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Autore: Rosita D'Esposito
Gioia
Narrativa introspettiva
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Gioia
Il dolore.

Quel giorno la casa era affollata.
Succede sempre quando accade un fatto come quello, tutti si stringono intorno per aiutare a sentire meno il peso di quel dolore che pulsa così forte da toglierti persino la possibilità di respirare.
Le finestre erano chiuse, le luci basse, la casa nonostante la gente sembrava immersa in un silenzio assordante, tutti stretti intorno a quella sciagura, a quell'evento terribile.
Tutti gli sguardi erano puntati su di lei, sul suo volto, come se aspettassero una reazione, ma lei sembrava quasi di pietra, come se non percepisse nulla intorno, chiusa e schiacciata da quel macigno che le pesava addosso e che l'aveva chiusa dentro sè stessa.
- Il tempo ti aiuterà, figlia mia - le dicevano le più sagge.
- Supererai questi giorni poco alla volta – aggiungeva qualcun altro.
Frasi fatte, pronte all'uso. Ma nessuno poteva nemmeno immaginare cosa provasse davvero, come si sentisse; sembrava che tutti avessero una soluzione, ma sì, bastava aspettare, proprio come quando ad un bambino sale la temperatura, bisogna aspettare che passi, che la malattia faccia il suo corso.
Lei impassibile ascoltava quelle voci che non avevano effetto sul suo cuore, tratteneva il respiro e teneva le mani sul grembo come a proteggersi da quella spada che la stava attraversando fino all'anima, da quel dolore che avrebbe devastato chiunque.

Mattia era un bambino vivace, anche troppo per chi gli stava intorno. Era alla continua ricerca di attenzioni e aveva la necessità di farsi notare sempre, nel bene o nel male.
La Sicilia traspariva dai suoi colori e dalle sue espressioni: pelle olivastra, occhi neri e magnetici, l'aria sveglia di chi sa quello che vuole.
Figlio dell'isola illuminata dal sole che si specchia nel mare, terra materna e accogliente che ama e si fa amare, che dà e che toglie, che accusa e che perdona, il meraviglioso dipinto di un abile artista che incanta lo sguardo di ogni appassionato.
In netto contrasto con quella terra piena di colori e suoni, in casa sua c'era tanto silenzio, un'atmosfera seria e cupa: quando camminava tra le stanze gli sembrava di essere in una galleria d'arte, in cui tutto era immobile, come in attesa. E ogni cosa era al suo posto come i quadri alle pareti e i soprammobili, ogni oggetto era lì per essere ammirato ma non utilizzato.
Però un bambino vispo come lui aveva bisogno di muoversi, di intaccare quella perfezione, spostare qualche quadro e creare disordine. In risposta a quel silenzio, lui faceva rumore, era energia pura che di tanto in tanto esplodeva, aveva la necessità di farsi sentire e dimostrare che esisteva, di interrompere quella routine in cui viveva, fatta di rigore, silenzi e parole non dette.
Cercava in ogni modo di risvegliare quel torpore in cui la sua famiglia si era rifugiata dopo “il fatto”.
Mattia era secondogenito, prima di lui c'era Nella, diminutivo di Raffaella, bimba solare e sempre sorridente, che contrariamente a lui era docile e tranquilla.
La famiglia è per i figli la prima forma di paragone per rapportarsi al mondo esterno, ciò che si impara a casa lo si restituisce agli altri. “Ciò che si semina si raccoglie” dice un vecchio proverbio.
Mattia e Nella erano cresciuti in una famiglia triste, dove le emozioni giacevano chiuse in un cassetto, la loro mamma era vittima della sua malinconia, digiuna d'amore e incapace di manifestarlo, arida come la terra secca, privata della sua essenza, sotterrata dal dolore che qualche anno prima l'aveva ingoiata.
Mattia, Mattia, Mattia...
Continui rimproveri a cui seguivano altrettante marachelle, e a dire il vero lui ne combinava tante.
