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Autore: Monica Benedetti
L'ultimo Babbai Mannu
Narrativa
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L'ultimo Babbai Mannu
Narra l'antica leggenda che mille bisavoli prima del mio bisavolo, esisteva nel villaggio una bellissima principessa. Era la figlia prediletta del Re Beccu ma anche quella che lo costrinse ad un atto disperato. Donoria, questo il nome della fanciulla, non era dama come si conveniva all'epoca. Ribelle e per nulla intimorita dalle vecchie leggende di janas e streghe, passava giorni e notti tra i boschi attorno al villaggio e c'era chi giurava di vederla appesa ai rami degli alberi assieme alle janas o presso la fonte sacra di Su Lumarzu in confabula con una strega. La gente del villaggio la temeva a mano a mano che la sua fama di essere malvagio ridondava tra le mura pettegole dei popolani e tra quelle, ormai lugubri e scoraggiate, del castello. In un giorno funesto il popolo, ormai sicuro della natura irrimediabile della principessa, inforcò torce e bastoni e diede fuoco al castello, intimando al Re di espatriare la sua giovane e bella figlia. Il Re altro
non potè che concedere la richiesta e, messa e legata la figlia piangente, sul dorso di un mulo, incitò l'animale e lasciò che il destino prendesse le redini di quella scellerata. Donoria, derisa dal popolo che la seguiva con grida e risate di gloria, si volse per l'ultima volta verso il villaggio e sorrise “Rebeccu, Rebecchei, da'e trinta domos non movei!” disse prima di scomparire.
Quella maledizione disperata sortì il suo effetto e, dopo una serie di pestilenze misteriose, avvenne che il paese si spopolò e non riuscì mai a crescere di più di trenta case.


“Cento bisavoli prima del mio bisavolo, nella Sardegna, sono venuti gli uomini del pianeta blu, a pelle blu e liscia che pareva di porcellana...”
(I Racconti della nuragheologia – Vol VI pag.29)


Ogni volta che tornava, sempre meno per la verità, si sentiva dannatamente complice con quella Donoria della quale portava quasi un anagramma perfetto del nome. Fosse stata lei, all'epoca, avrebbe tolto di mezzo anche quelle trenta case e ridotto quell'agglomerato di vecchie mura ad un completo silenzio. “Radere al suolo lo doveva” pensava Doriana mentre la sua auto procedeva ormai a memoria sulle strade che, come vene, si diramavano nel suo sangue alla stregua di una maledizione ancora peggiore di quella leggendaria.
Uscita dalla S.S. 131 all'altezza del Nuraghe Santu Antine, proseguì verso quella scorciatoia che non veniva mai proposta ai turisti ma permetteva di percorrere gli ultimi chilometri senza incontrare traffico, non fosse per qualche gregge di pecore che
già, in cuor suo, sperava non dover incrociare.
Sbuffò, riducendo la marcia, quando giunse all'ultimo incrocio e, in seconda, percorse il chilometro che saliva contorcendosi attorno al monte su cui insisteva il villaggio.
Naturalmente quando giunse alla piazzetta non c'era anima viva. “E chi speravo di trovare” disse tra sé, scendendo dall'auto e richiudendo la portiera con un colpo secco. Nessuno più viveva stabilmente a Rebeccu ormai da decenni ma sua madre e suo nonno non volevano saperne di lasciare quel luogo abitato, per Doriana, solo da ricordi che avrebbe voluto cancellare, almeno la maggior parte di essi.
L'uscio di fronte alla giovane si spalancò e una piccola donna, con un abito nero e un grembiule a fiori ricamati, allargò le braccia attendendo di stringere quella figlia che vedeva sempre meno, da quando aveva deciso di andare a studiare, poi a vivere definitivamente oltre il mare, in quel continente che sembrava l'altro mondo, tanto era lontano e incomprensibile!
“Ciao mà” disse Doriana lasciandosi stringere.
