Storie di vite imperfette.
Antefatto.
L'incantesimo della strega L'aveva sempre saputo, ma le era piaciuto ingannarsi. Affidarsi ingenuamente a ciò che avrebbe dovuto apparirle, fin dall'inizio, così improbabile da non poter essere reale. Sorpresa e attonita davanti al divampare di un desiderio improvviso e tempestoso, una bruciante saetta di passione che aveva cauterizzato in un attimo tutte le sue recenti, dolorose ferite. Un sogno pazzo nato da un incontro inaspettato. Ci aveva creduto, fortemente, totalmente, contro ogni ragione. Aveva continuato a crederci anche dopo l'epifania sincrona di un'altra donna, una stramaledetta francese lesbica piena di contrasti e di nevrosi, figlia perdente e noir di un amore materno incompiuto, finito non appena aveva respirato la prima aria del mondo. Che il suo nuovo uomo avrebbe scelto quella pazza infelice, quell'artista da nulla, le era stato chiaro quasi da subito, non appena il suo volo si era staccato dalla terra di Francia per riportarla nel ventre caldo e feroce della natia Barcellona. Lei troppo normale, troppo razionale, troppo innamorata per vincere contro la follia romantica e la divinazione esoterica di una strega bretone. E infatti quell'italiano debole e superficiale, che le aveva promesso di raggiungerla pochi giorni dopo, non si era fatto vivo quella sera, né l'indomani, per chiederle qualcosa di lei, qualunque stupida minima cosa, anche solo per sentirla respirare ancora nell'aria e nel sole della Spagna. Le aveva inviato una mail due giorni dopo la sua partenza. Righe che parevano uno scherzo, sul filo di quella maledetta parodia del gioco dell'ultimo giorno che avevano trascorso insieme, appena prima di scoprire il marchio degli artigli della pittrice dai capelli rossi sulla sua schiena.
Pegasus non verrà. È rimasto intrappolato nell'incantesimo della Strega Bretone. Confinato nel suo cerchio magico inaccessibile. Il nostro amore si è compiuto nel tempo. Un tenue filo d'oro che resterà intrecciato alla trama della memoria. Addio, Lady Isabel.
La sera del venerdì successivo al loro distacco, Isabel si era vestita con i pantaloncini sdruciti e attillati che le piacevano tanto e la t-shirt dell'Hard Cafè di Barcellona, quella dei primi baci con l'italiano, numerati, alla Fontana dei Medici del Giardino del Lussemburgo. Si era recata all'aeroporto El prat de Llobregat, pronta ad accogliere chi aveva già annunciato la sconfitta finale del loro amore, nella inutile ma pervicace speranza di un ripensamento estremo, di una sorpresa unica fra le tante che fa la vita. Il gate non mostrò il suo Cavaliere Alato, inghiottito dalle ammalianti divinazioni della strega rossa. Il rosso acceso del rossetto sulle labbra scolorì, invaso dal contatto salato di qualche lacrima che scese sulle guance, accompagnato da un fitto, acutissimo dolore che schizzò dalla pancia al cuore. Promise a se stessa che non avrebbe creduto più nell'illusione dell'amore, tradita due volte e due volte offesa in tre mesi appena. Si voltò, corse verso l'uscita sentendosi, a ogni passo, una donna ancora più forte. Sarebbe presto diventata dura e invincibile. PRIMO GIORNO – MERCOLEDÌ 10 AGOSTO 2022
E a lei, per le oscure trame del destino, questa grazia non era stata ancora concessa. Le volevo bene, ma ero quasi sicuro di non amarla più. Eppure, non l'avrei mai abbandonata.
Sogni
Un universo di pace, la calma cosmica del principio della creazione. Una schiuma di luce e d'Essere da cui può nascere energia e sogno, una potenza psichica capace di orientare le vite degli uomini nell'ordine del tempo. Poi si composero quasi dal nulla, sostanze di materia che assomigliavano a uomini e donne nella furia di una battaglia, un volo di falco alato su un precipizio di rocce assaliva i miei pensieri prigionieri del sonno. Non potevo farci nulla e succedeva tutto. Mio padre, mia madre e i miei fratelli terrorizzati dalle esplosioni che cercavano un improbabile riparo ai lati di quella strada bucata e rotta. Mia zia che stringeva quel piccolo crocifisso d'argento...
