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Autore: Arsenio Siani
I delitti delle acquae calidae
Thriller Storico
Lettori 86
I delitti delle acquae calidae
Forlì, a. D. 1244

Guido Bonatti osservava l'orizzonte dall'alto della sua torre. Lo sguardo era fisso sulle onde del mare che, gonfiandosi come in preda a un'ira funesta, correvano poi verso la riva schiantandosi con un fragore tale da farne giungere l'eco fino all'entroterra. Il cielo era tuttavia limpido, il sole splendeva alto e non un filo di vento agitava i rami degli alberi o sferzava i visi degli uomini.
Un servitore spuntò da una porticina di legno attraverso cui si accedeva alla cima della torre e, con movimenti lenti, si avvicinò al suo signore.
“Signore” disse inchinandosi “sono venuto ad avvisarvi che il pasto è pronto.”
Trascorsero alcuni istanti durante cui il tempo parve fermarsi, Bonatti era immobile con le mani poggiate sul bordo del tetto e la fronte rivolta verso il mare mentre il servo rimaneva nella posa riverente, in attesa di ordini. Un gabbiano passò gracchiando sopra le loro teste e il suo movimento ruppe la staticità della scena ridando vita a quel contesto esiliato per qualche attimo dallo scorrere degli eventi.
“Signore?” Il servo prese coraggio e si raddrizzò per fare qualche passo in avanti. Posizionatosi alle spalle del suo padrone scrutò oltre una sua spalla per avere una prospettiva identica alla sua. “Capisco la sua inquietudine. Anche a me il mare, quand'è così arcigno, turba l'anima.”
Quella manifestazione di comprensione non servì a scuotere Guido dalla sua condizione. Rimase fermo come una statua per un tempo infinito fin quando il suo servitore, esasperato, si ritirò. Riscese la scala a chiocciola e raggiunse il primo livello della torre, occupato da un ambiente arredato come sala da pranzo. Al centro vi era un tavolo adorno di pietanze e con una brocca ricolma di vino nel mezzo. Accanto alla sedia vi era un altro servitore pronto a spostarla per consentire al padrone di sedersi. I due servi si scambiarono un'occhiata interrogativa accompagnata da una scrollata di spalle da parte di entrambi. Guido Bonatti, loro signore e padrone, celebre astrologo e astronomo ricercato per la sua bravura nel leggere e interpretare i segni negli astri per presagire il destino degli uomini assumeva spesso atteggiamenti bizzarri, talvolta in conseguenza dello svolgimento della sua attività di osservazione, altre volte semplicemente per stramberia caratteriale. Ricordavano bene la volta in cui perse la disputa con quel francescano, Ugo da Reggio, detto Ugo Paucapalea, che sosteneva la non scientificità dell'astrologia e apportava prove inconfutabili, basate anche sulle sacre scritture, dell'impossibilità di codificare il linguaggio delle stelle per individuare predizioni sulla vita umana. Guido Bonatti, per la vergogna dell'onta subita, decise di nascondersi e non farsi più vedere in città fin quando il suo rivale non si fosse deciso a ripartire. Abbandonati i suoi possedimenti, visse come un eremita per giorni, vagando per le campagne che circondano Forlì come un mendicante, in attesa di poter rimettere piede nelle sue proprietà. Tuttavia ebbe modo di scrollarsi di dosso la nomea di ciarlatano quando riuscì a farsi assumere come consigliere di corte dal condottiero ghibellino Guido da Montefeltro. Da allora riprese la sua attività con ancora più vigore, in cerca di quella rivelazione sensazionale che gli avrebbe spalancato le porte del mito e della leggenda, indicandolo come un profeta e un salvatore che anticipava una catastrofe dando così la possibilità di prevenirla.
Quel giorno l'animo di Guido Bonatti era attraversato da un'energia nuova che sembrava alimentata da una sorgente inesauribile, capace di colmare anche il più imperscrutabile e profondo degli abissi. Niente e nessuno riusciva a strapparlo da quello stato di vigile contemplazione, né la fame, la stanchezza, il sonno o gli inviti dei suoi servitori a ritirarsi nelle sue stanza e le domande dei visitatori che giungevano a chiedere consiglio. Nulla lo turbava, niente lo scuoteva da quella condizione.
Infine accadde qualcosa di talmente straordinario da non consentire a Guido il lusso dell'immobilità silente. Un urlo squassò l'aria costringendo la servitù a raggiungerlo sulla vetta.
Giunti sull'uscio i servi si stupirono di non riuscire a vedere la luce provenire oltre la sagoma della porta chiusa. Quando uscirono all'aperto la penombra stava inghiottendo paesaggi e lande nonostante il sole fosse ancora alto nel cielo. Guido intanto correva da un lato all'altro della torre, dimenandosi come un animale in trappola e indicando di tanto in tanto con un dito il disco dorato in alto che diventava sempre più buio. Un'ombra nera aveva cominciato a coprirne la superficie, fin quando un tondo nero sembrò sovrapporsi alla sfera luminosa, oscurandola del tutto. In un attimo le tenebre inghiottirono ogni cosa e dalle case in basso si alzarono urla di terrore e lamenti. Pallide stelle comparvero nel cielo, la cui luce giungeva da abissi ancora più oscuri di quelli che la notte più buia a memoria d'uomo avesse fatto comparire sulla testa dell'umanità.
“È la fine del mondo!” urlò uno dei servitori infilandosi le mani tra i capelli mentre l'altro, pallido e assorto, seguiva l'ombra del suo signore che si muoveva davanti ai suoi occhi. Un terzo servitore giunse finalmente a portare un po' di luce, stringeva in una mano un candelabro e indicava ai suoi compagni la via per discendere all'interno della torre. “Sciagurato!” urlò messer Guido, colpendo il suo servitore con un manrovescio e spegnendo immediatamente la candela, “la luce mi offusca la vista del cielo buio. Che nessuno porti altri lumi!” A quel punto tornò a sollevare lo sguardo e a far vagare lo sguardo da un punto luminoso a un altro. Nella sua mente calcolava distanze, individuava costellazioni cercando di memorizzarne l'esatta posizione in quel momento nella mappa celeste. Le sue labbra si muovevano impercettibilmente mentre contava il numero di stelle presenti in ciascuna porzione di cielo. Poi tornò nel punto in cui si trovava il sole, ridotto ormai a un flebile anello luminoso. Al di sotto di esso notò due astri più luminosi degli altri, che puntavano verso il meridione.
“Due! Che brillano ove sorge il libeccio!” Guido, ormai completamente preda di quell'inestinguibile frenesia, rovinò in terra e il suo corpo fu scosso da brividi non causati dal freddo bensì originati dall'emozione e dal presentimento di un indicibile orrore che stava per abbattersi su quella porzione di mondo.
