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Autore: Benedetta Bianchi
Adville
Fantascienza Avventura
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Adville
Fetchbury, Inghilterra del Nord.

Aprì gli occhi riprendendo fiato come se fosse stata in apnea per un indefinito lasso di tempo. Il respiro era affannoso, aveva un desiderio infinito di aria pura che le riempisse di nuovo i polmoni. Le sue pupille erano dilatate, i suoi occhi verdi erano sbarrati.Grazie a Dio era mattina e non avrebbe più dovuto richiuderli. Almeno fino alla sera. Susan scese dal letto e, ancora infastidita dalla luce, raggiunse la cucina, accese il bollitore e si spostò verso il bagno. Si chiese perché ci fosse un solo spazzolino nel bicchiere di ceramica sul lavandino, ma bastò un attimo perché la realtà divenisse più forte del primo bagliore del giorno.
Era stato solo un incubo, si disse. Non aveva mai visto quel volto sfigurato, né aveva mai scoperto quel lenzuolo bianco dalla sagoma così familiare.Si era fermata poco più distante, due mesi prima. Lo aveva soltanto visto da lontano. Eppure la sua mente aveva ricostruito minuziosamente la scena, continuando a tormentarla ogni notte con i suoi raccapriccianti dettagli.
La divisa era stirata solo per metà, poco importava, per quel lavoro tedioso che ormai serviva solo a non pensare. I colori un po' sbiaditi pubblicizzavano quello che sembrava un pollo arrosto con le zampe raggrinzite, quasi buffo a vedersi così, pensò Susan indossando il gilè. Si girò verso lo specchio e sorrise a quei capelli biondi ancora arruffati e alla sua figura esile, che non nascondeva la sua maturità. Sembrava una giornata diversa, eppure erano passati solo due mesi dalla tragedia che aveva sconvolto la sua vita.
Fuori dalla finestra il sole faceva a schiaffi con le nuvole sospinte dal vento, come quasi tutte le mattine nella campagna del Nord-ovest della verde Inghilterra. Avrebbe avuto la peggio anche quel giorno, lasciando campo libero a qualche scroscio di pioggia, poi avrebbe ripreso il sopravvento per qualche minuto, per poi cedere di nuovo la mano.
Susan si incamminò tra muretti di ciottoli e marciapiedi umidi di pioggia, poi salì sull'autobus che tutti i giorni la portava al lavoro in città.
L'area residenziale di Fetchbury aveva il volto di un tipico villaggio di campagna inglese, dove le piante colonizzavano le facciate delle casette impreziosendole a loro piacimento e i pub erano più frequenti delle fermate del bus. Il centro poi, non grande ma sufficientemente attrezzato per accogliere turisti di passaggio e con- nazionali in gita fuori porta, ospitava locali dal sapore etnico e internazionale affiancati da piccoli supermercati e negozi di abbigliamento usato.
Arrivata al Chicken's Paradise, Susan trovò Claire, la sua collega di lavoro, ad aspettarla sotto la veranda col suo solito sorriso incoraggiante. Dal momento in cui era diventata spettatrice inerme dell'incidente mortale di Tom, quella che fino ad allora era stata soltanto un'amica poco più che conoscente, l'aveva quasi adottata come una sorella. Claire sentiva che la sua missione era quella di farla sorridere, di farle ancora vedere che la vita è bella e cose del genere. L'aveva sorretta quando le lacrime le impedivano di parla- re e continuamente spronata quando l'unico desiderio sembrava quello di restare in una stanza buia per il resto della sua vita. Dopo i primi giorni, Susan iniziò ad ammettere che senza di lei non ce l'avrebbe mai fatta.
«Non si lavora, oggi, tesoro... chiudi gli occhi!» Le afferrò la mano senza che avesse il tempo di entrare, trascinandola nel retro del fast food con foga mentre sogghignava sotto gli zigomi rossicci e paffutelli, il suo viso incorniciato da lunghi capelli neri ondulati. Claire non era mai stata magra, ma le sue forme erano armoniose in fondo e le conferivano quel ché di sincero e incoraggiante che spesso gli uomini cercano nelle donne e le donne cercano nelle amiche vere.