“Figlia mia! Figlia mia!” ripeteva tra le lacrime la donna e nient'altro pareva fosse in grado di proferire mentre stringeva e accarezzava la schiena e le spalle di sua figlia.
Fosse uscita mezza lacrima dagli occhi di Doriana, sua madre avrebbe ricominciato a sperare e lei lo sapeva
bene quindi si limitò a sciogliersi in un sorriso e da quell'abbraccio superando l'uscio e guardandosi attorno. Tutto era come sempre. Le pareti bianche, la cucina in muratura, il tavolo da pranzo da sei in legno di rovere e le sedie impagliate, il centrotavola realizzato a chiacchierino dalle mani pazienti di sua madre e il solito vaso di porcellana bianca che si vestiva di fiori freschi in ogni stagione dell'anno.
“Ti sei già vestita di nero ma'?” disse Doriana.
La donna alzò le spalle “E' passata una settimana. Morto è! Anche il maresciallo lo dice”
“ Se fosse come dite voi lo avrebbero già trovato no?” si sedette sulla sedia che le era stata destinata fin da quando la sua statura le aveva permesso di mangiare a tavola con gli altri, quando gli altri c'erano ancora tutti: suo padre, i suoi nonni materni e suo fratello. Ogni volta che tornava, in quella casa c'era un po' più di silenzio e questa volta le pareva addirittura assordante.
“Raffaele che dice?” riprese, per nulla convinta della risposta di sua madre.
“E che dice? Niente dice. Quello è come tuo padre. Non parla.”
Doriana sbuffò, dondolando la testa e, distrattamente, guardò l'ora sul cellulare. Era quasi mezzogiorno “Torna a pranzo o va a casa sua? Ti aiuto? Poi, nel pomeriggio scendo dai carabinieri”
La donna annuì e si volse ai fornelli “Non so se torna. E' con Antonio stamattina, ritirando fieno. “
A sentire quel nome il solito brivido caldo che mai era riuscita ad addomesticare, si fece strada lungo la sua spina dorsale fino ad esplodere nella mente e, come accadeva ogni volta, le rubò un inaspettato sorriso che nascose serrando le labbra e stringendo le sopracciglia fin quasi a toccarsi. Il ricordo riguardava sempre lo stesso evento ma ormai era così datato che ogni volta si chiedeva come mai fosse ancora talmente ben dipinto, nella sua mente, da poterne percepire l'odore e ogni minuscola sfumatura. Si sporse sopra la spalla di sua madre che stava sapientemente tagliuzzando una zucchina “Cosa prepari ma'?”
“Pasta zucca e camona” disse continuando il suo lavoro e spostandosi di lato per fare spazio alla figlia “Lavati le mani”.
Doriana sollevò gli occhi al cielo, aprì il rubinetto e spruzzò un po' di lavapiatti sul palmo della mano sinistra.
“Il bagno c'è in questa casa, già non te lo ricordi?” la rimproverò sua madre senza voltarsi.
“Eddai ma' rilassati! Cerchiamo di non rendere questi giorni ancora più pesanti di quello che sono per favore!” disse sfregando le mani sotto il getto d'acqua. Gavina annuì con la testa raccogliendo i piccoli cubetti bianchi e verdi con le mani e vuotandoli in una terrina di vetro. Prese poi un'altra zucchina e passò i camona a sua figlia. Avrebbero subito lo stesso destino delle zucchine e, una volta soffritti assieme allo scalogno,
accompagnato e insaporito le penne integrali. Non ricordava di aver mai mangiato, in quella casa, alcun tipo di pasta o pane che non fosse integrale. La buon'anima di suo padre non amava nulla che fosse raffinato, neppure il cibo e suo nonno ancora meno. Un grande orto insisteva da sempre in un lato del terreno di famiglia non adibito al pascolo e vicino ad un piccolo ruscello che si formava sempre in primavera, alimentato dalla sorgente della fonte di Su Lumarzu. Quando era ancora una bimbetta, ormai erano trascorsi oltre trent'anni, nonno e genero coltivavano parte del terreno a grano e portavano al mulino i sacchi gonfi di chicchi preziosi tornando con la farina con cui mamma avrebbe preparato pane e pasta per il resto dell'anno o quasi.