La sfera nera infine iniziò a muoversi nuovamente e ridiede spazio ai raggi luminosi. Il sole sembrò sorgere di nuovo ma invece di farlo all'orizzonte arrise nuovamente alle terre dal punto più alto del cielo. Quella terribile oscurità svanì in pochi istanti, veloce com'era giunta. Guido, ridestatosi, scattò lungo le scale, scendendole due per volta con brevi saltelli, rischiando diverse volte d'inciampare nelle proprie vesti. “Arnolfo! Arnolfo!” Invocò il nome di un suo servo che subito giunse al suo cospetto, in attesa di ordini. “Procurami pergamena e piuma” ordinò mentre rovesciava in terra le vettovaglie che occupavano il tavolo. Ottenuto il materiale per scrivere si sedette e iniziò a versare fiumi di parole. I suoi occhi scintillavano di una luce folle mentre teneva la bocca piegata in un ghigno diabolico. Era, infine, giunta la sua grande occasione. Su quei fogli stava riversando la sua scoperta, una predizione sconvolgente destinata a cambiare il destino dell'umanità. Aveva letto nelle stelle il destino di un uomo illustre, un fato funesto che forse era in tempo a cambiare.
Quell'evento avrebbe cambiato la storia del mondo; Guido
Bonatti era il solo a saperlo e quella consapevolezza, benché ottenebrata dai timori di stare formulando un'eresia, lo fece sentire Dio.

L'ARRIVO

Toscana, Caldanelle, 1245

Nei pressi del torrente “Caldanelle”, in una località poco distante dalla Repubblica di Siena, sorgeva un abitato, poche mura delimitavano uno spazio occupato da viandanti che si recavano nel sito termale per curarsi con le acque la cui fonte era nei pressi e che donavano numerosi effetti benefici. In un'epoca in cui la scienza medica era poco evoluta i dottori molto spesso suggerivano ai propri pazienti di sfruttare le riconosciute doti guaritive di quelle acque per curare svariate malattie, dalle infezioni cutanee ai dolori articolari fino ad arrivare alla sterilità femminile.
Le acquae calidae che sorgevano nei pressi del borgo di Pari, sull'antica strada che conduceva fino a Grosseto e al mare, erano celebri in tutta la zona per la loro efficacia nel curare malanni quali reumatismi o gotta. Tra i boschi che si estendevano lungo le sponde del fiume Farma queste case offrivano riparo a coloro che si avventuravano da centri abitati più o meno lontani per trovare ristoro nella balnea termale dalle proprie sofferenze fisiche.
Nel pieno dell'inverno dei primi mesi dell'anno 1245 giunse un giorno presso l'abitato un uomo come non se ne vedeva da tempo tra la gente di passaggio in quella località. Discese da un carro che attraversava la strada, salutò con un cenno della testa l'individuo che conduceva le bestie e con passo claudicante raggiunse la locanda presso cui si stava servendo il pasto di metà giornata. Aperta la porta chiese dell'oste e un uomo ben piazzato con una folta barba e occhi incandescenti gli si fece avanti.
“Sono io” disse, “siete in cerca di ristoro? Ho delle camere, se volete. Tuttavia, prima di accogliervi, avrei piacere di vedervi in viso. Non è mia usanza dare confidenza a chi non mostra i suoi connotati.”
L'uomo infatti era entrato senza nemmeno calarsi il cappuccio, lasciando il suo volto nell'ombra. Dopo aver gettato uno sguardo tra gli avventori che lo guardavano con aria intimorita prima di ritornare alle loro scodelle e al loro pasto si decise a rivelarsi. Abbassato il cappuccio mostrò il suo naso aquilino, la fronte ampia coronata da una massa di capelli nero corvo che gli cadevano fino ai lati della gola, un mento appuntito e due guance scavate su cui sorgevano pochi e radi peli a testimoniare la sua giovane età. Gli occhi, di un marrone intenso, all'oste parvero severi e lugubri, due monete con cui pagare un dazio per scrutare in un abisso che poteva essere un passato tragico e doloroso.
“Perdonate la scortesia. Viaggio da diversi giorni e le mie vesti sono state l'unica difesa dalla rigidità delle intemperie, sia di giorno che di notte. Abituato a coprire ogni lembo del mio corpo per non patire il freddo, ho dimenticato di rendere il mio aspetto presentabile prima di recarmi al cospetto di un individuo che non fosse uno sconosciuto con cui condividere l'angusto spazio di un carro scoperto che attraversa queste lande dimenticate da Dio.”
Le parole volevano esprimere rammarico ma il tono della voce era acuto e sprezzante, il ghigno in cui era piegata la bocca e il modo d'intervallare le frasi con un ritmo lento e con pause che gli dessero il tempo di mostrare i denti stretti in una sorta di spasmo rabbioso fecero venire i brividi al suo interlocutore che, sebbene fosse ben più alto del viandante e decisamente più grosso, si sentì in soggezione. Più di una volta volse lo sguardo in un angolo morto della stanza o sui suoi ospiti per non incrociare quegli occhi che sembravano scottargli addosso quando si rendeva conto che erano puntati contro di lui. “Non v'inquietate signore, non mi avete arrecato offesa. La mia era solo curiosità di sapere chi mi trovavo di fronte. E ora che abbiamo esaurito questa formalità,” l'oste sollevò le braccia davanti a sé, come se volesse scacciare le prassi inutili e i convenevoli, “ditemi cosa posso fare per voi. Avete solo bisogno di un pasto prima di proseguire il vostro viaggio o volete forse beneficiare delle terme per qualche giorno e avete bisogno di pernottare?”
“Sono diretto a Grosseto ma il lungo viaggio mi ha stremato e ho bisogno di ristoro. I lunghi giorni di viaggio, durante cui sono dovuto rimanere seduto a lungo su carri che attraversavano sentieri malmessi, mi hanno causato un dolore quasi insopportabile a una gamba e ho bisogno di curarmi prima di proseguire.”
Fece una pausa, durante cui sembrò assentarsi, con la mente rivolta a un domani che sembrava arrecargli tensione e malessere. “Gli affari che mi attendono a Grosseto richiedono una mia completa prestanza fisica. Mi hanno detto che le acque di questo sito sono eccezionali per curare certe indisposizioni.” “Oh sì, signore. Vedrete che in brevissimo tempo sarete di nuovo in piena forma e potrete ripartire sereno e ristorato. Da dove venite?”
“Da un piccolo villaggio a sud di Roma.”
“Decisamente un lungo viaggio. E cosa vi porta a Grosseto?” L'uomo strinse le labbra e sgranò gli occhi, poi espulse aria dalle narici come un toro infuriato.
“Questi non sono affari vostri!” urlò il viandante, senza più paura di non essere esplicitamente scontroso o scostante. La sua reazione fece indietreggiare l'oste e voltare nuovamente tutti e presenti, che lo osservavano preoccupati.