Una piccola mano delicata mi scosse. «Stefi! Stefi! Dai svegliati! Che hai? Ancora un incubo?» Era la dolce Alice, mia moglie, una ragazza tanto cara che oramai sospettavo di non amare più, ma che circondavo d'affetto e riguardi, tanto era sensibile, disponibile, discreta, attenta: irreale insomma. Aprii gli occhi e le presi con delicatezza quella mano minuscola. «Ciao tesoro... Scusa» le risposi sbadigliando un po' e stropicciandomi gli occhi. «Sì, ancora una delle mie allucinazioni... ora è passata. Che ore sono?» mi assalì un altro sbadiglio. «Le cinque e mezzo, mi alzo». «Fai la mattina in sala?» «Si, tesoro. Dormi.» E mi piazzò un bacetto sulla guancia. Mi rigirai dall'altro lato, distendendomi in uno stretching sotto le lenzuola. Era un agosto caldo e appiccicoso. Mi sembrava di sentire l'afa che atterrava oltre la leggera frescura della notte. Mi sarei alzato non prima di un'ora, con calma, un po' di ginnastica sul parquet, giusto un centinaio di addominali e una trentina di flessioni. Poi il lungo relax solitario del bagno e per colazione solo un veloce caffè nero, non zuccherato. La passeggiata dal centro, dove abitavamo, fino alla stazione, e trentacinque chilometri di treno per sbarcare davanti agli schermi led a ventisette pollici dello studio. Ero sveglio ed era il tempo dei pensieri e delle memorie. Alice l'avevo conosciuta quando aveva venticinque anni a un campo estivo parrocchiale in Romagna, rinchiudendola per gioco in una cella della fortezza di San Leo, quella del Conte di Cagliostro. Quegli occhi verdi e buoni al di là delle sbarre non li avevo scordati. Erano occhi innamorati e convinsero anche i miei, marroni e distratti, ad accettare quella ragazza timida e deliziosa fra i progetti per il futuro. Lei mi invitò dentro la cella del Conte e mi abbracciò. Io ricordo che le dissi che quell'amore nasceva sotto strani e oscuri presagi, nel luogo dove scontò la pena al carcere a vita e morì Giuseppe Giovanni Battista Vincenzo Pietro Antonio Matteo Franco Balsamo, ovvero Alessandro Conte di Cagliostro, gran ribaldo, disegnatore, falsificatore di documenti, millantatore di onorificenze fasulle, losco affarista, sfruttatore di prostitute, sedicente massone, taumaturgo dedito ad attività esoteriche, alchimista. In una definizione, quella di Casanova, “un genio fannullone che preferisce una vita di vagabondo a un'esistenza laboriosa”. Lei rispose che amava i gatti neri, soprattutto quelli che le attraversavano la strada. Erano passati mille anni da allora, e io non potevo certo lamentarmi di quella donna straordinaria, non bella ma carina, magra, timida, con bellissimi occhi verdi, capelli neri corti ornati dall'unica civetteria di un piccolo codino sulla nuca. Disponibile a ogni sacrificio, gran lavoratrice, ottima cuoca. Lei non riusciva a restare incinta. Ci provavamo da anni, con il refrain di analisi e visite approfondite che avevano individuato nella sua morfologia intima un fattore tubarico che rendeva assai difficile la fecondazione. Adesso discutevamo anche se avanzare una domanda per un'adozione. Lei se ne crucciava moltissimo, figlia cattolica devota di famiglia cattolicissima, tutte le domeniche a messa e il mercoledì alle prove di canto. Aveva una voce cristallina che si vergognava un po' a usare. Non era mai stata un'amante del sesso e sembrava concedersi quasi per dovere. Col tempo, poi, quest'attività era calata molto di ritmo e di frequenza fino a diventare assai rara. Ma ci volevamo bene; lei appena poteva mi abbracciava e si stringeva a me, cercando contatto fisico e calore umano. Ne avevamo parlato poco essendo Alice molto reticente e timorosa in materia. Però immaginavo che quella ritrosia nascesse dall'intima convinzione che le avevano inculcato, cioè che il sesso è accettabile e consentito da Dio e dal cielo solo se finalizzato alla procreazione. E a lei, per le oscure trame del destino, questa grazia non era stata ancora concessa. Le volevo bene, ma ero quasi sicuro di non amarla più. Eppure non l'avrei mai abbandonata.
