Ho avuto serate peggiori (forse).
La pioggia batte furiosamente sulle lamiere di questo cantiere lungo la Collatina, mi bagna i capelli e scende dentro la mia camicia. Mi nascondo dove la luce non arriva, cercando di rallentare il respiro e il battito del cuore. Non devo far rumore. Li ho seminati, ma non sono ancora al sicuro. Mi fa male la milza, mi fanno male le gambe. Quanto tempo è che non correvo così tanto? Mi piego con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato e un'enorme goccia di pioggia si posa sulla mia nuca. È fredda, è davvero grande e, che strano, non si muove. Porto la mano destra dietro la mia testa per toglierla. Non è una goccia di pioggia. È la canna di una pistola. Non li ho seminati, dopotutto. Mi alzo lentamente, cercando di respirare con calma, ma non ci riesco. Non è solo l'affanno a togliermi il fiato. «Ciao, stronzo» mi dice una voce che conosco fin troppo bene. «Ciao, Jack, bella serata, eh?» Jack, in realtà, si chiama Giacomino, ma, visto che è alto uno e novantacinque e porta in giro novanta chili di muscoli e ossa, se glielo ricordi si incazza a morte. E non è un modo di dire. C'è qualcuno che sta ancora riflettendoci su, comodamente sdraiato in una bara di cemento dentro un ponte sull'autostrada per L'Aquila. Non mi volto per guardarli, ma è come se li vedessi quei suoi occhi infossati nei quali non passa mai un'espressione buona. «Lui ti aspetta» mi dice e mi fa cenno di alzarmi, sapendo che, grazie allo stimolo convincente della sua 38, mi incamminerò docile docile. L'idea di ribellarmi guizza nel mio subconscio, ma non osa uscire, perché ha paura di bagnarsi sotto questo acquazzone; o, più semplicemente, è la pistola di Jack che la convince a restare all'asciutto. Ho le scarpe inzuppate, come i pantaloni, la camicia, i capelli, la faccia, le mani. Perciò, quando mi muovo, mi sento un grosso pesce appena tirato fuori dall'acqua. Un pesce destinato alla padella. Jack mi sbatte sul sedile posteriore dell'auto e l'enorme revolver, accucciato nella sua mano, si mette a fissare il mio occhio destro. «Ciao, stronzo.» Anche Millo, dal posto di guida della vecchia Alfasud grigia, mi saluta con la stessa cortesia di Jack. Ma non si limita a questo; come al solito, ride. Ride e sputa fuori dal finestrino, mentre ingrana la marcia. Poi, con due giri di manovella, alza il vetro e la pioggia resta fuori. Nell'abitacolo c'è odore di umido e di cattive sigarette. Non rispondo alle gentilezze di Millo, non sono dell'umore giusto, chissà perché. Mentre ci muoviamo penso che questa zona, di notte, fa ancora più schifo che di giorno. Non c'è mai un cazzo di nessuno, se piove o se fa bello, e possono farti sparire senza che nessuno se ne accorga. E già, sparire è proprio quello che sta succedendo a me. Che stronzo che sono, su questo hanno proprio ragione 'sti due. Dopo un viaggio senza storia, in cui non sono riuscito a fare amicizia con Jack e con la sua pistola, arriviamo al bar sulla Palmiro Togliatti, dal capo, da quello che mi aspetta. Millo scende dall'auto ghignando, apre la mia portiera e sputa in terra. Sotto la pioggia è ancora più brutto del solito, mamma mia. Con le solite buone maniere, Jack mi strattona fuori dall'auto, e mi chiede: «Entri o no?». Come se potessi andare a farmi una passeggiata. E dove, poi? È quasi notte. E piove che Dio la manda. Be', in effetti, Dio è così impegnato a far scendere ettolitri di acqua dal cielo che di certo non pensa a me. Mi sento un po' solo. Molto solo. Troppo. Entro nel bar, deserto, e Jack, con uno spintone rafforzato dalla pressione della calibro 38 sulla mia tempia destra, mi fa passare nel retrobottega. Ci gode proprio a mettermi paura. Qualcosa mi dice che godrebbe ancora di più a scannarmi per bene. Entro nella stanza sul retro ed eccolo lì, il capo, seduto alla sua scrivania, dalla quale non si allontana mai, sempre fermo lì, a trafficare in droga, prostitute e a contare i soldi del pizzo, sempre attento a non farsi sfuggire nulla e nessuno e, se per caso succede, ad ammazzare quello che è sfuggito. E sempre, ma proprio sempre, con le mani nel sacchetto delle patatine fritte. Ne mangia a quintali, mi sono spesso domandato come faccia, magari stasera, prima di salutare, glielo chiedo. Anzi, vista la situazione, mi sa che approfitto, e stavolta glielo dico subito che è per colpa di questo vizio se il suo fisico scattante ed asciutto da bravo portiere di calcio si nasconde adesso in centocinquanta chili di lardo flaccido, a cui deve il soprannome con cui tutti lo chiamano: er Bombo, al secolo Luca Germani.
