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Autore: Elvira Lembo
Virginia
Fantasy
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Virginia
Quel giorno a Parigi c'era stato un violento temporale: pioggia torrenziale e tuoni; il vento impetuoso sembrava che volesse strappare tutto scuotendo rumorosamente le finestre.
Lucien, mio marito, aveva l'abitudine di girare di notte. Alle sei del mattino sentii ruotare la chiave nella serratura. Udendo i suoi passi lunghi, m'irrigidii. L'osservai spaventata, aveva il volto grigio come la sua anima e l'aria di uno sconosciuto che non s'interessi a niente. Mi si avvicinò con il suo alito pesante e mi disse con un tono di voce rude e volgare: “Tu sei solo un buco per me, non guardarmi così, spostati sgualdrina! Un giorno ti punterò la rivoltella e diventerai santa”. Me lo disse facendo una risata demoniaca e sguaiata, poi si diresse barcollante verso la cucina e vomitò nell'acquaio. Del resto, conoscevo il suo rituale, non c'era più niente da indovinare. Tutto questo mi procurava una grande agitazione, il suo ritorno diventava un incubo. Sarebbe stato troppo banale pretendere che potesse cambiare all'improvviso. In lui, anche nella nostra prima conoscenza, avevo notato che c'era qualcosa di strano. A tratti, per delle inezie, reagiva in maniera violenta, ne rimanevo interdetta, balzavo in piedi, pur tuttavia non riuscivo a sbarazzarmi di lui, ne avevo un sacro terrore. I suoi gesti aggressivi senza alcun senso, all'inizio li giustificavo immaginando che sarebbe arrivato il momento giusto per fermarlo e renderlo più umano e così tutto passava in secondo piano. Quando lo sposai ero ancora giovanissima.
Ci eravamo trasferiti a Parigi nel 1919 ed eravamo andati ad abitare in un piccolo appartamento arredato modestamente, posto all'interno di un palazzo d'epoca, ubicato nel boulevard de Strasbourg. Dopo quindici anni di schiavitù, avevo perso interesse per la vita e avevo terrore di Lucien: beveva ed era diventato violento, non aveva mai un soldo, perché spendeva tutto con le donne. Ormai per lui ero solo una geisha e niente di più. Era il mese di ottobre del 1934, una data che non scorderò mai. Il sabato sera solitamente si usciva insieme per incontrarci con una coppia di amici per trascorrere la serata in qualche caratteristico ristorantino. Si faceva giusto per stare insieme qualche ora, alla fine, chi pagava per Lucien, ero sempre io, grazie ai miei genitori che puntualmente mi mandavano un'esigua somma per aiutarmi. Quel sabato, a metà pomeriggio cambiai idea. Per la prima volta fui coerente con me stessa. In tutta fretta indossai un tailleur di tessuto nero di lana leggera, delle scarpe comode e preparai una valigia abbastanza capiente, infilandoci tutto ciò che mi sarebbe servito.
Attraversando il corridoio, Lucien udì il suono dei miei passi, si alzò dalla sedia e balzò fuori dal suo studio. Rimase sorpreso nel vedermi già pronta per uscire, per di più con la valigia in mano.
Lui era l'abisso della miseria umana, nascondeva agli sguardi del mondo il suo sfacelo interiore, la sua debolezza, la sua decadenza, la sua vita falsa, il suo culto per il vacuo, l'amore per l'artificio del truffatore, per il vizio e per il rischio. Si sentiva un artista, ma le sue creazioni proiettavano la sua anima lercia: erano assurde e improponibili, erano il segno della sua incapacità artistica. Il mio imperativo era andar via e abbandonarlo al suo destino. Non era pensabile che ancora così giovane dovessi annullarmi, immolarmi a un tale essere che mi stava conducendo nel suo baratro infernale. I miei sentimenti si stavano raggelando, imbrigliando e paralizzando.
