La smemorata di Madison Street
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Liam e sua figlia Emma cominciavano a essere seriamente preoccupati. Era il primo di Marzo, Sophia era uscita da casa nel primo pomeriggio e non era ancora tornata. Ormai era passata anche ora di cena e non rispondeva neanche al cellulare. Liam continuava a girare ansiosamente intorno al tavolo apparecchiato per loro tre con la cena ormai fredda e il vino che, invece, si era riscaldato alla temperatura mite della stanza. Nel camminare ansiosamente per la sala provando a chiamare tutti i loro contatti, per sapere se avessero notizie della moglie, aveva surriscaldato il cellulare. Il telefono aveva la batteria quasi scarica del tutto ma, non avendo più numeri da chiamare, l'aveva scaraventato sul tavolo con un gesto di stizza e aveva preso a divorare sigarette una dietro l'altra riempiendo la sala di fumo. L'orologio a pendolo, in bella mostra sul muro, sembrava andare di fretta e segnava già le 21,30. L'assenza di Sophia, per così tanto tempo, senza fare una telefonata oppure informarli dei suoi movimenti, non era concepibile, non era mai successo. Emma ebbe uno scatto di nervi. «Papà, per favore. Vuoi smetterla di camminare? Siediti da qualche parte. Mi stai innervosendo ancora di più.» Emma aveva terminato tutte le unghie da mangiare e le punte delle dita cominciavano a sanguinare. Liam pensò che fosse arrivato il momento di iniziare il carosello delle telefonate agli ospedali per capire se fosse accaduto qualcosa di grave quando il campanello della porta lo distolse, all'improvviso, dai suoi pensieri. Il trillo del campanello fece sobbalzare Emma dal divano. Lei e Liam si guardarono negli occhi con un'espressione di sollievo e preoccupazione. Liam, come liberato da una catena che gli stringeva stomaco e cuore, corse verso la porta esclamando: «Finalmente, ma che diavolo sarà successo?» Corse alla porta chiedendosi perché Sophia non avesse usato le sue chiavi per entrare. Aprì la porta pronto a scaricare nervosamente tutta la sua ansia sulle spalle della moglie quando si ritrovò davanti due agenti della stradale che lo guardavano con aria grave. «Che succede?» chiese con il cuore che gli era salito in gola. I due poliziotti si tolsero il cappello in segno di rispetto, poi uno di loro chiese: «Parliamo con il signor Moore?» La voce indistinta e inespressiva dell'agente non concedeva nulla in cui poter sperare. «Sì, sono io. Mi dite che cosa succede?» «Sua moglie Sophia ha avuto un incidente. È stata portata al Presbyterian Hospital di Mayne City. Se vuole, possiamo accompagnarla noi.» Fu un attimo e il buio avvolse gli occhi di Liam. Solo pochi mesi prima, il loro secondo genito Alex era morto, a sedici anni, per overdose e, questo, aveva gettato tutta la famiglia nella disperazione. Liam pensò che se avesse perduto anche Sophia non avrebbe saputo come continuare a vivere. Emma, che aveva accompagnato il padre alla porta, ritrovato il fiato si fece uscire un urlo dalla bocca che scrollò Liam dai suoi pensieri: «Papà, andiamo, presto.» L'auto della Polizia Stradale partì precedendo quella di Liam. Con le luci intermittenti accese, percorreva nella notte, a velocità non eccessiva, la strada che portava da casa dei Moore, una villetta in Madison Street di Strawberry City, al Presbyterian Hospital di Mayne City seguita dall'auto di Liam pressoché incollata al suo paraurti. Le luci dei lampioni scorrevano sul parabrezza dell'Honda Concerto come lucciole ordinate in fila indiana, tutte indirizzate alle loro spalle, mentre i fari delle loro auto illuminavano la strada che iniziava a luccicare per l'umidità della notte che stava calando. Padre e figlia, con gli occhi fissi sulla volante della Polizia, non parlavano. Le menti, sovraffollate dai pensieri, si sforzavano di esorcizzare qualsiasi previsione funesta, ed era uno sforzo enorme. La Pilgrim Road scorreva sotto i loro occhi mostrando la vita notturna di Strawberry City. Le vetrine illuminate cercavano di trasmettere alle persone, in cerca di qualche ultima spesa, quel senso di allegria fuori posto nella testa di Liam ed Emma. Alla fine della Pilgrim Road iniziò la zona rurale fuori la periferia della città e, poco dopo, il cartello di Mayne City, una cittadina maggiormente servita dalle attrezzature pubbliche