Er Bombo mi guarda male, e non parla. Jack, in piedi vicino al suo capo, mi guarda anche peggio, e neanche lui parla. Millo ridacchia, e non parla. Mi adeguo e resto zitto pure io. Guardo il soffitto, il fumo acre della sigaretta che si consuma nel posacenere davanti al Bombo si addensa intorno al lampadario. In fondo, io non ho nulla da dire, sono loro ad avermi cercato. Però questo silenzio mi fa pensare, e forse sarebbe meglio che non lo facessi, perché penso male, malissimo. La vedo brutta, ecco quello che penso, continuando ad ammirare le crepe sul soffitto, neanche fossero i capolavori della Cappella Sistina. In effetti, vorrei proprio rivederla, la Cappella Sistina, sicuramente mi sono perso qualcosa di importante. Ma non credo che al Bombo interessi. Mi sudano le mani e ho i glutei molto contratti. Sì, sto stringendo il culo. E sento caldo, anche se siamo quasi a fine novembre e fuori è autunno a tutta birra, io qui dentro sto veramente morendo di caldo. Strano; o forse no. Il tempo passa e loro tre rimangono muti, seri, immobili. Lo sguardo del Bombo insinua una certezza assoluta tra i miei tanti dubbi: tra poco avrò freddo, molto freddo. Mentre cerco di allontanare questo pensiero fastidioso come un barboncino che abbaia di notte, sento un trambusto alle mie spalle. Proviene dal bar. Subito dopo, un colpo fortissimo e la porta del retrobottega dietro di me sbatte con violenza contro il muro. Non oso girarmi, non oso respirare, non oso muovermi. Abbasso lo sguardo e vedo il Bombo e Millo che spalancano gli occhi, fissando un punto sopra la mia testa. Da quel punto, sgorga una voce arrochita, da fumatore incallito: «Bella festa e begli amici, Martelli Fabrizio...». Millo guarda perplesso il Bombo e Jack. «... detto Bicio» completa la voce. Millo fa la faccia soddisfatta e ride. Bombo torna incazzato. Jack resta impassibile, ma non è che sia un tipo molto espressivo di solito. Una mano enorme si posa sulla mia spalla destra con la delicatezza di una benna da escavatore, e la voce tuona: «Martelli, vieni con me, va'!». Un'altra mano enorme compare alla sinistra del mio viso, non giro la testa, ma con la coda dell'occhio riesco a vedere che mostra qualcosa. Il Bombo stringe le labbra e impallidisce: «Commissario Capo Piccolo, Polizia di Stato, e porto via il vostro Bicio. Qualcosa in contrario?». Una strana luce passa sul volto di Jack, ma la voce si riprende la scena: «Il primo che parla o si muove, gli spacco la testa e poi lo porto al gabbio insieme a questo qua. Chiaro?». Tutti zitti e buoni. Anche Jack. Adesso la mano sulla spalla stringe la presa e mi solleva dalla sedia come se fossi un fantoccio di paglia. Senza farmi voltare, l'altra mano fa scattare una manetta al mio polso sinistro. Offro anche il destro, non credo sia il caso di fare resistenza, anzi. «Andiamo» dice la voce, e mi trascina fuori, lontano dall'odio del Bombo e di Jack e da quello scemo di Millo. Mentre esco, mi giro e sorrido per salutare, sono sempre stato una persona educata, io. Non mi ricambiano. «Ah,» dice la voce prima che ci allontaniamo, «e con voi, signori belli, ci vediamo presto.» Il tono è davvero poco amichevole. Vorrei sorridere, ma mi trattengo; mi sa che ora c'è qualcun altro che ha i glutei stretti. Per ora, l'ho scampata bella. Ma non so se posso essere contento. Ho la strana sensazione che tra poco ne saprò di più su quella storia della padella e della brace. Ma vabbè, ci penso poi.
Giancarlo Falleti
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