L'amore non può essere asservito. È ardore, passione febbrile. L'amore batte i denti, ma non demorde, è simile alla follia, pieno di sbalzi, sconclusionato, è una continua tensione dell'anima. Non può essere imprigionato. È straordinariamente libero. Sì, l'amore è libertà.
Io cercavo le ali per rendere concreto questo sogno di libertà, ora le avevo trovate per rinascere e non sentirmi più una donna a metà. Mi gridò con violenza: “Dove vai?” Mi fece cenno d'indietreggiare, mi scrutò turbato evitando d'incrociare il mio sguardo. La sua espressione era quella di un uomo che avesse visto per la prima volta una sconosciuta, capitata lì per caso. “Virginia, ma stai bene?” Non risposi. “Mi puoi dire cosa ti sta passando per la testa? Ah, capisco, sempre i tuoi soliti misteri. Temo che tu sia proprio pazza!”
Me lo disse con brutalità. Intuii che stava già degenerando.
“Che intenzioni hai?” continuò, ma questa volta usò un tono più alto della voce. Era così abituato al mio servilismo e alla mia passiva rassegnazione che tutto questo a lui appariva sconcertante.
Scosse il capo nervosamente, contrariato e guardandomi con occhi di fuoco, aggiunse gridando come se volesse stritolarmi: “Ma sai almeno dove andare?” Provai un brivido di terrore. Per un attimo ammutolii ascoltando il ruggito della belva, ma non mi lasciai atterrire. Ogni suo tentativo di volermi divorare sarebbe risultato vano. Ero risoluta ad abbandonarlo al suo destino.
“Sì, Lucien. Torno dai miei genitori. Vado in Italia. Ho tutta la vita davanti a me, voglio ritagliarmi i miei spazi, ritrovare me stessa e ciò che mi è mancato in tutti questi anni dedicati a te”.
“Immagino... sì, avrai mille cose da fare”, mi rispose sogghignando. “Avrai bisogno di denaro?” Me lo chiese con aria di scherno facendo finta di estrarre il portafoglio, oltretutto vuoto.
Inghiottii la saliva e con gli occhi pieni di collera gli risposi: “Non so cosa farmene!”
“Ah, sì? Vedrai, vedrai, quando resterai sola... Virginia vai pure, vai pure. Maledetto il giorno che t'incontrai!” ringhiò furioso. Poi si rivolse nuovamente a me, proteso in avanti, quell'uomo alto e tarchiato, aveva già sollevato le grosse mani minacciandomi: “Guarda, non mi sfuggirai!”
Lo guardai con aria di sfida e lo salutai come se fossimo due estranei e uscii sbattendo il portone.
Mi ritrovai finalmente libera nel vasto boulevard che portava alla vecchia stazione. Era autunno, le chiome degli alberi cambiavano veste e dipingevano la città di gialli dorati, vivaci arancioni e rossi fiammeggianti. Un viavai di macchine luccicanti che, come un fiume, si snodavano lungo il vasto viale alberato. Evitando di perdere tempo procedevo affannata con passo spedito. Sentivo fortemente l'urgenza di liberarmi di lui e raggiungere al più presto la stazione ferroviaria Gare de l'Est.
Ogni tanto mi capitava di affondare i piedi in piccole pozzanghere e di essere schizzata di fango dalle auto che nel traffico tumultuoso mi passavano accanto. Ero immersa nei miei pensieri, sentivo ancora il dolore della stretta di mano di quell'uomo spregevole, devastato da tutti i vizi. Lo detestavo. Era diventato padrone dei miei pensieri e del mio corpo.
Quanta vita mi aveva rubato...
Il mio intento era non vederlo più, eravamo come il fuoco e l'acqua. L'unica soluzione per non autodistruggermi era stata questa: prendere le distanze e andar via lontano.