Dopo la morte del marito, Gavina aveva continuato ad acquistare pane e pasta integrali. Diceva che il loro stomaco e il palato erano abituati a quei sapori e cambiare non faceva bene. La famiglia di Doriana non aveva mai ceduto il passo, totalmente, alla modernizzazione imposta dalla tecnica e solo lei, dopo sua zia che l' aveva ospitata in continente, aveva scelto di vivere secondo i dettami del cambiamento, pagando per quella scelta, non compresa dal resto della famiglia, col freddo distacco e un sordo rancore mai assopito del tutto.
Le due donne completarono la preparazione del pranzo e Raffaele non era ancora rientrato.
“Possibile che non si sia ancora deciso a comprare un cellulare?” aveva protestato Doriana traendo la sua porzione dalla padella a centrotavola.
“E per cosa? Per essere disturbato continuamente? “
“No mamma, per tenere i contatti con la famiglia, con te, con Stefania... Voi vi ostinate a voler rimanere indietro quando il mondo corre avanti e va bene ma almeno le cose utili! Un telefono è utile quando sei fuori, in campagna, tutto il giorno. Se nonno avesse avuto un cellulare ora non saremmo qui a cercarlo e preoccuparci per lui!”
Gavina spostò la sedia rumorosamente e si sollevò di scatto, dirigendosi alla porta che dava nella zona notte. Tornò nel giro di un minuto portando una scatola in mano che appoggiò sul tavolo accanto alla figlia e tornò a sedere, riprendendo a mangiare “Ecco, guarda! Tuo fratello ci aveva pensato e glielo aveva regalato per i cento anni. Guarda dov'è il telefono. Mai uscito da quella scatola! E ce l'ha anche Raffaele ma lo tiene spento. Chiama lui quando deve dire cosa.”
“Beh, almeno mio fratello qualche passo avanti lo ha fatto. E tu non ce l'hai il suo numero?”
Gavina dondolò la testa, continuando a masticare il boccone che le riempiva la guancia destra. Non sarebbe mai andata dal dentista per recuperare la masticazione anche dall'altra parte, nonostante le insistenze della figlia.
“Già” rispose Doriana quasi parlando a se stessa
“sarebbe pretendere troppo...”
Il silenzio accompagnò il resto del pranzo e le poche parole che si scambiarono le due donne riguardavano le naturali mansioni successive per sistemare la cucina.
Quell'atmosfera muta e immobile pulsava nelle tempie di Doriana riconducendola ai suoni, ora assenti che fino al giorno prima avevano popolato la sua mente. Era curioso il fatto che le venisse mal di testa per il troppo silenzio eppure era quello l'effetto che ricopriva quel momento: un feroce mal di testa e l'ansimante, muta richiesta di percepire un rumore qualsiasi oltre la porta: il motore di un'auto, delle voci, anche il grido di un uccello sarebbe stato una benedizione. Invece lì c'era solo quel silenzio di un pomeriggio di torrida estate in cui neppure un cinguettio si avventurava oltre l'ombra di un riparo.
Gavina si era appisolata sulla poltrona e Doriana decise di coricarsi in quello che era sempre stato il suo letto, nella sua stanza, rimasta uguale anch'essa da quel lontano settembre 1988 in cui si era chiusa alle spalle quella porta e un futuro che non desiderava. Impostò la sveglia sul cellulare alle 15.30 e si distese sulle lenzuola, dopo aver abbassato il copriletto, inoltrandosi in un sonno anestetico.

Monica Benedetti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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