Inciampò due volte in quelle che, dal suono tintinnante, sembra- vano essere casse di birra e imprecò, pensando alla faccia del principale, ferito nel suo spasmodico desiderio di puntualità, quando non avrebbe visto né lei né Susan al bancone. «Apri gli occhi!» disse improvvisamente Claire bloccandosi di colpo. La voce era eccitata e Susan iniziava a essere veramente curiosa.
E così, fiduciosa, obbedì.
La serranda era alzata e dentro, sagoma lucida in contrasto con gli scatoloni polverosi sparsi tutti intorno, c'era la Rolling Lady.
Nel vecchio garage del signor Morton, quello che confinava col retrobottega, dove l'anno prima Tom l'aveva baciata inginocchiandosi e offrendole un tappo scintillante di birra scura le aveva promesso che si sarebbe trasformato in un anello d'oro e dove il loro principale non voleva entrasse nessuno a “fare porcherie, che se vi becco solo a sfiorarvi potete scordarvi il posto di lavoro finché campate”, tra l'odore di polvere e olio secco, Susan si era come immobilizzata improvvisamente, gli occhi fissi sull'elegante telaio che caratterizzava il profilo della Rolling Lady. Claire la guardava con gli occhi lucidi, impaziente di ricevere un segno di assenso, un gesto di approvazione, o qualsiasi cosa le permettesse di entrare in punta di piedi nella mente della sua amica.
Dopo un lungo silenzio, Susan mosse un passo titubante verso la carrozzeria della Royal Enfield modello Bullet 500 che se ne stava ferma lì, tra chiavi inglesi e pezzi di ricambio. Non era una copia o un rifacimento, era il modello originale del 1932, tenuta maniacalmente e perfettamente funzionante. Susan sapeva tutto di quella motocicletta, perché un giorno Tom aveva fatto più o meno la stessa cosa, ma Claire non poteva saperlo. L'aveva trascinata con gli occhi chiusi nel garage di suo padre e gliela aveva mostrata, non troppo grande ma con stile, lucida, con una personalità scattante ma robu- sta, “fatta come un cannone”, come recitava lo slogan dell'azienda. Le Enfield non erano moto fatte per correre, in sella a una di quel- le potevi goderti il viaggio. E l'originale, poi, era tutto un altro paio di maniche. C'era soltanto una persona in grado di tenerla in quel modo in città, ed era il padre di Tom.
Quel giorno il suo ragazzo l'aveva invitata a salire in sella verso quello che sarebbe restato nella sua mente come il viaggio dell'avventura, la fuga verso la libertà, la corsa con il vento tra i capelli, verso quelle che pur essendo strade conosciute di periferia, si tra- sformavano nella mente di Susan in rotte affascinanti mai percorse.
Susan pensò a quanto fosse stata monotona la sua vita fino a quel momento, a come l'incidente mortale che le aveva portato via il suo ragazzo fosse stata l'ultima, fortissima emozione che aveva provato da due mesi a quella parte. I suoi ricordi ripresero forma e una fit- ta di dolore la percorse lasciandola senza fiato per qualche istante. L'assenza di Tom era ancora troppo ingombrante, gli oggetti legati a lui la riportavano indietro ad anni di convivenza e di esperienze vissute insieme e d'improvviso sentì di nuovo il bisogno di un sostegno. Claire le tese una mano. Perché Claire lo sapeva, ma come caspita facesse, Susan non se lo spiegava. Però, pensò che era bello che una persona riuscisse a interpretare i tuoi desideri, a guardarti dentro, ma con discrezione, cogliendo proprio quello che nessun'al- tra sarebbe mai riuscita a vedere.
Forse anche con Tom era successo, forse era davvero fortunata ad avere Claire.
