Floris, la sfiga non va mai in vacanza
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Il mio nome è Floris, Floris e basta. Non insistete, non pressate, non vi accalcate. Non sprecate inutilmente fiato perché, qualsiasi cosa facciate, dalle mie labbra non uscirà fuori neppure una sillaba. Non sono uno di quelli che si sbottona facilmente, uno che si imbroda vantando le sue epiche gesta in cambio di un complimento o di una pacca sulle spalle. Io sono una tomba, un osso duro, una roccia. E quando hanno provato ad estorcermi informazioni, riempendomi di calci e pugni fino a spezzarmi le ossa, beh, io non ho ceduto, non mi sono arreso, non ho detto null'altro che nome, grado e numero di matricola. Con me, neppure la tortura ha attecchito. Probabilmente qualcuno di voi si starà chiedendo come sia possibile che io resista ad ogni forma di violenza senza fiatare e, magari, qualcun altro, penserà che io non sia altro che un fanfarone che si è inventato questa storia solo per farsi bello con qualche biondona svaporata. Ma non è così. La verità è che io soffro di analgesia congenita, il che, ve la faccio breve, vuol dire che sono insensibile al dolore: non avverto il freddo, non avverto il caldo, non sudo. Nulla. Forte, eh? Certo, le ossa si spezzano lo stesso, i lividi e gli ematomi fanno di me un essere maculato, i denti saltano che è una bellezza, ma non avverto nessun dolore. E questo, sotto un certo punto di vista, è una fortuna, ma, nel contempo, è anche una grandissima fregatura. Immaginate la scena: Roma, via Gaeta, nei pressi della Biblioteca Nazionale. Mi avevano dato la dritta su di un paio di agenti russi che facevano il triplo gioco. Fingevano di fare del controspionaggio per noi ma, in realtà, erano fedeli alla Madre Patria fino al midollo. Li becco mentre consegnano informazioni riservatissime ad un loro complice nel bar di Gino “il cornettaro”. Mi avvicino con nonchalance, gli mostro il tesserino, e dico qualcosa del tipo “La zona è circondata bastardi. Arrendetevi senza fare resistenza se non volete trovarvi in un letto d'ospedale senza pigiama e senza spazzolino nel giro di cinque minuti”. Il tempo di accendermi una sigaretta in modalità Humphrey Bogart che quei due, per nulla impressionati dalle mie parole, mi presero in contropiede e mi narcotizzarono per bene con una bottigliata in testa. Sicuramente una Peroni da 3/4, dato che Gino “il cornettaro” non ha mai trattato altro. I russi avevano subodorato subito che ero entrato nel bar solo come una particella di sodio nell'acqua Lete, e avevano colto al volo l'occasione per darmi una lezione di modestia. Mi svegliai, poco dopo, in uno stanzone senza finestre. Uno dei due energumeni mi stava trascinando sul pavimento tirandomi per i capelli, con il rischio di farmi uno scalpo, talmente ben fatto, da fare invidia a quello di un Sioux. Mentre ero ancora un po' intontito per la botta in testa, i russi mi legarono ad una sedia e presero a schiaffeggiarmi con uno straccio bagnato, Erano convinti che nel giro di qualche minuto mi sarei arreso chiedendo pietà. Ma non successe perché, per uno come me, che soffre di analgesia cronica, quelle non erano sventole, ma carezze. Durante il pestaggio, annoiato, sbadigliai un paio di volte lasciandoli increduli, a bocca aperta. Non emisi un gemito neppure quando, uno dei due, incitato dall'altro, si improvvisò pugile e iniziò a tempestarmi la faccia di pugni come se fossi un punciball. Ma io sono un duro, uno tosto, uno che non si impressiona alla vista del sangue, per cui, più me ne davano, e più ridevo. A un certo punto, sempre più annoiato, mentre uno dei due mi faceva scivolare dell'olio bollente lungo la schiena, gli chiesi se per caso avesse informazioni aggiornate sul meteo, dato che avevo una pupa sottomano e volevo portarla al mare nel weekend. I russi, sudati come bestie, esasperati dalla mia strafottenza, alzarono ancor di più l'asticella: prima mi spensero una sigaretta sulla lingua, poi mi tagliuzzarono il volto con un coltello a serramanico e, infine, dopo avermi frantumato le dita della mano destra con un martello, minacciarono di cavarmi gli occhi per darli in pasto al pesciolino rosso che avevano vinto alla giostra la sera prima. E lo avrebbero fatto sicuramente se non fosse intervenuta la governante dell'ambasciata, urlando, stizzita, che le macchie di sangue non vanno via facilmente dal pavimento, e che se non la smettevano immediatamente di insozzare la sala delle torture, lei si sarebbe licenziata in tronco. Solo così riuscii a salvarmi la vita. Di fronte alle efferate minacce di una