come il Presbyterian Hospital, dava il benvenuto. Grazie allo spartitraffico generato dalla volante, arrivarono all'ospedale in breve tempo. All'accettazione, un'infermiera con il camice immacolato dette loro le indicazioni per trovare Sophia e, quando arrivarono al reparto, in prossimità della stanza, i cuori di Liam ed Emma avevano quasi cessato di battere per la preoccupazione. Si guardarono negli occhi come per darsi coraggio l'un l'altra ed entrarono in silenzio come se avessero paura di disturbare. La stanza era in penombra come a voler rendere più piacevole il riposo della degente. Un debole neon sul muro, appena sopra la spalliera del letto, faceva intravedere una serie di macchinari che, per fortuna, non stavano servendo. Sophia era adagiata nel letto con la testa fasciata. Le lenzuola di colore azzurro contrastavano con la sua carnagione chiara e sembravano voler modellare quel corpo armonioso coperto dal seno in giù. Quando il medico seppe che erano arrivati, corse subito loro incontro. Liam ed Emma uscirono dalla stanza per parlare col medico più liberamente. «Sua moglie non è in pericolo di vita.» Queste erano le parole più belle che potessero sperare di sentirsi dire. «Però ha subito un lieve trauma cranico.» «Che significa?» chiese Emma. Liam, ormai, non aveva più fiato né forza per parlare. «Da un primo esame, sembra non ci sia nulla di grave. È in stato confusionale ma la TAC è negativa per cui aspettiamo che passino ventiquattr'ore per vedere se ci sono complicazioni. C'è ancora da dire che, visto il quadro clinico generale, pensiamo che possa essersela cavata piuttosto bene perciò abbiamo deciso di sedarla leggermente per farla riposare. Prima che la scorgessero e arrivassero i soccorsi, è passato un po' di tempo e adesso deve riprendersi dallo stress. Domani mattina potrete anche parlare con lei senza problemi.» Liam ed Emma ringraziarono Dio e cominciarono a distendersi un po'. Dopo una mezz'ora, avvisati da Emma, arrivarono anche zio James, fratello maggiore di Sophia, e sua moglie Caroline, “Line” come la chiamavano tutti. Quella di James e Sophia era sempre stata una famiglia molto unita e l'idea che fosse potuto capitare un incidente di quel genere alla sorellina mandava James nel panico. Liam lo informò subito di ciò che aveva detto il medico e, da quel momento, cominciò l'alternarsi delle loro presenze al capezzale della donna. Il giorno dopo, Sophia si svegliò sentendo due mani che accarezzavano dolcemente la sua. Aprì faticosamente gli occhi appesantiti dai sedativi trovando tutti intorno a sé. Emma era già seduta sulla sponda del letto che le teneva le mani e fu la prima ad abbracciarla. La stringeva piano, con delicatezza, ma tremava come una foglia per lo spavento preso. Sophia, ancora intontita per l'incidente e per i farmaci, abbozzò un tenero sorriso. Poi, all'improvviso come risvegliandosi da un incubo, sgranò gli occhi e saltò seduta sul letto gridando: «Alex!» «Calma tesoro. Che cosa c'è?» Liam la tenne dolcemente per le spalle facendola, di nuovo, sdraiare. «Alex è morto.» Gli occhi persi nel vuoto di Sophia fecero sprofondare Liam nella disperazione. «Sì amore, è morto. Cinque mesi fa.» Liam prese dolcemente il volto della moglie tra le mani pregandola di non agitarsi. «Hai avuto un trauma, stai tranquilla. Vedrai che un po' per volta si aggiusterà tutto.» Il tono dolce di Liam riuscì a calmarla ma, di fatto, Sophia non ricordava più nulla dal giorno della morte di Alex fino al momento dell'incidente. Il medico, allertato da un'infermiera, passò subito a visitarla. Per fortuna nulla di grave, le fecero gli esami di routine e, dopo qualche giorno, la rimandarono a casa. Il trauma le aveva causato un'amnesia che le aveva cancellato dalla mente gli ultimi mesi di vita. Una volta rientrati nella pace familiare della loro villetta, a nord di Strawberry City, e nella sicurezza di potersi lasciare tutto alle spalle, Liam chiese a Sophia se ricordasse cosa fosse successo. La Polizia aveva detto che era uscita di strada ad una curva con l'asfalto bagnato. Poi l'auto aveva carambolato facendola sbalzare fuori dall'abitacolo ma non si sapeva niente di più. «Liam, caro, non riesco a ricordare nulla. Ho un vuoto che non riesco a spiegare.» Poi la notte, con la sua pace, sembrò chiudere dolcemente una brutta parentesi.