“Mi rincresce per aver usato impertinenza nei vostri riguardi. Non volevo essere scortese.” Il titolare della locanda si rivolse al viaggiatore con un sussurro che sapeva quasi di supplica. Una bella giovane, coi capelli d'oro, serviva ai tavoli e mentre si avvicinava ai due, osservava la scena con aria preoccupata. “Il prezzo è di due denari al giorno per il soggiorno” spiegò l'oste “tre se volete usufruire anche dei pasti. Il pagamento è anticipato, è una misura che siamo stati costretti ad adottare a causa del comportamento di alcuni ospiti che sono fuggiti la notte prima della ripartenza senza aver saldato il conto.” Il giovane viandante estrasse un sacchettino chiuso con un laccio da un fagotto che gli pendeva dalla cintura e lo lanciò all'oste che lo aprì e controllò il contenuto, rappresentato da venti denari.
“Credo che cinque giorni per rimettermi in sesto dovrebbero bastare” sentenziò, poi si accomodò a un tavolo libero accanto a lui. “Per il cibo faccio da me, tranne per oggi.”
“In realtà signore, mi avete dato una somma tale da permettervi di soggiornare per dieci giorni... ”
“No, buonuomo. Confermo che mi fermerò al massimo per cinque giorni. Le monete in più servono ad accontentare una mia richiesta. Sapete, sono una persona molto riservata e non amo condividere il pagliericcio con altre persone... capite cosa voglio dire?”
L'oste strinse forte le monete come se temesse che gli sfuggissero dalle mani. “Volete una camera tutta per voi?” Belardo annuì. “Ho abbastanza danaro con me da convincervi a risparmiarmi il supplizio della camera comune. Se venti
monete non bastassero fate voi il prezzo.”
“Ma... ma veramente...”
Belardo strabuzzò gli occhi, risentito. “Cosa c'è? Ho chiesto troppo? Non mi dite che non avete camere singole perché non vi credo. Questa balnea è meta anche di nobili e appartenenti al clero che senz'altro non condivideranno il giaciglio con la plebaglia. A cosa devo tanta ritrosia nell'accontentarmi?” L'oste scosse la testa con vigore. “Non è ritrosia, signore. Solo, non mi aspettavo una simile richiesta. Non capita tutti i giorni che un semplice viandante possa permettersi certi lussi... ”
In tutta risposta Belardo tirò fuori dal fagotto un'altra moneta. “Portatemi il vino migliore che avete e qualcosa da mangiare. Una zuppa calda andrà benissimo. Ho bisogno di scaldarmi.” L'oste s'inchinò, stupendosi allo stesso tempo di quel gesto, che non era sua consuetudine fare e testimoniava quanta soggezione gli avesse messo quell'uomo, poi si diresse verso la cucina, seguito dalla locandiera. “Padre” disse la fanciulla, quando erano abbastanza lontani da orecchie indiscrete, “quell'ospite non mi piace. Perché lo hai accolto?”
“Ha pagato, Caterina. Conta solo questo. Gli affari sono affari. I suoi soldi” si diede una pacca sulla tasca della veste in cui aveva riposto il fagotto, che tintinnò sonoramente, “ci fanno comodo.”
La fanciulla chiuse la porta, lasciando aperto uno spiraglio sufficiente a vedere l'uomo che teneva il suo sguardo inquietante fisso sul tavolo. Il suo corpo era totalmente immobile, sembrava che si fosse addormentato da seduto e con gli occhi aperti. “Temo che potrebbe portarci dei guai. Quel tipo non mi piace per niente.”
“Se dovesse procurarci delle grane, agiremo di conseguenza.” Poi scrollò le spalle, tenendo la fronte bassa per non farsi vedere il volto, che era avvampato per la vergogna. La verità è che aveva paura, quell'individuo gli aveva instillato il sentimento del timore e aveva fatto l'unica cosa che il suo istinto di sopravvivenza gli aveva suggerito: assecondarlo. Intanto Caterina continuava a spiare l'ospite che, nel frattempo, sembrava essersi guadagnato compagnia in quanto al suo tavolo si era accomodato un altro uomo. Dalla sua espressione si poteva dedurre che non ne fosse particolarmente lieto.
Le pietanze erano pronte così Caterina portò la ciotola ripiena di zuppa di miglio e una coppa di vino al tavolo. Avvicinatasi ebbe modo di origliare la conversazione tra i due.
“Sapete, in questo posto ci sono stati diversi problemi coi briganti per cui viene sorvegliato da una guardia mandata da Siena” stava dicendo il secondo uomo, un individuo dal viso rotondo e rossiccio e con gli occhi gonfi.
“Buono a sapersi” rispose il giovane, “comunque non credo di averne bisogno. In caso di necessità so difendermi benissimo da solo” e sollevò il mantello per mostrare l'elsa di una spada che gli sbucava da una cintura.
Nel vederla Caterina ebbe un sussulto e mancò poco che rovesciasse il vino. Qualche goccia di liquido scarlatto imperlò la superficie del tavolo attraendo su di sé gli sguardi ostili dei due dialoganti che la guardarono con aria arcigna.
“Chiedo scusa” mormorò la giovane, tremando come una foglia mentre si sfilava uno straccio legato alla vita e lo usava per pulire il tavolo. Mentre si allungava sul piano di legno, alzò la fronte e vide che il più giovane dei due teneva lo sguardo basso e le fissava con aria curiosa un punto sotto al mento. Dopo qualche istante la fanciulla si accorse che quell'individuo stava guardando la sua scollatura, piegandosi in avanti la larga veste aveva fatto prorompere in fuori i suoi generosi seni e il tenebroso ospite non si era fatto problemi a godersi lo spettacolo.
Con un scatto Caterina si fece indietro e si portò le mani al petto, osservando l'uomo con un misto d'indignazione e orrore. L'uomo accanto a lui proruppe in grassa risata mentre l'altro continuava a fissare la ragazza con aria impassibile. Né imbarazzo o divertimento emergeva dai lineamenti del suo volto duri come il ferro. Era inespressivo e freddo come una statua di marmo.
Caterina tornò in cucina lasciando i due uomini soli, liberi di continuare il loro dialogo.
“Fate bene a portarvi dietro un'arma di questi tempi, signore” continuò l'uomo tarchiato mentre continuava a sorseggiare del vino. “Sono tempi duri, questi. Da un momento all'altro potrebbe entrare qualche balordo” e indicò col dito la porta d'ingresso, “per rapinarci e sgozzarci tutti. Sapere che ci sono ben due persone che possono tenergli testa mi rasserena.”
“E chi sarebbe la guardia armata?”
“Oh, questo nessuno lo sa. Opera in incognito, a quanto pare finge di essere uno degli ospiti della locanda e intanto tiene sott'occhio la situazione.”
“Scusate ma mi sembra poco furbo come metodo per lavorare in incognito. Basterebbe scoprire chi sia l'ospite presente da più tempo in locanda per rendersi conto che è lui la guardia, no?”