«Adesso mi dici dove l'hai presa.»
Susan avrebbe voluto essere più gentile, dire alla sua amica che rivedere la Rolling Lady le aveva fatto sussultare il cuore e che sa- rebbe ripartita in sella a quel bolide anche subito. Avrebbe voluto saltare al collo di Claire e dirle quanto si sentiva fortunata ad averla accanto, ma sarebbe scoppiata a piangere e il suo maledetto orgoglio glielo impediva furiosamente. Così dalla bocca di Susan non era uscita altro che quella secca domanda.
«Non so, ho fatto una sciocchezza, scusami...» iniziò a balbetta- re Claire. «Ho incontrato i genitori di Tom, ieri, ed è stata una cosa così... ecco, mi hanno invitata per un bicchiere di tè freddo, io in realtà non volevo, ma alla fine, sai com'è Julia, e mi sembravano tanto soli... Insomma, stiamo lì sotto la veranda e Leopold mi dice della Rolling Lady, di quanto ci teneva Tom e di come l'aveva sempre legata a te e...» Sembrava mangiarsi le nocche delle mani mentre rac- contava, gli occhi che si arrossavano e sembravano i bordi di una piccola diga costruita male, in bilico verso il cedimento.
«Grazie, Claire, sul serio. Ti va se andiamo a farci un giro?» Neanche stavolta Susan manifestò a pieno la sua gioia, ma Claire capì la sua angoscia e la sua felicità allo stesso tempo e sembrò come ravvivarsi all'improvviso. Il suo sorriso tornò quello di sempre, inspirò col naso e sfiorò la parte posteriore della carrozzeria.
«Susan, ricordi ancora come si guida questo affare? Io pensavo di chiedere a Moe di scorrazzarci un po'! Cioè, soprattutto a te intendo, poi se posso vorrei farlo, un giro... Ah, hanno detto che puoi tenerla, capito? È tutta tua, anche se la tieni in garage!»
Susan riuscì finalmente a lasciarsi andare a un sorriso liberatorio, mostrando un'espressione da troppo tempo sopita. «Lascia stare quel rammollito di Moe, certo che mi ricordo come si fa!» Poi pre- occupata chiese: «Un momento... Il signor Morton sa di tutta questa storia oppure devo considerare questo come il mio ultimo giorno di lavoro al Chicken's Paradise? Non che mi dispiaccia, ma sai, vorrei saperlo, almeno per regolarmi su come guadagnarmi da vivere da domani in poi...».
Claire scoppio a ridere. «Susan, è tutto okay, il signor Morton ha la scorza dura, ma il suo cuore è tenero come il burro! In sella, ragazza!» Il rombo della Rolling Lady risuonò forte e potente. La vecchia targa sul parafango anteriore oscillò lievemente alle prime vibrazioni, poi le ruote si mossero in direzione del centro abitato.
Susan aveva imparato a guidarla con Tom, ma era ancora incerta tra una curva stretta e una frenata improvvisa. Claire le stava attaccata alla schiena, con fiducia, rispondendo con una risata alle imprecazioni degli automobilisti. Aprì gli occhi dei ricordi e si di- resse verso una strada di campagna, spingendo sull'acceleratore e facendosi guidare da quel profumo di libertà misto a un'angoscia dolciastra e melensa che, da quando aveva perso il suo ragazzo, non l'aveva più lasciata.
Ai lati della strada che abbandonava la sopita atmosfera di Fetchbury, si rincorrevano vecchi cimiteri di lapidi di pietra quasi completamente ricoperte d'erba, prati perfettamente curati, cottage dalle facciate bianche con pennellate di fiori di campo, muretti di mattoncini irregolari ma a loro modo perfetti, alberi e cespugli di more e rose selvatiche. Inspirava a pieni polmoni, respirava i ricordi, buttava fuori il buio, faceva entrare la luce. Era il sole che sbucava tra i rami alla velocità della loro corsa, eppure le sembrava un frenetico respiro, una catarsi che la portava lentamente verso il nirvana.