Con i capelli scompigliati, affaticata e imbrattata di fango, mi ritrovai all'interno della fumosa stazione che brulicava di gente. Su una parete della sala d'aspetto spiccava un gigantesco orologio che segnava le sedici. Il tempo fuggiva e io fuggivo da me stessa. Parigi mi sarebbe mancata, ma lui no. Senza pensarci troppo, feci il biglietto per Vienna. Salii sul treno e mi abbandonai disperata in lacrime sul primo sedile dello scompartimento di prima classe. Non vidi alcun passeggero. Dominava uno sgradevole odore di zolfo. Dopo un po' mi aggrappai al finestrino e guardai il cielo che era diventato nuovamente scuro. In lontananza la città riluceva di un grigio metallico. Era comunque favolosa.
“Le converrà spostarsi dal finestrino. Il treno sta per partire e la densa caligine della locomotiva sciuperà il suo bel viso”.
La carrozza pochi istanti prima era vuota. Mi voltai sorpresa, trattenni il fiato e i nostri sguardi s'incrociarono. Era un signore di mezza età, alto, longilineo, elegante, con una silhouette invidiabile. Aveva i capelli brizzolati, un naso leggermente aquilino, occhi verdi penetranti, un viso dai tratti raffinati e una voce affascinante che si accordava con tutto il resto.
Scrutai il suo viso e non risposi. I suoi occhi chiari e magnetici mi fissarono con insistenza e in modo imbarazzante. Pensai a com'ero conciata. Ero impresentabile in quelle condizioni. Quell'uomo sconosciuto, noncurante della mia scorrettezza, si tolse il cappello e lo posò sul sedile, accanto a sé, sfilò il cappotto grigio di lana di buona foggia, lo ripiegò e lo sistemò ordinatamente sulla cappelliera. Pareva contrariato, il suo viso mostrava i segni di una vaga inquietudine. Si sedette appoggiato allo schienale, allungò le gambe, inforcò gli occhiali e si mise a leggere. Il capostazione fischiò e il treno partì lentamente con un fortissimo stridore di rotaie.
Mi sbarazzavo di Lucien. Finalmente volavo, ma ero anche conscia che tutto questo sarebbe stato solo un piacere immediato, una felicità effimera. Mi sentii selvaggiamente pervasa da una strana percezione di conquista, avevo vinto una difficile partita con la vita. Ero viva e potevo ancora sfidarla. S'impadronì di me una sicurezza interiore.
Feci finta di guardare fuori dal finestrino, ma incominciai a interessarmi a quell'uomo. Lo scrutavo sottecchi, non mi sfuggiva niente, notavo persino l'impercettibile movimento delle palpebre, visto che stava seduto di fronte a me. Lui sollevò il viso, mi osservò attentamente, si reclinò sul giornale, poi riprese a guardarmi e per rompere il gelo cercò di trovare dei pretesti per coinvolgermi: “La capisco. Parigi è Parigi, non la cambierei con nessun'altra città al mondo. Io mi sto recando a Vienna, dove ho il mio studio”. Fingendo compostezza, a occhi bassi, riuscii a dividermi dai miei pensieri e imbarazzata proruppi: “Che strana coincidenza, anch'io vado a Vienna, sarà la mia prima tappa!” Subito dopo, m'invase un'angosciosa malinconia; mi adombrai e soggiunsi abbassando la voce: “Poi proseguirò il mio viaggio, se non morirò prima...” Una lacrima mi scivolò sulla gota, tentai di cancellarla prontamente con la mano, ma a lui non sfuggì. Sfilò una sigaretta dal pacchetto con le sue eleganti mani sottili, con la rapidità di un prestigiatore che volesse con quell'atto calmare le mie pene, me la offrì visibilmente preoccupato. Dalle sue labbra pallide, prima delle sue parole, uscì un filo di fumo lento e serpeggiante, poi il suo mozzicone lo schiacciò lentamente nel portacenere di ottone. Il suo sguardo si fece vivo, amabile e interessato.
Ci fu un breve silenzio, intanto mi osservava e notò il mio lieve tremito delle mani.

Elvira Lembo

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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