“Non è sempre la stessa” l'uomo soffocò un rutto prima di continuare, “non appena sia trascorso un certo numero di giorni arriva un altro membro della guardia armata a dare il cambio alla precedente. E questo non avviene con molta frequenza, sa? Non si ritiene che sia una misura necessaria per non incutere sospetti visto che questo posto è quasi uno spedale e ci sono diversi viandanti che stazionano qui per lungo tempo nel tentativo di curare i propri malanni, ce n'è qualcuno, anche tra i presenti in questa stanza in questo momento, che rimarrà qui finché non passerà l'inverno. Qualcuno come quello” e indicò col dito un anziano decrepito dalla barba lunga e lo sguardo sofferente che cercava di buttare giù qualche cucchiaio di brodo con movimenti lenti e tremolanti “non arriverà alla primavera, ci potete scommettere.”
L'uomo rise ancora dando sfoggio di un'ilarità sguaiata e volgare; il vecchio, sentitosi tirato in causa, si limitò a sollevare i suoi occhi tristi per un istante prima di tornare alla sua scodella fumante.
“Non è da buoni cristiani ridere delle disgrazie altrui, dovreste saperlo” lo ammonì il giovane, accigliandosi.
Quell'espressione di ghiaccio dovette avere effetto perché il suo interlocutore si strinse nelle spalle. “Scusate... temo di avere alzato troppo il gomito. Quando bevo straparlo e può accadere che commetta lievi peccati in pensieri e parole. Il buon Dio mi perdoni, più tardi mi confesserò col frate...” l'uomo si fece il segno della croce, “a proposito, sapete che qui c'è anche una cappella? La messa si tiene al mattino mentre fra' Tancredi si occupa delle confessioni dopo il tramonto...” “Buono a sapersi. Tuttavia mi preme tornare sul discorso di poc'anzi, signore.”
“Chiamatemi pure Roberto. Che scortesia!” l'uomo si portò il palmo di una mano alla fronte, “non ci siamo nemmeno presentati. L'ebbrezza del vino talvolta fa dimenticare le buone maniere... e voi, signore? Qual è il vostro nome?”
L'uomo sembrò pensarci su un istante di troppo prima di dichiarare che si chiamava Belardo.
“Nome particolare. Non se ne vedono tanti da queste parti con nomi così singolari. Conoscevo un tale che aveva un nome simile al suo ma proveniva dalle terre oltre le Alpi, dove la gente parla l'occitano...”
“Stiamo divagando” tagliò corto Belardo agitando una mano davanti a sé, “torniamo a questioni più importanti. Stavate dicendo che qui c'è una guardia in incognito, giusto? E nessuno sa chi sia?”
Roberto annuì con aria grave, gli occhi ridotti a due impercettibili fessure.
“Vi siete per caso fatto un'idea di chi sia costui? Sapreste dirmi se è presente nella stanza in questo momento?” Belardo aveva gettato uno sguardo furtivo sugli altri avventori prima di posare di nuovo le sue brucianti pupille sul suo interlocutore. “Bontà mia Belardo, mi chiedete troppo. Non sono un acuto osservatore, non noto i dettagli, se mi mettessero davanti agli occhi un uomo e mi chiedessero d'indovinare il suo mestiere non sarei minimamente in grado di scoprirlo, sebbene alcuni dettagli come i calli sulle mani possano dare importanti indizi per questo scopo e fare dedurre che si tratti di un contadino o comunque di qualcuno che si occupa di lavori manuali. Non posso aiutarvi, mi dispiace...”
Tacque e deglutì, indeciso se alimentare ulteriormente la sua curiosità in ragione della reazione aggressiva che Belardo aveva avuto qualche istante prima quando gli aveva posto un quesito.
Notando i segni del suo patema Belardo sorrise lievemente e il suo sguardo si addolcì. “Non abbiate timore di fare domande, Roberto. La curiosità fa parte dell'uomo e, sebbene a volte possa causare delle grane, ritengo che essa vada soddisfatta quando ciò è possibile. Voi vi state chiedendo perché per me sia così importante sapere chi sia la guardia in servizio in questa stazione termale. Non cercate di giustificarvi, state tranquillo, vi ripeto che il vostro interesse per questo mio vezzo è assolutamente comprensibile. La spiegazione è molto semplice e non richiede particolari sforzi dell'ingegno per afferrarla: mi avete detto che in questo luogo possono verificarsi pericoli a causa dei ladri e briganti che infestano questi boschi e voi stesso avete alluso al fatto che vi faceva stare più tranquillo l'idea che ci fossero, tra i presenti, due individui armati pronti ad affrontare i tagliatori di gole che da un momento all'altro dovessero entrare da quella porta. Ebbene, se ciò dovesse verificarsi dovrei combattere con quest'uomo poggiando la mia schiena contro la sua e per fare ciò ho bisogno di fidarmi ciecamente di lui. Non è concepibile che io offra il lato scoperto del mio corpo alla difesa di un individuo verso cui non nutra una fiducia assoluta. In quel momento io metterei la mia vita nelle sue mani e lui farebbe altrettanto con me, ragion per cui sarebbe opportuno che ci conoscessimo, dialogassimo e ci preparassimo a un'eventualità del genere.”
Terminato di parlare l'uomo si ficcò in bocca un paio di sorsate di zuppa di miglio che si stava freddando poi buttò giù qualche sorso di vino.
“Avete dei presupposti molto saggi Belardo” ribatté Roberto,
“e siete molto prudente nel cercare di anticipare qualunque evenienza funesta...” “I tempi che viviamo e il luogo in cui ci troviamo lo esigono. Se fossimo in una città, a Siena o Firenze per esempio, dove le strade sono continuamente pattugliate da soldati e cavalieri, mi sentirei più tranquillo. Ma qui tra queste lande dimenticate dal Padreterno, dove nessuno potrebbe sentirci qualora urlassimo accorruomo1 le mie paturnie sono più che giustificate.”
Roberto annuì, meditabondo. Poi si passò una mano sulla barba mentre rifletteva sulle parole del suo compagno di tavolo. “Capisco il vostro cruccio e proprio per questo sono ancor più rammaricato per il fatto di non potervi essere d'aiuto. Spiacente, ma non ho la più pallida idea di chi possa essere l'armato. Ora, se volete scusarmi...” Si alzò e scostò la sedia, riprese il suo bicchiere per poi allontanarsi verso il suo posto d'origine. Aveva volutamente evitato d'incrociare gli occhi di Belardo, non avrebbe retto uno sguardo carico di risentimento o di ira il quale, tuttavia, continuò pacatamente a consumare il suo pasto. Quando ebbe terminato l'oste si avvicinò al tavolo per sparecchiare. “Se volete vi mostro la stanza” disse infine.
“Sarebbe molto gentile da parte vostra. E la mia riconoscenza sarebbe ancora più grande se mi faceste un favore.” Belardo tirò fuori un'altra moneta dalla sacca e la fece scivolare sul tavolo verso la mano dell'oste. “Avrei bisogno di
un'informazione e ritengo che voi mi possiate accontentare.”
