The Alien Connection. La mia vita tra gli alieni
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Quella sera non riuscii a prendere sonno. Sam si era avvicinato a me ma lo avevo respinto con fermezza: avevamo appena sotterrato un amico, diamine! Si era girato silenziosamente sul lato senza un fiato ed era rimasto lì sdraiato fermo per un'ora e mezza o più, fino all'ora fatidica in cui si sedeva rivolto verso la finestra, che stavolta era chiusa con le tapparelle abbassate. Non gli importava se fosse aperta o chiusa, rimaneva comunque seduto là a fissare il vetro e la serranda. Ormai ci avevo fatto l'abitudine. Osservandolo in silenzio con gli occhi socchiusi nella penombra pensavo a ciò che avrei dovuto fare la mattina.
L'indomani mi alzai di buon ora e attesi il rumore dell'auto di Sam che si recava in ufficio. Dopo una doccia veloce, presi dall'armadio degli abiti casual e sneakers, uno zainetto che non usavo dai tempi in cui ero single e la chiave della mia auto. Ci volevano circa quaranta minuti per raggiungere l'indirizzo che avevo facilmente trovato e non avevo intenzione di correre, memore della fine che aveva fatto il povero Dennis, con cui non potevo fare a meno di identificarmi. Mi fermai lungo il tragitto per acquistare dei fiori e una bibita. Stavo per accendere il motore e partire ma mi fermai e, dopo pochi minuti di esitazione, decisi di tornare nel drugstore e acquistare un pacchetto di sigarette. Quanti anni erano che non ne accendevo una? Sam e la sua famiglia me le avevano vietate severamente e di questo ero sempre stata grata: liberarsi da un vizio è sempre una fortuna anche quando la decisione è presa da altri. Non avevo alcuna intenzione di ricominciare a fumare, ma stavolta avevo bisogno del sapore dei vecchi tempi spensierati. Mentre la accendevo sentii le mie membra rilassarsi e un mezzo sorriso si dipinse sulle mie labbra stanche.
Giunsi in un sobborgo curato con piccole villette di colore grigio-verde e ocra con piccoli giardini circondati da staccionate in legno smaltato. Una di queste, con grandi cespugli di rose chiare, era la casa dei P., i genitori di Dennis. Il cuore iniziò a battermi forte dopo aver posteggiato. Tirai un bel respiro prima di suonare il campanello cercando le parole che avrei detto alla famiglia disperata. Una colf giovane e simpatica mi accolse con gentilezza e mi portò nel salotto dove erano seduti i P., la loro figlia Sheila con il fidanzato Hektor e un uomo anziano e grassottello che si presentò come zio di Dennis. Porsi il mazzo di fiori alla signora e mi sedetti sul divano, a fianco di Sheila. Non mi offrirono nulla da bere ma compresi che non era mancanza di gentilezza, erano affranti e non si sentivano in vena di bere né di pensare ad altro che al loro dolore
La tensione era altissima, la sofferenza per la perdita del giovane Dennis riempiva l'aria e i minuti di silenzio tra le brevi frasi. Era una situazione gravosa eppure mi sentivo a mio agio, come in famiglia. Le persone con cui mi trovavo erano come me, anche se allora non avevo ancora acquisito la consapevolezza della differenza tra noi e loro. Ritrovai gli occhi di Sheila che mi avevano parlato silenziosamente, oggi erano pieni di gratitudine, avevo risposto prontamente alla sua chiamata. Il signor P., un uomo magro con un volto lungo e un'ampia stempiatura, teneva gli occhi a terra e mormorò rivolto a me “tu sei diversa”. Diversa da chi? “Un ambiente tossico. Il povero Dennis ne è rimasto vittima” disse la signora P. che somigliava in maniera impressionante alla figlia: entrambe minute, con capelli biondo cenere con meches più chiare, occhi verde nocciola leggermente a mandorla. Chiesi cosa fosse realmente