Come quella volta che affacciandosi al balcone si trovò di fronte il signor Franco, un uomo anziano che passava le sue giornate fuori a guardare gli altri e a Mattia era molto antipatico perché spesso riferiva a suo padre le sue marachelle.
Si sporse leggermente e vide che sotto il suo balcone c'era un camion di cemento pronto per essere scaricato. Franco aveva la visuale del palazzo di Mattia coperta da un'impalcatura, pertanto non vedeva il camion. Mattia subito pensò ad uno scherzo e minacciò urlando di lanciarsi giù dal balcone; il povero Franco iniziò a gridare, chiamò aiuto e scatenò un vero macello, tutti gli altri vicini si affacciarono e videro la scena.
Mattia, fiero di avere tutta l'attenzione su di sé, si lanciò davvero ma atterrando sul morbido cemento non si fece nemmeno un graffio. Mentre Franco urlava il suo nome a tutti lui scappò verso la piazza ridendo di quell'uomo che aveva beffato.
Corse a casa e si mise a giocare come se niente fosse accaduto.
Sua madre era davanti alla finestra, guardava fuori persa nei suoi pensieri, lo vide affannato ma rivolse lo sguardo altrove, ormai era abituata alla sua agitazione.
Sempre, ogni volta che si parlava di lui, seguiva la frase: - Poverino, non è colpa sua.
D'improvviso bussarono al campanello e Rosa si trovò di fronte il signor Franco, agitato più che mai che chiedeva come stava Mattia.
Lei ignara di tutto rispose che stava bene ed era in cucina, ascoltò il racconto di Franco e poi fredda chiamò Mattia, che ovviamente negò tutto. Lei era abituata alle sue bugie e lo rimproverò senza nemmeno dubitare della versione di Franco, poi cercò di spiegargli che era stato uno scherzo davvero cattivo ma lui non sembrava comprendere, anzi era fiero di avere fatto tanto clamore intorno a sé e di aver ricevuto le attenzioni di sua madre.
- Mamma, non volevo fare nulla di male – disse una volta ristabilita la calma – volevo solo giocare ed ero sicuro che Franco avesse visto il camion dentro il quale sarei saltato.
Lei non perse troppo tempo a parlare dell'accaduto con lui ma lo ignorò, lo fece per tutto il giorno. Era quello il suo modo di punirlo, faceva sempre così: poche spiegazioni e poca attenzione, quello che Mattia proprio non sopportava, la mancanza di contatto con lei, con i suoi occhi, con la sua anima così lontana da loro a volte tanto da sembrare in un'altra dimensione.
Da bambino vivace divenne ragazzino inquieto, e gli anni dell'adolescenza furono difficili.
Mattia faceva disperare sua madre: preso dalle passioni più smodate, amava tutto ciò che era sopra le righe. Era alla continua ricerca di adrenalina e tendeva a fare tutte le cose che proprio non avrebbe dovuto.
Sua madre, che di lui non ne poteva più, aveva allentato la presa, non riusciva a stargli dietro e quindi fingeva spesso di non vedere i suoi colpi di testa. Complice spesso, anche se non nelle azioni, sua sorella Nella che lo amava tanto e che voleva proteggerlo da sè stesso, era certa che per il suo atteggiamento irrequieto prima o poi si sarebbe fatto male.
Cresceva Mattia, per certi versi era amabile ma per altri un mare in tempesta, continuo tormento per sua madre che la tempesta la teneva già dentro.
Tante avventure amorose e tante donne sul suo percorso, fino a quando incontrò lei, Adriana, la ragazza acqua e sapone che gli fece battere il cuore, quel cuore in tempesta che non gli dava pace.
Fu lei a placare un po' quell'animo tempestoso che lo agitava fin da bambino.

- Sei una ragazzina seria, non puoi vestirti così!
- Non voglio vederti truccata!
- Smettila di attirare l'attenzione su di te, non ci fai una bella figura!
Amore e possesso, così era cresciuta Gioia.