“Un'informazione?”
“Probabilmente di poco conto per voi, signore, ma di grande importanza per me. Mi è stato detto che questo posto è sorvegliato da un soldato della guardia senese. Sapreste dirmi di chi si tratta? Ho bisogno di avere uno scambio di vedute con costui.”
Le dita dell'oste si serrarono sul bordo della scodella vuota che reggeva in una mano e in breve tutto il suo corpo fu attraversato da spasmi d'ira. “Non è affatto un quesito irrilevante, signore. E non sto parlando di soldi... metta giù quella mano!” sbraitò avendo visto che Belardo stava di nuovo rovistando nella sacca per tirarne fuori altre monete “se il soldato è qui in incognito c'è un motivo, non credete? I razziatori che si aggirano per queste terre, oltre che essere dei bruti, sono molto scaltri, giacché potrebbero mandare in avanscoperta un loro compagno a fingere di essere un cliente della locanda con lo scopo d'individuare la guardia così da poterla disarmare tempestivamente quando arrivassero i suoi compari.”
Belardo, per nulla intimorito dall'inaspettata reazione dell'oste che sembrava aver ritrovato baldanza e forza d'animo, scosse la testa. “Dunque non volete aiutarmi. Me ne dolgo, sappiatelo. Contavo in un'accoglienza migliore.”
“Se il soggiorno non è di vostro gradimento potete sempre andarvene. Vi rimborserò i vostri soldi. Anzi, volete saperlo? La vostra presenza non è gradita, qui. Sospetto che abbiate fatto anche qualcosa a mia figlia, visto che mi ha chiesto di ritirarsi nella sua stanza dopo aver servito al vostro tavolo. Voi non mi piacete, signore. Quindi v'invito a lasciare questo posto immediatamente!”
“State calmo”, Belardo, al cospetto di quelle declamazioni di disprezzo aveva mantenuto una pacatezza d'animo ammirevole; sembrava di vedere una montagna che resta ferma e impassibile anche quando viene colpita da un forte vento, “non vi offendete, buon uomo. Mi rammarico per le mie parole, di cui avete frainteso il senso. Non volevo arrecarvi mestizia ma ritengo che possiamo dimenticare tutto in un modo conveniente per entrambi.” Dalla borsa tirò fuori altre cinque monete e le porse all'oste. “Queste sono per farmi perdonare dell'oltraggio arrecato. Accettateli, vi prego. Non ho altro posto dove andare, dovrei aspettare il passaggio di una carovana che si reca verso il mare e prima di domani temo che questo non avverrà. Vorreste mandarmi là fuori a dormire tra i boschi sapendo quali pericoli si nascondano tra le sue fronde quando cala il sole? Un buon cristiano non dovrebbe essere sempre propenso al perdono?”
“Se posso permettermi, Pietro” Roberto si era fatto avanti, frapponendosi tra i due con fare barcollante; aveva continuato a bere e durante una delle oscillazioni aveva versato un po' di vino sulla veste dell'uomo, “questo giovane è un mio amico. Vero che siamo amici, Belardo? Che Dio vi benedica! Alla salute, Belardo! Dunque, dicevo... costui, che si chiama Belardo, ve l'avevo già detto come si chiama? Insomma, è un bravo giovane, garantisco io per lui. Fatelo restare e giuro sulla croce...”
“Non bestemmiate!” Un anziano con la tunica si alzò di scatto, rovesciando in terra la sedia.
“... volevo dire, giuro sul mio nome che questo ragazzo non darà problemi, altrimenti non mi chiamo più Roberto Bencivenga. Domani verrò a confessarmi, fra' Tancredi. Temo che oggi mi sono messo qualche peso sull'anima.”
Pietro l'oste scosse la sua grossa testa mentre si premeva le nocche sui fianchi e infine lo sguardo gli cadde sul mucchio di monete che luccicava sul tavolo alla luce del debole sole che penetrava dalla finestra. Con gesto avido e veloce le raccolse e le fece sparire nella sua tasca.
“E sia” concluse, “potete restare. Vi mostro la camera.” “Un momento!” urlò Roberto, sollevando le braccia. “Prima portateci altro da bere. Bisogna brindare. E voi, che fate lì immusonito?” e afferrò per una manica un uomo seduto al tavolo accanto, trascinandolo accanto a sé. “Unitevi a noi, brindiamo e che questa letizia sia di buon augurio per la celere fine dei nostri malanni.”
Timido e dimesso, l'uomo si sistemò in un angolo libero del tavolo. Era di una magrezza sconcertante, al punto che la pelle sembrava attaccata alle ossa e i larghi vestiti che indossava erano il segno di una probabile, recente perdita di peso. Pallido in viso e con profondi solchi scuri sotto agli occhi, conservava un'unica traccia di vitalità nei folti capelli che ricoprivano ogni segmento della sua nuca senza lasciare intravedere la cute.
Roberto chiamò anche fra' Tancredi e i quattro brindarono ripetutamente all'amicizia, all'amore, alla vita e, su invito del frate, che impose a tutti i presenti anche la recita di un Padre Nostro, anche a Dio.
Belardo fissò più volte con sguardo indagatore il tizio emaciato che, di par suo, ricambiò con un'espressione implorante. Sembrava realmente triste e disperato come colui che si trovi a un attimo dall'incontro con il tristo mietitore e parve implorare pietà con occhi spenti che non avevano più lacrime da versare. “E un brindisi anche a voi signore... signore... perdonate, come vi chiamate? Solo ora mi rendo conto di non sapere il vostro nome” disse Roberto, afferrando il tizio per un braccio. “Io son Cecco, signore. Vogliate scusarmi se adesso mi ritiro. Sono molto stanco...”
“Cecco? Che Dio mi fulmini se non siete senese” e si segnò notando che fra' Tancredi si era mosso “la città pullula di persone con codesto nome.”
Belardo sporse in avanti il busto. “Dunque?”
Cecco deglutì prima di annuire. “Son Cecco da Siena, ove ho una bottega. Faccio il sarto. O meglio, facevo. Il malanno che mi ha preso, e che mi sta spingendo sempre più nella fossa, mi ha costretto a vendere tutti i miei averi per pagare medici e cure che tra l'altro non son servite a un accidente.” Fece una pausa ed ebbe un fremito, le guance pallide parvero imporporarsi appena per effetto di un accesso dell'anima. “Ho dilapidato i risparmi di tutta una vita per nulla... quei maledetti segaossa si sono rimpinzati le tasche coi miei soldi senza arrecarmi alcun beneficio. Per fortuna che sono solo al mondo, non ho mai preso moglie né messo su famiglia, se no chi ci avrebbe pensato a loro?”