accaduto e per quale motivo, la coppia non era mai sembrata problematica. “È complicato” proseguì il padre, “May non lo amava e la sua vita con lei era vuota, noi lo abbiamo compreso prima di Dennis ma speravamo che se ne facesse una ragione, che decidesse autonomamente di separarsi, non vale la pena di rovinarsi la vita per i soldi. Poi lei rimase incinta e credo che lui si sia sentito incastrato”. Tutto ciò aveva poco senso, Dennis era semplicemente andato a sbattere contro il guard rail, ogni giorno accadono migliaia di incidenti simili. Scelsi di non obiettare alle loro farneticazioni per non urtare la sensibilità di una famiglia in lutto. Decisi di andarmene e lasciarli al loro dolore, non sembravano in grado al momento di fornire spiegazioni che potessero dare un senso alla mia inquietudine. Abbracciai i genitori e Sheila e strinsi la mano dello zio mentre Hektor, un ragazzo sui venticinque anni magrissimo e alto, bruno con la carnagione olivastra e grandi occhi tondi marroni, si offrì di accompagnarmi alla porta. “Le sembrerà strano, ma i signori hanno ragione, ora è troppo complicato da spiegare. Però ci sono cose che lei deve sapere”, mi porse un biglietto da visita “non lo faccia trovare a suo marito. Sentiamoci la prossima settimana” e chiuse la porta dolcemente, con un mesto sorriso di saluto. Istintivamente inserii il biglietto in una tasca della borsa chiusa con una lampo.
Tornata a casa con più confusione di quando ero uscita sapevo di dover riprendere la routine quotidiana, custodire gelosamente il biglietto di Hektor per alcuni giorni e indossare il mio solito volto sorridente di fronte a Sam. Dovevo cacciare i molti pensieri dalla mia mente altrimenti sarei impazzita o avrei fatto notare il mio cambiamento. La signora Florencia sarebbe arrivata dopo pranzo per aiutarmi a sistemare la casa, mi preparai un panino farcito e spalmato di maionese, mentre i pensieri si affollavano nella mia mente e eventi o dettagli inosservati emergevano dal passato. Erano fatti che mi avevano colpita, a volte spaventata, ma che avevo scansato come intrusi dalla mia mente, tutta compresa come ero in una vita che non doveva avere difetti. Ricordi a cui non avevo voluto pensare per molto tempo ma che erano sempre lì, ben piantati nella mia memoria e pronti per esplodere.
Un giorno, un anno dopo il mio matrimonio, avevo incontrato in un supermercato la signora G., un'anziana ostetrica che aveva visto nascere la maggior parte dei residenti del posto. Mia sorella Jade a quel tempo lavorava presso una clinica e ogni tanto la incontravo quando andavo a prendere Jade in auto per accompagnarla a casa. La conoscevano tutti nella zona e godeva di grande stima, ne parlavano come di una persona saggia e affidabile. Era una donna corpulenta dagli occhi verdi e dai capelli corti biondo-grigio. Era ancora in servizio ed aveva assunto la direzione delle ostetriche del reparto, essendo lei la più anziana ed esperta. La salutai, lei si ricordava bene di me: la sorella della ragazza tanto simpatica che aveva lavorato per un paio di anni nella clinica. Ci fermammo a parlare e le offrii un caffè al bar del supermercato. Notò subito la fede al mio dito e mi chiese chi fosse il fortunato. Quando le risposi pronunciando il nome di mio marito, vidi il suo volto sbiancare, poi chiese “e... come ti trovi? Come è la sua famiglia?” Risposi che era tutto a posto e mi trovavo bene, mi lanciò un'occhiata obliqua con i suoi occhi taglienti che non compresi, ma non dimenticai mai. Poi disse che doveva tornare presto a casa e scappò via, senza finire il caffè. Quando si invecchia si perde un po' la testa, pensai.
Amber C
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