Poli opposti Cristina non sapeva di essere bella. E arrossiva quando le dicevano che piaceva molto agli uomini. «Impossibile» si schermiva. Aveva la pelle liscia e bianca, un latte che si imporporava al primo sole. Era alta, riccia e castana di capelli, aveva un bel seno pieno che mostrava solo impercettibili concessioni alla forza di gravità, gambe lunghe e magre, piedi grandi e nervosi. Unico neo – e quando ci pensava se ne vergognava – un fondoschiena non troppo scolpito. Cristina non sospettava nemmeno di essere sensuale. Di una sensualità tutta sua, ingenua e gentile, come rappresa nei capelli attorcigliati che le nascondevano parte del volto allungato, bucati dalle due iridi zaffirine, con l'aria innocente di una vispa Teresa che pareva sempre un tempo di gioco in ritardo rispetto ai tackle della vita. Cristina era iperattiva e dolce, buona come la terra che attende la lama affilata dell'aratro per essere rivoltata in scure zolle ricche di nutrimento, per donarle una nuova fertilità e affondare nel profondo i residui dei giorni e degli anni precedenti, in modo che non interferiscano con la vita del nuovo che avanza. Cristina era cocciuta e amava i bambini; quattro ne aveva cresciuti, nati a non più di due anni di distanza l'uno dall'altro. Anni affannati di giornate che iniziavano presto e non finivano mai. Trascorsi con un marito assente, intento nei suoi assidui tentativi di comprendere l'illimitata natura dell'universo, perso nelle sue astruse equazioni differenziali. Un astrofisico sempre impegnato in giorni e notti di osservazioni e calcoli numerici in due laboratori di ricerca a decine di chilometri da casa. E da queste razionali dimore cenobite lui tornava raramente, nei week-end, per le feste comandate e nei periodi di ferie. Cristina aveva cresciuto la sua famiglia da sola nei giorni feriali e lui le aveva assicurato il necessario per vivere; i figli, due maschi e due femmine, con nomi attinti dalle cronache storiche fiorentine, Ranieri, Cino, Fiorenza e Beatrice. I figli non riuscivano quasi mai a minare la sua grande pazienza. I giorni correvano e le notti erano brevi, passarono gli anni e i quattro eredi, arrembanti e ribelli, erano ormai sufficientemente cresciuti da inventarsi le sere con gli amici e da impigliarsi nelle reti dei primi amori. La presenza dell'astrofisico era divenuta sempre più rara, forse perché il lavoro cresceva, o la famiglia l'annoiava, o, magari, c'era un'altra donna persa come lui a rimirar le stelle. Cristina, una cosa così, nemmeno l'immaginava possibile.
Lucas la osservava dall'altro lato della strada, nelle poche sere in cui era presente nella sua villetta. Immerso nel buio dello studio al primo piano, ammorbidito solo leggermente dall'alone fioco del riverbero di un solitario lampione. Disteso su una poltrona puntata verso la grande vetrata a tutta parete, orientava lo sguardo attraverso la finestra che gli stava di fronte, a una quindicina di metri di distanza. La finestra della camera da letto di Cristina, quasi sempre illuminata dopo le undici di sera, con lei sola dentro, pensierosa e indaffarata. La compagnia del marito incerta e rara; le voci del paese lo dicevano perso tra effemeridi, red shift e nuove curve di carne da investigare. Troppo occupato dalle sue pressanti responsabilità scientifiche. La nuova Teoria del tempo del Punto di Giano, il progetto di ricerca e identificazione degli asteroidi. E i pettegolezzi ricamavano maliziosi una nuova passione per una giovane astronoma che non amava sentirsi troppo sola a rovistare nel buio delle costellazioni in quelle lunghe notti all'osservatorio. Fatto sta che Giulio era avvistato solo un paio di volte al mese nei pressi di quella minuscola strada di quella piccolissima frazione di un paesino ai margini di Aosta, dove la famiglia Rosset abitava. Finiti i compiti di casa, verso le undici della sera, Cristina si toglieva scarpe e pantaloni e restava con la sottoveste, rosa, a volte bianca, girovagando scalza sul parquet della stanza, avanti e indietro, dal bagno al corridoio, alla cucina e poi a notte fonda si stendeva sul letto a leggere libri invisibili. A Lucas pareva così bella, enigmatica, irraggiungibile nella sua assoluta fedeltà all'etica di una vita monastica. E questa presunta difficoltà, per lui, era pura tentazione.