donna delle pulizie, anche i criminali più spietati ammutoliscono e abbozzano. D'altronde, si sa, di questi tempi c'è penuria di personale di servizio, e se hai una colf che riga dritto, devi tenertela stretta. Patti chiari e amicizia lunga, quindi. Niente domande. Su questo non transigo. Certo, resta sempre il problema di come passare le ore che ci separano da qui alla fine del libro, per cui, se mi promettete di non rivelare a nessuno quel che vi dirò e - soprattutto - di non postarlo su Facebook, vi racconterò ugualmente la mia storia senza nascondervi nulla, mettendomi completamente a nudo incurante degli spifferi e della temperatura glaciale di questi giorni. So di poter contare sulla vostra discrezione e sul vostro silenzio perché questa non è una storia qualsiasi, bensì il resoconto di quella volta che salvai il Presidente del Consiglio Pier Lusconi, e il Governo, da uno scandalo sessuale di dimensioni ciclopiche. Allora, cosa aspettate? Mettetevi comodi, prendete un toast, dei biscotti, delle patatine fritte e qualcosa da bere, perché ne avremo per 200 pagine. Pronti? Sì? E allora andiamo. DUE COSE SUL DESTINO
Non si può certo dire che la mia vita sia stata tutta rose e fiori. E se lo è stata, non me ne sono accorto. Forse sarà perché le rose le ho sempre prese dal gambo nel punto preciso in cui le spine avevano la meglio sulle mani, o forse perché le ho colte sempre nella stagione sbagliata. Inutile negarlo, a dispetto del mio nome, non ho affatto un buon ricordo delle mie esperienze floreali. Comunque, non mi lamento. Non sono il tipo che si lagna, che borbotta, che bofonchia, che frigna... gne gne gne. Io sono un duro, e so bene che non si può pretendere che tutto fili sempre liscio come l'olio. E questo, forse, è anche un bene, perché sull'olio si finisce spesso per scivolare e farsi male. Lo dico per esperienza. E chi ha letto “Floris e il mistero dell'Olio di Gomito Paoloni”, lo sa bene. Se la mia vita non ha girato sempre e ai massimi livelli non è certo per colpa mia, ma per colpa di un destino infame scritto con i piedi da qualche scribacchino part time, assunto per pietà dal Padreterno. Un nullafacente raccomandato dai servizi sociali, un incompetente che ha dato alle stampe un futuro in brutta copia, pieno di errori e sviste, buttato giù in fretta poco prima della fine dell'orario di lavoro. Proprio di questo discutevo, qualche tempo fa, al bar di Gino “il cornettaro”, con un tale che sosteneva - in modo assai irritante - che il destino avverso non è altro che la scusa degli incapaci, e che siamo noi, e noi soli, a scrivere il nostro futuro sulla lavagna della vita. Col cazzo! Mentre stendevo a terra il tizio con un'abile mossa di judo, e gli modificavo i connotati con i miei scarponcini militari appena risuolati, cercai di fargli capire, con tutta la grazia di cui dispongo, che quando lui si era scritto il futuro da solo sulla lavagna della vita, forse, per mancanza di spazio, aveva saltato la pagina in cui il suo futuro incontrava il mio. L'autodeterminazione, amici miei, è una grandissima puttanata: nella vita bisogna sempre fare i conti con l'oste. E non solo con l'oste, ma anche con il salumiere, il direttore di banca, l'amministratore di condominio, l'ufficio delle imposte dirette, l'azienda del gas, la moglie, i figli... per non parlare dei nemici, che non mancano mai. Cercando di non sporcarmi il pantalone fresco di lavanderia, con gli schizzi di sangue che provenivano dal naso di quel miscredente, con una serie di pedate sulla nuca, mi sforzai di fargli comprendere che nella vita puoi provare a diventare astronauta, cuoco, gendarme o medico condotto, ma questo succederà solo se è scritto nel tuo destino. E cosa c'era scritto nel suo destino, quel bellimbusto, lo avrebbe scoperto solo a fine corsa, quando - rendendo l'anima a Dio - avrebbe potuto finalmente fare il bilancio della sua vita. Io, invece, il mio destino lo conoscevo già a menadito, perché nella vita è solo questione di fortuna e io, di fortuna, ne ho sempre avuta poca. Chissà quante volte avrete sentito qualcuno citare il detto “sfortunato al gioco, fortunato in amore”. Beh, io rappresento quella rara eccezione di uomo sfortunato bipartisan, sfortunato su tutti i fronti, tanto al gioco, quanto in amore. Uno sfigato, direte voi, ma vi sbagliate. Il vero problema, è che ho Saturno contro. E non solo quello. Ho contro di me il mondo intero. Ma sono un duro, cazzo, e per questo né mi arrendo e tantomeno mi lamento. Gioventù bruciata