“Non è cosa di cui rallegrarsi il non aver nessuno a cui lasciare un'eredità d'affetto” lo ammonì fra' Tancredi puntandogli contro un dito grosso come una salsiccia, “figliolo, tu fingi altruismo ma il tuo celibato, a meno che non sia mosso dal nobile intento di glorificare nostro signore Gesù Cristo prendendo i voti, è in realtà una manifestazione di egoismo. Quale altro fine può avere l'esistenza se non quella di mettere al mondo una prole nella grazia del Signore per poi lasciare a essa il dolce ricordo di un padre che li ha cresciuti con amore e secondo i dettami di Santa Romana Chiesa?”
“Permettete Padre ma la prole non si nutre solo d'amore” la lingua di Cecco parve sibilare come quella di un serpente, “son felice di non lasciare dei pargoli a morire di fame perché il loro padre non c'è più giacché ne ho viste troppe di dipartite di fanciulli, alcuni ancora in fasce, a cui eran mancate improvvisamente le attenzioni paterne.”
“Tu dimentichi che dietro ogni evento, anche quello che al debole occhio umano appare il più funesto, c'è sempre la Divina Provvidenza. Dunque cos'altro rispondere ai tuoi dubbi miscredenti se non: sia fatta la volontà di Dio?”
Cecco stava per ribattere ma la mano di Belardo che sotto al tavolo aveva afferrato la sua lo fece desistere. Si studiarono per un istante e tanto bastò a Cecco per capire che si stava esponendo troppo ed era meglio tacere se non voleva rischiare un'accusa di eresia.
Fra' Tancredi intanto aveva continuato ad ammonirlo e Cecco dovette più di una volta mordersi la lingua mentre il prete gli faceva notare le sue gravi colpe come credente nel non aver fatto ricorso alla fede per guarire dal male che lo stava uccidendo; aveva preferito affidarsi alla medicina invece di fare dei lasciti alla Chiesa invocando il sostegno delle preghiere di qualche ordine monastico e il cielo lo stava punendo per la sua cupidigia. Terminata la sua predica fra' Tancredi si alzò, mosse una mano davanti a sé prima dall'alto in basso poi da destra a sinistra a tracciare nell'aria una croce immaginaria con due dita tese mentre mormorava una formula di benedizione poi si commiatò dai presenti e uscì dalla stanza.
“Avete rischiato molto” lo rimbrottò Belardo, “davvero tenete così poco alla vostra vita? Volete venire denunciato all'inquisizione?”
“Suvvia, non esagerate” stigmatizzò Roberto, “quel vecchio frate è burbero ma buono, non lo farebbe mai...”
“ È un uomo di Chiesa. E come tale, ha dei doveri. Se avesse il sospetto di un'eresia, non mancherebbe di segnalarlo alle autorità.”
Cecco scrollò le spalle. “Pensate davvero che l'idea di venire inquisito possa farmi paura ora che sono al termine dei miei giorni? In vita mia non sono mai stato un buon cristiano, lo ammetto, e a questo punto preferisco terminare la mia vita sforzandomi di essere il più sincero possibile nel mio modo di pensare, parlare e agire.”
“Pericoloso ciò che state dicendo signore” gli occhi di Belardo divennero piccoli e cattivi, “molto pericoloso. Fate male ad affidare tali confidenze a due estranei. Chi vi dice che non saremo proprio noi a denunziarvi?”
“Io non lo farò di certo, perbacco!” esclamò Roberto prima di buttare giù un altro sorso di vino. “Però voi... ho sentito che dicevate di venire dai territori amministrati dalla Chiesa. Forse non siete molto malleabile su certi temi, dico bene?” Belardo ignorò la domanda e rimase a fissare Cecco in modo severo; quest'ultimo intanto sembrò aver acquisito una calma glaciale. Il suo viso si era disteso e le gote erano tornate pallide, a dimostrazione che il suo accesso d'ira era scemato.
“Mi congedo anch'io. Lieto di aver trascorso con voi qualche istante tra gli ultimi della mia breve esistenza.”
“Ancora un momento” Belardo fermò Cecco nell'intento di sollevarsi dalla sedia con le sue deboli e malridotte gambe, “ho una domanda per voi: visto che siete di Siena e mi pare di aver capito che siete qui da un bel po' di tempo, sapreste dirmi se tra le conoscenze che avete fatto durante la vostra permanenza in questo luogo c'è qualche vostro concittadino?”
Cecco gli rivolse uno sguardo da ebete coi suoi occhi ingialliti e gonfi; pareva che non avesse compreso la domanda. Senza fornire risposta al quesito, si allontanò.
“La vostra è proprio un'ossessione. Non capisco perché sia così fondamentale individuare la guardia in incognito.”
“Siete voi a giungere a conclusioni affrettate, Roberto. Io
avevo fatto un'altra domanda, in realtà.”
“Ma era sottinteso che lo scopo fosse sempre lo stesso.” Belardo scrollò le spalle mantenendo una posa insofferente e per certi versi enigmatica. “Ogni uomo ha i suoi misteri, incomprensibili per il prossimo.”
“Con me non dovete avere timori di siffatto genere. Sono limpido come uno specchio d'acqua, così come mi vedete sono anche in ogni più intimo anfratto del mio essere: sono un ubriacone perché mi piace bere, gozzoviglio per amore della goduria, non troverete in me un aspetto nascosto o un segreto celato dall' ombra delle tenebre...”
“E io vi dico che sono proprio gl'individui come voi quelli da cui diffido di più. E non ho paura di rivelarvi le mie perplessità sul vostro conto... suvvia, non fate quella faccia, apprezzate piuttosto la mia sincerità. La schiettezza è un aspetto importante del mio carattere e non voglio rinunciarvi, sebbene ciò possa farmi risultare antipatico agli occhi di taluni. Io credo che colui che si sforza di apparire semplice all'occhio altrui è l'uomo che più di ogni altro maschera la propria vera, profonda natura, che sia essa una grande sofferenza, un male di vivere o qualche oscura perversione dell'animo che non può ammettere a nessuno, finanche a se stesso.”
L'oste, intanto, era tornato per accompagnare Belardo nella sua camera. Avevano lasciato uno sconvolto Roberto a riflettere sue quelle ultime parole che gli avevano sconquassato lo spirito e ammutolito la carne. Fissava il vuoto davanti a sé, deglutendo ossessivamente per buttare giù nella trachea qualcosa che non ne voleva sapere di scendere.