Sempre a pensare a cosa si poteva fare e cosa no, non aveva mai avuto il coraggio di opporsi perché Mattia, suo padre, il capofamiglia, decideva per tutti. E lei si lasciava guidare, seguiva le sue idee perché da lui riceveva anche tanto amore e quindi fino ad una certa età non si era resa conto di voler vivere la sua vita.
Aveva una testa pensante e poteva decidere per sè stessa, e aveva anche un esempio di donna a cui guardare: sua madre Adriana, a cui voleva assomigliare.
Ma anche lei, sposando Mattia, aveva sposato la sua megalomania, la gelosia e il suo carattere irrequieto e spesso prepotente; non sapeva opporsi a lui né esprimere la sua volontà poiché Mattia decideva per tutti e due.
Di contro era un padre davvero affettuoso, innamorato dei suoi figli più che mai, di Gioia in modo particolare; lui era stato un figlio difficile ma aveva anche avuto una storia familiare complicata che lo aveva portato a rapportarsi con gli altri in modo quasi esasperato, bisognoso di conferme e di legami, di dare amore per riceverne altrettanto in cambio, e le sue relazioni sociali spesso gli facevano da terapia.
Il legame che aveva con gli affetti più cari era dovuto alla sua esperienza, si portava dentro un dramma importante che aveva modificato il suo essere e di amare.
C'era un legame davvero speciale tra padre e figlia: Mattia guardava Gioia con occhi illuminati, ne andava fiero, qualunque cosa lei facesse era per lui la più brava e la più bella.
E pensare che al momento della nascita desiderava un maschio con tutto il suo cuore, la caposala la mattina del parto prima di entrare disse: - Secondo me è una femmina.
- Noi diciamo che è un maschio, poi si vede – rispose lui serio serio.
Pareva che solo un maschio avrebbe trovato posto nel suo cuore e Adriana temeva la cosa poiché sapeva che suo marito aveva tanta difficoltà con i sentimenti.
Il corridoio della clinica era luminoso e tante donne con il pancione camminavano avanti e indietro per far passare il tempo; lui agitato masticava una gomma per tenere a bada l'ansia.
In fondo al corridoio c'era la statua della Vergine Maria, il suo collo era pieno di collanine di ogni tipo: medagliette, cuoricini, crocifissi regalati in segno di riconoscenza per la grazia ricevuta, per la nascita andata a buon fine o per la salute donata alla neomamma e al nascituro.
Non aveva collane Mattia al collo, né braccialetti, portava solo un orologio al polso, era il ricordo di uno zio a lui caro, e valeva tanto.
Lo tolse e lo appoggiò ai piedi della statua: fu il suo voto offerto a Maria per la salute della sua Adriana e del nascituro.
Sua madre era lì con lui, come sua sorella Nella e la famiglia di Adriana: tutti aspettavano con ansia la nascita.
La madre era silenziosa, assolutamente inespressiva, Nella la teneva sottobraccio e spesso le bisbigliava qualcosa, lui la guardava cercando di cogliere quell'emozione che si aspettava di vedere ma che non c'era.
Finalmente la caposala uscì e urlò verso di loro: - Avevo ragione, è una bella femmina!
Mattia spalancò gli occhi ma poi vide uscire dietro di lei un'infermiera con in braccio un fagottino. Andava verso di lui, qualcosa lì dentro si muoveva, emetteva dei piccoli lamenti, lui tese leggermente le braccia quasi intimorito, la bimba piangeva tanto ma poi appena passata tra le sue braccia si tranquillizzò e parve quasi sorridere.
Era diventato papà.
Mattia con in braccio la piccola si avvicinò a sua madre, le chiese dolcemente di guardarla, di ammirarne la bellezza, provò a fargliela tenere in braccio e la convinse a farlo, porse quel fagottino nelle sue mani anche se le restò molto vicino perché il suo sguardo duro non lasciava intravedere l'emozione che lui si aspettava. D'improvviso però il viso di sua madre sembrava essersi addolcito, guardava la piccola con occhi teneri. Le braccia, in principio due linee tese, si ammorbidirono in una posizione di semicerchio per accogliere quel piccolo corpo come in un abbraccio.