Non sono stati i miei genitori a insegnarmi come affrontare la vita, e tantomeno è stato merito mio se sono diventato ciò che sono. Sono un figlio di nessuno. E i figli di nessuno, i trovatelli, come si usa dire tra la gente bene, non godono di libero arbitrio e non decidono del proprio futuro. Lo subiscono e basta. Il mio destino era già scritto e protocollato sin dalla mia venuta al mondo: sarei cresciuto recluso in un orfanotrofio e ci sarei rimasto fino alla maggiore età. La parola “recluso” vi è sembrata troppo forte? Beh, non lo è affatto. Se pensate che lo sia, è solo perché siete cresciuti in una famiglia normale, liberi di entrare e uscire di casa a vostro piacimento, liberi di scegliere cosa mangiare, cosa vedere in TV, di alzarvi o di andare a letto solo quando ne avevate voglia. In un orfanotrofio, invece, non si esce affatto, si mangia quello che c'è senza discutere, non si vede la TV e ci si alza e si va a letto a comando. Per quanto possa sembrarvi incredibile, l'unica differenza tra Orfanotrofio, Riformatorio, Galera e Manicomio, sta nella lettera iniziale del nome: una bella O, per Orfanotrofio, una R per Riformatorio, una G per Galera e una M per Manicomio. Tra i tanti disponibili su piazza, il destino scelse per me l'Istituto Crocifissione di Cristo Martire nella benedizione di Madre Maria Santissima e del Padre suo Celeste Altissimo, mettendomi sotto la tutela di don Genuflesso Catechismo, che mi fece da padre, madre, zio e nonno. La vita, all'Istituto Crocifissione di Cristo Martire nella benedizione di Madre Maria Santissima e del Padre suo Celeste Altissimo, era scandita da regole ferree e immutabili. Trasgredirne anche una sola, voleva dire bacchettate e punizioni corporali da parte delle adorabili suor Crocifissa e suor Confessionale, che costituivano la task force di Don Catechismo. Personalmente, di quelle punizioni corporali, ne porto ancora orgogliosamente i segni. Non posso mostrarvi le ferite solo perché, in questo libro, per questioni di tirchieria dell'editore, non ci sono figure. Ogni “santa” mattina, incominciava con la sveglia delle sette, ovvero il leitmotiv di Jesus Christ Superstar, un film del 1973, che veniva sparato negli altoparlanti con una distorsione che neppure Jimi Hendrix era riuscito a raggiungere, a Woodstock, con la sua Fender Stratocaster e i suoi amplificatori Marshall. Non appena la canzone terminava, dovevamo scattare in piedi, rifarci la branda, recitare le preghiere ed infine andare in bagno, dove si accedeva rigorosamente in ordine di arrivo. La mia incontinenza infantile mi fu di grande aiuto, e mi spinse a traguardi sempre più alti, e prestazioni sempre più efficienti, per arrivare all'agognata meta prima di cacarmi sotto. Le docce, invece, erano un terno al lotto. Ce ne spettava una a settimana, a turno. E se mancava l'acqua - come spesso mancava - o non funzionava lo scaldabagno, erano affari tuoi: se ne parlava la settimana dopo. La colazione, fatta tutti insieme su una lunga tavolata senza tovaglia, consisteva in due fette biscottate con un velo di marmellata di mele, un caffellatte annacquato, e un quarto d'ora di preghiere assortite del tipo “Signore ti ringrazio di qua... Padre nostro di là” e amenità del genere. Poi, i sorveglianti ci portavano nelle aule. Durante le ore di lezione, in cui ci era proibito parlare, (e io ero talmente bravo che lo facevo anche durante le interrogazioni), il nostro unico pensiero era rivolto al pranzo. Non si resisteva a lungo con solo due fette biscottate e un velo di marmellata in corpo. E quando suonava la campanella, il nostro urlo di gioia eguagliava, se non addirittura superava, quello dei più vivaci Hooligans irlandesi quando la loro squadra del cuore, segnava il goal decisivo in un tesissimo derby. L'entusiasmo, comunque, si sgonfiava quando gli occhi si posavano sui piatti appena serviti e che, il più delle volte, consistevano in un brodino vegetale con verdure di ignota specie e natura, una mela, e un tozzo di pane a testa. Raramente c'era, come dolce, il panettone. Prevalentemente d'estate. Solo quelli che tra noi riuscivano a diventare chierichetti, avevano la possibilità di ingraziarsi don Catechismo, e sperare di ottenere pasti e condizioni di reclusioni meno severe. Avete presente i pentiti di mafia? Ecco, una cosa del genere: tradivamo i compagni per ottenere dei benefici. All'epoca, oltre a me, la squadra dei chierichetti era costituita da Ciro Prezzemolo, detto Banana, Nino Mollichella, detto Miniatura, e da Rudy Malandrino, al quale non si poteva dire niente senza ricevere un diretto sul naso.
Gioacchino Rosa Rosa
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