Accostò dopo circa un'ora, parcheggiando la moto davanti un pub. Le fioriere in legno che ne decoravano la facciata ricordavano la for- ma delle enormi ruote di un battello fluviale. I fiori avevano ormai ricoperto gran parte delle travi tinteggiate di bianco sporco, fino a incorniciare la piccola porta di ingresso. Susan e Claire scesero dal- la moto, si guardarono in faccia l'una con l'altra e risero di cuore. Poi, abbracciate, andarono verso l'ingresso del locale dove, seduti a una panca di legno, due uomini corpulenti bevevano birre chiare e sgranocchiavano noccioline da un secchio di latta.
L'interno del Queen Mary era illuminato da diverse applique dal paralume di tela, di colore giallo sporco, che emanavano una luce calda. Il legno chiaro del bancone e dei tavoli era accompagnato da rifiniture in ferro battuto e le sedie erano foderate con tessuti vellutati dalla trama floreale, con qualche macchia di birra sparsa qua e là. Era uno di quei locali che tentava di essere chic, ma che per forza di cose doveva accontentarsi anche di clienti come quelli che trangugiavano birra in giardino. Era molto ampio, sebbene la luce soffusa lo facesse sembrare intimo e raccolto: oltre alla sala centra- le infatti ve ne erano alcune riservate e vicino al bancone si apriva un piccolo emporio adibito alla vendita di generi alimentari.
Il barista guardò le ragazze e abbozzò un sorriso. Solo in quel mo- mento entrambe si resero conto di avere ancora addosso le divise del Chicken's Paradise. Susan ordinò un tè ghiacciato e Claire una soda, il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri suggellò un brindisi sincero.
«Patatine!» disse ad alta voce Claire di fronte a un enorme espositore di sacchetti in plastica di vari colori. L'espositore era posizionato in modo talmente vistoso che non sarebbe stato possibile ignorarlo e la sua presenza stonava fortemente con tutto il resto. Sembrava che il barista non avesse trovato un posto adatto o non avesse fatto in tempo a collocarlo nel migliore dei modi e lo aves- se lasciato lì, come a coprire altri prodotti, tra cui quelli di molte aziende locali e del territorio.
«Non ne hai ancora abbastanza?» sorrise Susan. «Siamo som- merse da patatine fritte tutti i giorni, queste non saranno meglio di quelle che prepari tu, Claire! Per oggi passo volentieri...»
«Ma con le nostre non si vince un viaggio in un paradiso tropicale, guarda... non sarebbe meraviglioso?»
Effettivamente l'immagine patinata sul pacchetto delle patatine era sicuramente tra le più invitanti. Spiaggia bianca, palme, baglio- re accecante del sole, ombrelloni in paglia che non deturpavano il meraviglioso paesaggio con una canoa in lontananza e una bella ragazza vestita di fiori.
Susan non aveva mai tentato la fortuna. Quel verbo la terrorizzava. Nemmeno durante la sua vita di coppia con Tom aveva osato molto, pensò. Provò per un nuovo, lunghissimo istante quel senso di inadeguatezza e di lieve malessere, mentre nella sua testa la scena macabra dei suoi incubi provava a riaffiorare. Il suo ragazzo appariva con il volto sfigurato, dalla sagoma indistinta. Susan poteva ri- conoscerlo soltanto dai suoi occhi scuri, un tempo penetranti, che ora la guardavano inespressivi da quel corpo sdraiato a terra. Ingoiò rumorosamente stringendo le palpebre e decise che almeno in quel momento avrebbe ordinato a se stessa di non cedere.
Claire allungò le mani verso l'espositore per arraffare il sacchetto giallo, quello delle patatine aromatizzate al rosmarino, leggermente ondulate. La donna dei fiori era sempre la stessa e continuava ammaliante a invitare il cliente nel suo paradiso. All'improvviso l'espositore si inclinò paurosamente precipitando sul pavimento di finto cotto e travi di legno, sparpagliando patatine e donne dei fiori ovunque.