Nella non la perdeva d'occhio, le stava accanto pronta a gestire un'eventuale reazione che si aspettava da lei, sapeva quello che le avrebbe potuto provocare quella piccola, conosceva il suo passato e l'inaffidabilità dei suoi sentimenti.
La donna però, contrariamente alle previsioni, cominciò a dondolare la piccola e a canticchiarle un motivetto, una nenia che a Mattia parve di aver già sentito.
Guardava sua madre e ne era rapito, non aveva prezzo vederla felice; si immaginò per un attimo al posto di sua figlia tra le sue braccia, avrebbe voluto sentirne i battiti del cuore per capire dal loro ritmo l'intensità dell'amore che provava per lui, avrebbe voluto percepire dai suoi occhi l'amore e il legame che li univa.
Ma il pianto della neonata riportò tutti al presente, fu veloce Mattia a riprendere in braccio sua figlia, perché proprio in quell'istante Rosa ebbe un malore, impallidì e si accasciò sul pavimento.
Nella le sollevò le gambe, con il ventaglio tirato fuori dalla borsa cercava di rianimarla mentre una delle infermiere del reparto si precipitò a prestarle soccorso.
Adriana era tornata in camera: suo padre e sua sorella erano accanto al letto ma lei non sembrava felice di aver partorito quella meraviglia, anzi aveva l'aria cupa e preoccupata.
Sua sorella, già mamma di due figli, sapeva bene che quella sensazione era comune per una donna che aveva appena partorito. La situazione nuova nella quale la neomamma si trova catapultata è complessa, prendersi cura di un piccolo corpicino indifeso da sola non è facile e non si è abituati a farlo, la madre che nasce insieme al suo bambino ha bisogno di costruirsi una nuova identità.
Tranquilla Adry, ci saremo noi a darti una mano – le diceva.
Adriana però non sembrava affatto comprendere quelle parole, era assente e quando le portarono la neonata per allattarla fu davvero un brutto momento per lei. Il seno non sembrava predisposto a nutrire quella figlia, sembrava quasi che non avesse seguito il regolare processo della gravidanza; la montata lattea non era arrivata, e anche se l'ostetrica la rassicurava che era normale e che magari il giorno dopo si sarebbe normalizzato tutto, lei entrò in crisi, piangeva e si disperava per quel mancato contatto con sua figlia del quale si sentiva in colpa.
Nei giorni che seguirono Adriana non si sentì affatto bene. Non era facile per lei essere madre, non le veniva naturale, si sentiva impacciata, inadeguata e ogni volta che qualcuno le diceva che era normale si sentiva peggio. Non la sollevava sapere delle altre mamme che avevano avuto situazioni analoghe anzi, non avrebbe mai voluto assomigliare a nessuna di loro perché prima di quel momento la sua idea era che una donna che partorisce deve essere subito pronta a fare la mamma.
Non ho il latte, come farò a darle da mangiare? Quando piangerà disperata per la fame come la calmerò?
L'ansia la assaliva ogni volta che era da sola, se la piccola piangeva lo faceva anche lei perché non sapeva cosa fare, come riorganizzare la sua giornata in funzione di sua figlia.
Mentre Adriana viveva il suo disagio invece tra Mattia e quell'esserino era scattata un'alchimia, una scintilla tanto forte che non sapeva spiegare. Era la sua bambina e nessuno avrebbe mai potuto separarli.
Gioia fu il nome che scelse per lei, non avrebbe saputo dare altra definizione a quel momento.
La bimba cresceva sotto la sua stretta protezione, la stessa Adriana secondo lui non era sempre capace di proteggerla, era debole dopo la depressione post-parto e non si fidava a lasciarla da sola.
Lui doveva supervisionare, doveva controllare che tutto andasse come doveva andare.
Quel legame però era anche causa di tante paure per Mattia, uno che aveva vissuto la vita appieno e conosceva bene il mondo e gli uomini, sapeva che crescerla sarebbe stato faticoso e che una volta grande una bellezza come Gioia avrebbe attirato intorno a sé una marea di “mosconi”, come li chiamava lui.