Pietro dava la sua possente schiena a Belardo; senza dire una parola, lo precedeva mentre usciva dalla locanda, girava intorno alla struttura in pietra camminando lungo uno stretto e breve cortile pavimentato con ciottoli levigati e saliva una scalinata. L'oste aprì una piccola porta che dava su un ambiente spoglio composto da una saletta arredata unicamente con un letto di paglia e uno scrittoio senza sedia su cui era poggiata una brocca d'acqua. Dato che Pietro si era fatto da parte per lasciarlo passare Belardo entrò e storse il naso quando sentì la pesantezza dell'aria stagnante a causa dell'assenza di finestre. “Se avete bisogno di scrivere posso fornirvi una candela, inoltre per le sere più fredde, qualora dovesse nevicare o alzarsi il vento, vi porterò un braciere per riscaldarvi. Il modo migliore per vincere le intemperie, però, è quello di recarsi alle pozze e fare un bagno nell'acqua calda... sempre che non piova, ovviamente. Anche con la neve è un vero toccasana, comunque a giudicare dall'aria non dovrebbero esserci cambiamenti repentini nel tempo.”
Pietro parve essersi scordato dell'alterco avuto poco prima con l'ospite e parlava con cordialità; dimentico di ogni astio, addirittura sorrideva bonariamente.
“Mi avete incuriosito, sapete? D'altronde avevo già sentito parlare un gran bene di queste acque termali, per cui credo proprio che andrò a farmi un bagno.”
Pietro si congedò con un inchino e Belardo, rimasto solo, studiò la sua camera. Era veramente essenziale e ciò lo allarmava perché aveva qualcosa con sé da dover nascondere in un luogo sicuro quando non poteva portarselo dietro. Tirò fuori il sigillo e lo rigirò tra le dita con fare nervoso. Gli bastò poco per realizzare che era troppo rischioso lasciare lì quell'oggetto di vitale importanza perché se qualcuno fosse entrato a ficcare il naso lo avrebbe trovato subito. Il letto, per esempio, sarebbe stato un nascondiglio troppo ovvio e lo scrittoio era composto da tre semplici assi di legno, due verticali e uno orizzontale, senza incavi né cassetti, per cui era totalmente inadatto allo scopo. Ne concluse che la soluzione consistesse nel trovare all'esterno un rifugio sicuro. Tornato fuori, risalì il cortile di pietra alla ricerca di qualche pietra smossa, ne trovò una fissata in modo meno preciso e provò a sollevarla. Con una leggera pressione del polso, si sollevò da terra rivelando un piccolo buco nel terreno, abbastanza profondo da far entrare tutta la mano. Si guardò intorno per essere sicuro che nessuno lo stesse osservando e vide in lontananza la figlia dell'oste che discuteva con fra' Tancredi davanti all'ingresso di una piccola struttura che, a giudicare dal rosone che compariva sulla facciata anteriore, doveva essere la cappella di cui gli avevano parlato. Il prete era di spalle ma da quella posizione poteva vedere il volto, soggiogato e quasi disperato, di Caterina. Sembrava turbata da quel dialogo.
Belardo sistemò l'oggetto nella buca, la ricoprì con la pietra e contò quanti passi lo separavano da quel punto al primo scalino della rampa che faceva giungere alla sua stanza poi, incuriosito dalla scena, si avvicinò ai due cercando di tenere celata la sua presenza. Scivolando dietro i rialzi del terreno e tra le pareti delle altre strutture dell'abitato giunse a pochi passi dai due. Fra' Tancredi agitava le mani freneticamente mentre Caterina continuava a scuotere la testa in segno di diniego. Si avvicinò ancora un po', così da poter cogliere qualcosa di ciò che si stavano dicendo. Gli parve di sentir dire all'uomo “io non posso più resistere...” e la risposta della fanciulla, “è peccato”, gli fece intuire qualcosa dell'oggetto del discorso.
“Il buon Dio è misericordioso e avrà pietà di me, che son sempre stato un servitore devoto, se mi abbandono per un attimo alla debolezza della carne. Lo faccio per il mio bene, e per quello delle anime che ancora ho da mondare lungo il mio cammino perché, se io non riesco ad avervi, potrei commettere una sciocchezza. Penso a voi di continuo, penetrate nei miei sogni e durante la veglia siete sempre davanti ai miei occhi anche se non siete nei paraggi. Siete diventata un'ossessione che non riesco ad allontanare, dunque posso solo cedervi e far divampare la fiamma nella speranza che, datale sfogo, si estingua...”
“È il demonio che vi induce in tentazione! Non riconoscete il suo operato, voi che siete uomo di fede? Vuole indurvi al peccato perché vuole la vostra anima, non dovete dargliela vinta. Pregate, fate penitenza e ritrovate la vostra purezza...”
Tuttavia fra' Tancredi, fatto un passo in avanti, la afferrò con violenza ai fianchi e la avvicinò al suo ventre, poi fece fiondare le sue labbra sul collo scoperto della fanciulla che intanto si dimenava per liberarsi di quella morsa. “Lasciatemi, vi prego! Lasciatemi, qualcuno potrebbe vederci...”
“Non può essere l'inferno a chiamarmi” fra' Tancredi, con voce ansimante, cercava di calmare Caterina parlandole all'orecchio mentre con le sue mani le palpava cosce e glutei, “questo calore, questa pienezza d'animo non proviene dalle fiamme della perdizione ma dall'alto dei cieli. Oh Caterina, io devo avervi, devo!”
Belardo stava per intervenire ma un violento fruscio proveniente dalle fronde degli alberi che sorgevano alle spalle della cappella li fece sussultare e il prete allontanò bruscamente la donna da sé. Un grosso volatile si era alzato in volo, gracchiando con tono che pareva quasi beffardo. Caterina tentò di approfittare di quell'interruzione per dileguarsi e scivolò di fianco a fra' Tancredi che tuttavia le afferrò un braccio. Non sembrava intenzionato a lasciarla andare per cui Belardo si fece avanti.
“Il Signore sia con voi, padre. Finalmente l'ho trovata.” Sentendo quelle parole il prete lasciò la presa e si distanziò poi, nel tentativo di ricomporsi, si schiarì la gola e finse un'assoluzione verso la donna che intanto, per la vergogna e l'imbarazzo, se ne stava di profilo con la testa piegata in avanti e la fronte rivolta verso terra. “Ego te absolvo...” pronunciava Tancredi, con tono solenne mentre agitava la sua mano in su e in giù. “Cosa posso fare per voi, figliolo?” La sua voce tradiva una tensione profonda sebbene la distensione del viso era un tentativo di celarla.
“Mi domandavo se foste disponibile per una confessione.” “Sarà per me una grande gioia, signore. Dunque lei ha peccato e teme per la sua anima? Sarà mia premura riaccompagnarla sulla retta via. Ora se ci volete scusare...io e il signore dobbiamo restare soli.” Congedò Caterina senza nemmeno degnarla di uno sguardo e lei cercò di fuggire via ma fu bloccata da Belardo che le cinse la vita. “Forse non mi sono spiegato. Non ho bisogno di ottenere l'assoluzione da un maiale vestito con un saio.”
Fra' Tancredi sbiancò, avendo capito che Belardo aveva assistito alla scena.
“Sono qui per raccogliere una confessione, quella di un lupo travestito da agnello.” Con passo pesante Belardo avanzava, aumentando l'intensità della voce man mano che si avvicinava al tremolante uomo di Chiesa.