«Per poco non ci rimanevo secca... sommersa dalle patate, che fine ingloriosa!» esclamò Claire riprendendosi dal trambusto, tentando di non calpestare nessuna delle buste, che crepitavano a ogni sfiora- mento da parte dei suoi piedi. Susan preoccupata la sorreggeva, non nascondendo una certa ilarità, sollevata dal fatto che l'espositore in ferro non avesse colpito la sua amica.
Un uomo si era alzato di scatto da dietro la pila di patatine imbusta- te e ora correva trafelato raccogliendo sacchetti qua e là, scusando- si un numero indefinito di volte per aver urtato lo scaffale con la sua sedia e porgendo a Claire e a Susan un pacchetto ciascuna tra quelli caduti a terra, con un sorriso. Aveva un cappellino con visiera, calca- to sulla fronte a coprire lo sguardo, dal quale sbucavano ciocche di capelli biondastri. Non diede molto peso alla scelta di Claire, mentre consigliò con fervore a Susan di prendere quello alla paprika dolce, porgendoglielo con convinzione. In seguito insistette per pagare gli snack e, nonostante i rifiuti delle ragazze, si avviò alla cassa e saldò il misero conto. Poi tornò verso di loro: «Magari uno dei due è quello fortunato, chissà, allora sì che mi sarei fatto perdonare!» disse con fare impacciato mentre si voltava verso l'uscita; poi aggiunse: «Be', arrivederci, allora e... scusate ancora». Ammiccò verso i pacchetti, quasi fosse convinto che dentro di uno dei due ci fosse il biglietto vincente verso il paradiso tropicale, ma nessuna delle due lo notò.
Susan sentiva il bisogno di prendere aria e tornare in sella alla sua moto. Il calore delle luci, la penombra, i tavoli occupati da per- sone che sembravano guardare soltanto lei, tutto stava assumendo i contorni di un incubo ricorrente dal quale aveva una gran voglia di fuggire.
Un rapido saluto e gli ultimi convenevoli con un barista dall'apparenza tanto svogliata quanto imperscrutabile, poi le due amiche imboccarono la porta di uscita.
Arrivarono a casa di Claire a sera inoltrata. «Vuoi mangiare qual- cosa da me?» disse la ragazza a Susan, mentre scendeva dalla moto con qualche incertezza.
«Grazie, preferisco andare a togliermi di dosso questa divisa. E poi, non penso di andare subito a casa, ecco.»
Claire annuì, seria.
«Grazie, Claire, grazie per oggi.» E forse per la prima volta: «Grazie per tutto quello che hai fatto per me da quando Tom è morto».
Si abbracciarono forte e Claire la sentì tremare. Avrebbe voluto trattenerla, ma sapeva non sarebbe rimasta a dormire da lei. Spera- va di aver fatto abbastanza per la sua amica, quel giorno.
«Non dimenticare il tuo pacchetto, fortunata ragazza!» disse Claire sventolando il proprio mentre Susan faceva volteggiare in aria il suo. «E come potrei? Ma ricordati che potresti essere tu la vincitrice!»disse Susan sorridendo.
«Vedremo!» disse Claire baciando Susan sulle guance. «A domani, allora, per una nuova ed entusiasmate giornata tra polli fritti e clienti maleducati! Ti voglio bene» aggiunse fermandosi ancora un secondo sul marciapiede.
«Anche io» rispose Susan.
Così Claire aprì il cancelletto in ferro battuto che portava nel suo piccolo giardino curato e guardò Susan allontanarsi in sella alla Rolling Lady come un'eroina dei fumetti, col suo carico di emozioni che sembravano scomparire sotto il casco verde, soddisfatta di aver cementato quel rapporto e forse di aver contribuito alla sua sereni- tà. Almeno in parte.

Benedetta Bianchi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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