Quando questi pensieri lo tormentavano, diventava protettivo e ossessivo con lei, d'improvviso il principe azzurro si trasformava in un supereroe pronto a difendere la sua principessa e combattere contro il male.
L'amore per quella figlia era smisurato, meraviglioso e oppressivo allo stesso tempo. Amarla per lui voleva dire non farle accadere nulla di brutto, proteggerla dalle insidie del mondo, costringerla in una gabbia dorata per non soffrire.
Ma come si può chiedere a una creatura che viene al mondo di bendarsi gli occhi e di non vedere, di non sperimentare, di sottrarsi ad ogni esperienza che può dimostrarsi pericolosa?
Sarebbe come evitare di vivere oppure come imparare a nuotare senza andare al mare: soltanto spiegarlo non basterebbe, bisogna entrare in acqua e provare a nuotare, capire quali sono i movimenti giusti delle braccia e delle gambe. E per farlo, bisogna provare.
Gioia non veniva affidata mai a nessuno, nemmeno ai nonni o agli zii, se non poteva occuparsene Adriana stessa, lui lasciava il lavoro per sostituire sua moglie, altrimenti non era tranquillo. Quella bambina era per lui la cosa più importante.
Gioia aveva 5 anni quando Adriana rimase di nuovo incinta. Mattia fu protagonista dell'evento di diventare nuovamente papà, ma questa volta lo fece con una maturità diversa.
Nacque Miriam, un'altra femmina. A vederla sembrava quasi non fosse italiana: aveva occhi a mandorla e pelle olivastra, del tutto diversa da Gioia che era bionda, con la pelle chiara e gli occhi azzurri.
La nuova nata gli assomigliava davvero tanto e questo lo riempiva di orgoglio. Ma la nascita di Miriam scatenò in Mattia la convinzione che Gioia potesse soffrire di gelosia poiché era stata fino ad allora figlia unica coccolatissima da lui e da tutto il resto della famiglia. Era convinto che la neonata non era ancora capace di sentire la competizione con la sorellina più grande e quindi quasi la ignorava per dedicare ogni tipo di attenzione a Gioia che invece era capace di comprendere che non era più al centro delle attenzioni di mamma Adriana, la quale ovviamente non poteva più dedicarle tutto il suo tempo.
Sua moglie non era d'accordo rispetto al suo modo di fare con la piccola Miriam e glielo diceva, ma Mattia era fatto così, pensava di aver sempre ragione ed era convinto che doveva necessariamente proteggere Gioia dalla gelosia, quel sentimento che avrebbe creato astio tra le sue figlie. No, non poteva permettere che una delle due odiasse l'altra.
Questo era motivo di litigio nella coppia. D'altra parte, Mattia litigava per nulla, bastava contraddirlo e partiva per la tangente. Era passionale e dolcissimo con le sue figlie, ma molto severo con sua moglie, inoltre non permetteva a nessuno di contrastare le sue idee.
Spesso i litigi erano violenti, lui non accettava che Adriana gli tenesse testa, allora la sua voce si faceva più alta, il corpo si irrigidiva e si sentiva incapace di controllare la sua rabbia. E talvolta anche le sue mani.
Una bambina non dovrebbe mai vedere i genitori che litigano, perché non è in grado di comprenderne il senso. Gioia a dieci anni doveva proteggere la propria mamma dai modi bruschi di suo padre. Era sempre lei a intromettersi, a intervenire nelle discussioni e a farle cessare: piangeva, li pregava di smettere e così Mattia si calmava, quasi come si risvegliasse dallo stato di trance in cui era caduto.
Durante la crescita troppe volte Gioia aveva assistito a quelle litigate e aveva visto maltrattare sua madre.
Sentiva quei colpi e quel dolore sulla sua pelle, viveva una paura che lei stessa non sapeva spiegare. Non riusciva a distrarsi, a giocare come prima; non era più una bimba spensierata, poiché sentiva costantemente un peso sul cuore.