Cristina sembrava così innamorata, nonostante tutto, di quella vita di corvè continue, dal ritmo forsennato che, finalmente, iniziavano a placarsi un po'. Cristina resisteva, barricata nella consapevolezza del valore di quella famiglia numerosa e minata dall'assorta indifferenza del marito, impermeabile ai desideri che si affacciavano alle sue ore e che lei ricacciava indietro, con determinazione forse appena increspata dal balenare di un minuscolo dubbio.
Lucas non si faceva fuorviare dalla sua gentilezza, da quel mood da vicina conformista e distratta che produceva frasi solite e banali: «Buongiorno, come stai, ti va bene il lavoro? E tua madre? Io sto bene, grazie, son sempre piena di cose, il tempo è corto non si può allungare, mannaggia...». E correndo se ne scappava a compiere chissà quale impresa quotidiana di quell'infinità destinata all'oggi.
Lucas era convinto che Cristina covasse nella sua intimità qualche desiderio, che ogni tanto faceva capolino alla coscienza e subito veniva sommerso. Forse se ne vergognava al solo pensiero... e cercava, ahimè invano, di reprimere con la sua instancabile ossessione del fare. Un difetto occulto, una minuscola opacità nella sua virtù cristallina, una passione che se innescata avrebbe aperto una crepa via via sempre più profonda nella sua condotta. E forse l'avrebbe cambiata per sempre. Una minuscola innocua vibrazione che, opportunamente amplificata, poteva far crollare quell'edificio di apparente virtù intangibile, come le tessere di un domino pazientemente allineate negli anni. Lucas era convinto che in lei dimorasse, come in tutti gli umani, un sottosuolo inespresso e segreto pieno di desideri e di voglie, pronti a tracimare in gorghi irrefrenabili, trattenuti appena dai fragili argini di un moralismo di facciata. Lucas l'avrebbe scoperto, ne era certo, e aspettava paziente il momento di un passo incerto, insicuro, di una frase buttata lì per voler dire tutt'altro. Di una qualche debolezza confessata a mezza voce, un invito smascherato da un lapsus impercettibile. Che non arrivava. Sempre perfetta, irreprensibile, fedele, aggiogata al ritmo di una vita che a Lucas sembrava assolutamente noiosa, così vuota di ciò che conta davvero: il flusso emozionale collegato alle passioni dell'esistenza. Lucas era convinto che dentro di lei ribollisse un vulcano pronto a eruttare lapilli e lava, alle prime frane di un terremoto interiore. Del resto lui se ne intendeva di donne: era bello come il sole, sfrontato e ammantato di un perfetto e delicato cinismo che lo rendeva, chissà perché, irresistibile e indecente tombeur de femmes. Ormai, a quarant'anni suonati, delle sue conquiste aveva perso il conto. Non si era sentito mai un Casanova, forse solo un po' ai tempi belli. Quando, per l'invincibile demone degli incontri affamati di sesso, aveva abbandonato la sua fidanzata, umiliata e tradita. Non ne poteva più di spiegazioni e di sotterfugi. Lui era sempre stato convinto di non esser fatto né per la famiglia né per la fedeltà. Adesso, qualcosa nel suo profondo lo turbava. Risuonavano le parole che sua madre gli ripeteva spesso: «Ti sentirai un uomo solo quando guarderai il mondo con gli occhi della persona che ami».
Alberto Mati
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