Le giornate, a Strawberry City, passavano apparentemente tranquille. La primavera stava prendendo con lentezza il posto dell'inverno portando le prime fioriture. I viali alberati di Madison Street si stavano rivestendo di colori mentre gli abitanti ricominciavano a uscire da casa con quella voglia di vivere che l'inverno, a volte, riesce un po' a smorzare. Anche il giardinetto di casa Moore cominciava a riempirsi di fiori. Le piante di rose cominciavano a cacciare teneri boccioli rossi o bianchi mentre l'acero giapponese, piantato tra la casa e il cancello d'ingresso della villetta, faceva l'ombra che, più avanti nei mesi, avrebbe regalato il fresco sulla zona attrezzata con il barbecue. Dentro la villetta, però, l'atmosfera non era ancora completamente distesa. Emma, per stare maggiormente vicina a sua madre e aiutarla, aveva abbandonato momentaneamente il College a New York finché Sophia non si fosse completamente ristabilita. Per fortuna, la madre si stava ristabilendo velocemente nel fisico, tranne che per la memoria. I medici avevano detto che le sarebbe potuta tornare in poco tempo ma, se così non fosse stato, avrebbe potuto prendere in considerazione l'ipotesi di essere aiutata da uno psicologo. Quel giorno Liam era al lavoro, Emma era uscita per fare un po' di spesa e Sophia era sola in casa. Oramai si sentiva abbastanza sicura della sua salute. Si era fatta una doccia prestando attenzione alla fasciatura che ancora le cingeva la fronte. La testata, data contro il parabrezza della sua Fiat Punto, le aveva lasciato una cicatrice, un ricordo che avrebbe portato con sé per sempre. L'avevano lasciata dormire a suo piacere per darle il tempo di recuperare le forze però, quando arrivò in cucina, c'erano da rimettere a posto i piatti usati e lavati da Liam ed Emma per la colazione. Poco male. In compenso le avevano anche fatto trovare, preparati al suo solito posto a tavola, i pancakes, le frittelle, burro e marmellata oltre al latte freddo. Qualcuno era anche andato al bar, vicino casa, a comprare yogurt ai cereali. Vedere queste cose le strappò un sorriso. Non si era mai sentita così coccolata. Fece scaldare il caffè mentre consumava, a piccoli morsi, una frittella con burro d'arachidi e marmellata pensando a come organizzare la sua giornata. Doveva sforzarsi di rientrare, piano piano, nella solita routine familiare. Quando il caffè fu caldo, prese il bollitore e si diresse al tavolo ma, girandosi, notò fuori la finestra della cucina, un giovane con una felpa nera con due bande rosse sui fianchi e un cappuccio che gli copriva parzialmente la testa. La osservava da dietro il muretto di cinta della villetta. Quella presenza spaventò profondamente Sophia. Chi era quel giovane e perché era fermo lì a guardare dentro casa sua? Trovato un po' di coraggio, Sophia riuscì ad aprire la finestra ma, ancor prima di poter dire qualcosa, il giovane le puntò il dito contro gridando: «ASSASSINA!» In quello stesso momento la porta di casa si aprì all'improvviso dietro di lei. Un urlo disumano uscì dalla sua bocca. «Mamma, che cosa succede?» Emma era appena tornata da fare la spesa. «Quel ragazzo.» Sophia non riusciva ad aggiungere una parola ma solo a indicare con il dito fuori dalla finestra della cucina. Emma corse alla finestra per capire cosa stesse accadendo. Scostò le tendine a vetro che coprivano le ante ma, fuori, non c'era nessuno. «Quale ragazzo?» chiese Emma. Sophia trovò la forza di correre, anche lei, alla finestra ma il ragazzo non c'era più. La sorpresa di ciò che era successo, più dello spavento per quell'accusa, aveva mandato Sophia in confusione. Sudava freddo e non smetteva di chiedersi chi fosse quell'individuo che l'era sembrato di vedere fuori la strada. Le gambe di Sophia sembravano non sopportare più il suo peso. Emma la aiutò a distendersi sul divano e le portò un bicchiere d'acqua. «Vuoi che chiami papà?» chiese allarmata. Quando si rese conto del trambusto che stava nascendo da quell'episodio, Sophia pensò che fossero state sufficienti le emozioni provate fino allora e che non era il caso di far nascere altri problemi. Si sentiva quasi in colpa per l'agitazione che stava trasmettendo a sua figlia. «No, ti prego. Deve essere stata una svista» si affrettò a dire a Emma. «Non chiamarlo, non voglio che si preoccupi inutilmente.» «Va bene.» Emma promise che avrebbe conservato il silenzio. «Però, se dovesse ricapitare, sarà meglio parlarne. D'accordo?» Un breve cenno della testa fece capire a Emma che per sua madre andava bene così. Sophia si sdraiò appoggiando la testa al bracciolo del divano. Sembrava si fosse tranquillizzata, ma solo in apparenza perché quel grido, “assassina”, l'aveva stranamente turbata. Perché le aveva fatto nascere quei sensi di colpa? Cosa si nascondeva in quei cinque mesi di vuoto nella sua mente?
Mario Giunti
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