La sera prima di andare a dormire pensava all'indomani, al momento del distacco da sua madre, sentiva le gambe che le tremavano, aveva cominciato ad avere paura di suo padre.
Non voleva più andare a scuola, lei che invece era sempre la prima a correre per andarci, quella che si rattristava al pensiero di non vedere i suoi amici e le maestre durante le vacanze estive. Al mattino aveva sempre mal di pancia, era angosciata all'idea di lasciare Adriana e Miriam a casa da sole, temeva che suo padre potesse rientrare e fare loro del male.
Una mattina, dopo che Mattia l'aveva lasciata nel cortile insieme alle sue insegnanti, approfittò di un momento di distrazione di una delle due maestre e scappò fuori per strada, corse veloce verso la piazza per allontanarsi da lì e non farsi trovare. Aveva il fiatone ma non per la corsa, non riusciva a respirare, era come se l'aria entrasse nei polmoni ma poi restasse bloccata all'altezza della gola.
Si fermò in un angolo all'ombra dove c'era una panchina, vi si appoggiò per prendere fiato.
Passò dopo poco la madre di Ornella, una sua cara amica, la vide e si preoccupò, cosa faceva lì da sola nell'orario di scuola?
Decise di accompagnarla personalmente a casa e parlò con Adriana. Sua madre era davvero senza parole, non capiva perché sua figlia si fosse comportata così.
Di fronte alle insistenti richieste di spiegazioni, Gioia rispose in lacrime che era preoccupata per loro due, le aprì il suo cuore e i sentimenti che da un po' di tempo stava provando, da quando papà era diventato l'orco cattivo.
Adriana l'abbracciò forte, pensando che sarebbe stato inutile parlarne con Mattia, tanto nulla sarebbe cambiato.
Della cosa si erano accorte anche le maestre, che cominciarono ad impensierirsi.
Erano preoccupate perché Gioia era davvero brava e non era il tipo di bambina che faceva capricci inutili, ci doveva essere una spiegazione dietro il suo malessere. Così un giorno convocarono i genitori attraverso una convocazione scritta.
Mattia lesse attentamente e poi si rivolse a sua moglie in modo provocatorio.
Non riesci a gestire tua figlia ultimamente... Se Gioia è agitata ed è scappata addirittura da scuola è perché come io ho sempre pensato è gelosa di Miriam, tu stai sempre con la piccola trascurando lei che ne soffre in silenzio. Non può dirlo qui a casa e a scuola manifesta quello che la inquieta. Le maestre non ci metteranno molto a credere a quello che diremo, hai capito?
Ecco che aveva trovato la soluzione al problema: ne sarebbe uscito pulito ancora una volta, nessuno avrebbe mai dubitato di quella versione.
Mattia sapeva bene che il suo atteggiamento avrebbe potuto generare da parte delle maestre una reazione di allerta, avrebbero potuto avvertire i servizi sociali se fosse venuto fuori che lui urlava contro sua moglie di fronte alle bambine, e che spesso mosso dall'ira aveva alzato le mani su di lei.
Non poteva permettersi di perdere le sue figlie, non avrebbe sopportato quella situazione, tantomeno sopportato lo sguardo di sdegno che sua madre gli avrebbe rivolto. Non poteva darle quel dolore, doveva essere orgogliosa di lui e non vergognarsene.
Ecco che Gioia stava maturando la convinzione che la separazione fosse necessaria, perchè per un bambino era meglio avere i genitori separati piuttosto che nemici, era meglio saperli lontani piuttosto che vicini ma in guerra continua.
Era diventata la madre di sua madre in un certo senso, doveva proteggerla perché era l'unica che poteva farlo, l'unica che riusciva a tenere testa a quel principe che di azzurro non aveva più la luce ma soltanto l'ombra; anche se ancora una bambina, era l'unica capace di farlo ragionare, capace di toccare le corde del suo cuore e modificarne la triste melodia.
Miriam era troppo piccola per farlo, e lei da sola si portava quel peso.

Rosita D'Esposito

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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