosamente schiarita, che ricordo con orrore. E, ovviamente, un nuovo guardaroba con cui avrei potuto affrontare anche l'inverno artico. Era giunto il tempo. Rinfrancata nel corpo e nello spirito, vide la luce e spiccò il volo Lei: La Nuova Me. 4. La valigia come forma d'arte Chiunque abbia fatto l'Erasmus lo sa: fare stare nei canonici 20 kg di bagagli lo stretto indispensabile per sei mesi all'estero è un'impresa che richiede nervi saldi, creatività, elasticità mentale e una certa dose di lucida follia. In primo luogo bisogna selezionare. Decidere cosa sia davvero utile e insostituibile e cosa no. Le scarpe preferite? Impossibile rinunciarvi. La tinta per rimanere fintamente e sfacciatamente bionda? Più importante delle aspirine. Il top da panterona? Mai senza. La moca e il parmigiano? Certo. Sarà patetico ma ognuno ha pur diritto alle proprie perversioni. Il secondo passo consiste nell'armarsi di santa pazienza e procedere al riempimento della valigia con la stessa precisione che richiederebbe un'opera ingegneristica. Nulla può essere lasciato al caso, tutto deve essere incastrato al millimetro e pesato fino all'ultimo etto: bisogna piegare e arrotolare, mettere i capi pesanti sotto e quelli più leggeri sopra, infilare i calzini dentro le scarpe e disporre ciò che avanza come un florilegio a ornare il tutto e, soprattutto, a occupare gli spazi morti. E quando alla fine, inevitabilmente, nonostante le rinunce e i calcoli, qualcosa sembra destinato a non trovare posto, rimane l'ultima possibilità, la risorsa estrema, l'uscita d'emergenza: lo s'indossa durante il viaggio. Il piumino a settembre? Quattro paia di mutande? Bracciali, collanine ed anelli? Sì. Sì. Sì. Fino ad assomigliare all'omino Michelin bardato come la Madonna di Pompei? Certo, perché no? Se si ha l'opportunità di vivere un'avventura fantastica, come sei mesi all'estero, si deve pur essere disposti a rinunciare a qualcosa: al proprio senso del ridicolo, per esempio. Io il mio lo lasciai al check in dell'aeroporto di Caselle e non sono mai tornata a ritirarlo. Cari futuri Erasmus che state leggendo queste memorie, non allarmatevi inutilmente. Per quanto le valigie possano sembrare piene, per quanto appaiano pesanti come macigni, per quanto ci si possa sentire ridicoli, bisogna star sereni e non preoccuparsi. Al ritorno sarà peggio.
5. Berlin, ich liebe dich! Un sabato mattina di fine settembre cominciò finalmente il mio viaggio. Io non ho mai amato prendere l'aereo, men che meno da sola, quindi l'eccitazione della partenza lasciò presto il posto all'ansia. Trascorsi la breve durata del volo incollata al sedile, legata come un salame, rigida come un baccalà, gli occhi fissi al poggiatesta di fronte a me e le unghie piantate saldamente ai braccioli. Quando il comandante annunciò che stavamo per atterrare spostai lo sguardo verso il finestrino e a quel punto la vidi. Berlino stava là. Spalmata per km. Enorme. Una città costretta per molti anni entro confini innaturali e che ora si allargava come un uovo rotto in una padella. Plof. Il rosso al centro e l'albume a coprire tutto lo spazio disponibile intorno. Vidi questo enorme uovo al tegamino e pensai solo: "Casa. Sono a casa." Per curare un cuore ferito non c'è niente di meglio che un nuovo amore. Un amore sincero che ti lasci i tuoi tempi e non ti chieda nulla in cambio. Io avevo trovato il mio. Berlino. La verde, immensa, meravigliosa Berlin. E pensare che a me le uova non sono neanche mai piaciute. 6. Un pezzo per volta L'aereo non si era schiantato e io ero finalmente giunta a casa: la mia vita era perfetta. Al ritiro bagagli mi misi buona buona in un angolino ad aspettare, con un sorriso ebete stampato in faccia e la mente impegnata a vagare tra sogni inarrivabili e piccoli progetti concreti di erasmica quotidianità. Dopo venti minuti, risvegliatami dalla mia trance di beatitudine, mi accorsi che tutti gli altri passeggeri avevano ritirato le loro borse e se ne stavano andando. Tutti tranne me. Io rimanevo da sola nel mio angolino con il nastro trasportatore che continuava a girare. Vuoto. Avevo stipato tutta la mia vita in una valigia grande quanto un baule e uno zaino da alpinismo degno di un'arrampicata sul K2, e ora mi rimanevano solo una vezzosa borsetta e un capiente beauty case. Sarei forse dovuta sopravvivere sei mesi in Germania solo con un'agenda e una confezione maxi di latte detergente? E chi ero, MacGyver? Volevo morire.
Rossana Rotolo
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