“Cosa avete capito?” urlò fra' Tancredi, fingendo indignazione senza riuscire a negare una nota di terrore, “non oserete certo insozzare il nome di un servo di Cristo con dei così osceni sospetti... a cosa alludete, signore, quando mi definite una belva in mezzo a creature indifese?”
“Vi ho visto! Ho veduto mentre allungavate le vostre immonde mani su quella innocente fanciulla! Guardate come trema, l'avete ricoperta di un manto d'inquietudine tale che anche se i miei occhi non avessero assistito a quell'orrido spettacolo avrei potuto intuire cosa fosse accaduto.”
“Voi fraintendete! Che il cielo mi sia testimone...”
“Non osate invocare una protezione che non meritate!” Belardo sguainò la spada e la tenne in diagonale accanto a sé. “Sarebbe mio dovere di cristiano punirvi seduta stante.” Ormai era a una spanna dal frate che era indietreggiato fino a poggiare la schiena alla parete della cappella.
“Chi siete voi per giudicarmi? Lasciate che sia un tribunale ecclesiastico a esprimersi...”
“Dandovi così l'opportunità di farla franca con l'auspicio di qualche astrusa protezione? Giammai!”
Sollevato il braccio, piegò il gomito e si preparò a sferrare un fendente quando la sua mano fu frenata da Caterina, che si era frapposta tra loro. “Non dovete punire il peccato con il peccato! La sua anima è persa, temo irrimediabilmente ormai, ma voi fate ancora in tempo a salvarvi.”
Fra' Tancredi aveva profittato di quel diversivo per sgusciare di lato e portarsi alle spalle di Belardo. Il pallore era svanito e ora un fervore furente gl'incendiava le gote. Un riso strozzato dall'ira proruppe dalla sua gola poi puntò un dito contro i due che gli stavano di fronte. “Così secondo voi la mia anima sarebbe condannata? Dimenticate voi che io sono un testimone di Dio, per me si ascende al regno dei cieli, sono il tramite per la salvezza e in quanto tale vi dico che sarete voi a bruciare all'inferno per l'insolenza con cui mi avete aggredito!” Belardo strinse più forte l'elsa. “Avete sentito, madama? Egli non ci darà pace. Non posso permettergli di vivere. Ci denuncerà, inventerà chissà quale accusa pur di vendicarsi...” Aveva terminato la frase che già era scattato con l'intento di fiondarsi sul frate ma quest'ultimo, mostrando un'agilità inusuale per un uomo della sua età e la sua stazza, era schizzato via più veloce di una saetta e, saltellando come una lepre che fugge da un lupo, si era rifugiato oltre una porta che si apriva in una parete che correva lungo il perimetro della costruzione principale.
Caterina, raggiunto Belardo, gli prese le mani e se le portò in grembo. Le morbide labbra si posarono sulle sue dita che ancora stringevano l'impugnatura della spada e le baciò con vigore. “Signore, signore... impavido, generoso... non potete immaginare la gratitudine che provo nel cuore in questo istante! E tanto più grande è il timore per la vostra sicurezza.
Oh, signore! Quell'uomo è folle, vi avverto! Ormai nessuno lo conosce meglio di me, in questo borgo... il demonio è penetrato in lui e nessuno sa quali atti immondi potrebbe mettere in pratica.”
“Dalle vostre parole ne deduco che quell'uomo vi perseguita già da diverso tempo. Perché non avete avvisato vostro padre? Non è cosa saggia per una fanciulla indifesa tenersi un simile macigno sul cuore.”
“Volevo proteggere il mio povero padre non di meno di quanto in questo istante vorrei proteggere voi e per lo stesso motivo! Mi rimane solo lui al mondo dopo la dipartita di mia madre e non volevo vederlo cadere vittima di qualche accusa costruita appositamente per fargli pagare un tentativo di proteggermi da quel mostro...”
Caterina crollò e iniziò a singhiozzare, portandosi le mani sul viso poi cadde in ginocchio. “Che Dio ci protegga... ho paura, paura...”
“Paura di cosa? Se è per me che vi angustiate vi prego, non fatelo. Non mi conoscete abbastanza per riconoscere le mie risorse con cui non ho avuto nessun problema a cavarmi fuori da impicci ben più gravi di questo.” Rinfoderata la spada, sciolse le dita intrecciate sulle guance rosse e l'aiuto a rialzarsi. “Suvvia, madama. Allietatevi pensando che per i giorni in cui mi fermerò io quel lurido vecchio non v'importunerà. Su ciò che avverrà dopo la mia partenza mi spiace ma non ho nessun potere. Vi consiglio caldamente di non tenere più nascoste certe vicende alla consapevolezza di chi vi vuole bene perché il male si alimenta dell'omertà e del silenzio.”
“Voi sbagliate, voi sbagliate. Dobbiamo pregare e sopportare, sarà il Signore a...”
“Dove avete mai udito questi ammonimenti? A messa? Ed era per caso quello stesso meschino prete a celebrarla e a tenere l'omelia? Madama, lasciate che vi dica una cosa”, le strinse le mani al punto da farle male e una smorfia di dolore corrugò la fronte della fanciulla, “checché vi dicano gli altri, ricordatevi che dipende solo da noi il proliferare del bene e del male. Dio ci ha forniti del libero arbitrio, ci ha dato l'opportunità di scegliere e quando ci troviamo davanti al maligno non basta inginocchiarci davanti ad esso e pregare sperando che una saetta dal cielo lo riduca in cenere.” Sguainò nuovamente la spada e menò un fendente nell'aria, come se volesse tranciare di netto un tronco invisibile, “se il male si palesa davanti a noi bisogna agire. Bisogna combatterlo.”
A quelle parole si alzò un vento gelido e Caterina rabbrividì ma a guardarla non si sarebbe capito se fosse a causa del freddo o perché le parole dell'uomo l'avevano scossa. Una voce in lontananza invocò il suo nome e la ragazza s'inchinò per congedarsi. “Ora devo andare. Vogliate ancora accogliere i miei più sentiti ringraziamenti per la gentilezza mostrata nel cercare di proteggermi.”
Si era mossa in avanti con aria meditabonda e tenendo lo sguardo fisso sui piedi per non incrociare quello di Belardo quando le sue parole fecero arrestare il suo moto. “Vi vedrò ancora?”
Cosa voleva dirle? Sentì battere il cuore più forte perché la sua mente aveva già formulato il pensiero che quella frase esprimesse il desiderio di prolungare quel momento per stare ancora in sua compagnia. Ma perché, poi?
“Voglio dire da soli, io e voi. Non nella locanda mentre servite ai tavoli oppure casualmente per le viuzze del borgo. Intendo un incontro per parlarvi ancora.”
La ragazza non rispose e corse via come se stesse fuggendo da un suo desiderio troppo pauroso da poter contenere nel suo minuto essere.

Arsenio Siani

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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