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Autore: Emanuele Giustiniani
Marvin 2 - Forza della Natura
Urban Fantasy
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Marvin 2 - Forza della Natura
Libro di storia.

Mentre sfogliava distrattamente il libro di storia, sdraiato sul divano letto del suo piccolo rifugio sotto la Villa Erebo, l'attenzione di Marvin Borman fu richiamata da un particolare.
«Oh! Guarda un po' chi si rivede...» esclamò, fermandosi a guardare con più attenzione. «Dai un'occhiata a questa foto, Greta.»
La donna seduta accanto a lui sorrise tra sé, fingendo disinteresse e continuando la lettura di un settimanale di pettegolezzi.
«L'hai trovata, finalmente.»
«Ah, quindi già lo sapevi? Ecco perché me l'hai regalato.» Continuava a guardare quella pagina del libro con un misto di ammirazione e nostalgia. «E io che pensavo fosse per mettermi al corrente degli ultimi avvenimenti accaduti durante i miei dieci anni passati all'inferno. E invece...»
«... e invece volevo stuzzicare il tuo lato narcisista. Non che ce ne fosse bisogno, in effetti. Non è vero, Marvin?»
Greta gettò da una parte la rivista di gossip che stava leggendo, avvicinandosi per osservare meglio la foto.
«Certo che stavi proprio bene in uniforme. Quel blu ti donava parecchio.»
«C'è qualcosa che non mi dona addosso, per caso? O forse mi preferisci nudo?»
Grate si finse scandalizzata.
«Ma senti che mi tocca sentire! Non alzare troppo la cresta, galletto.» Gli diede un buffetto sulla guancia, seguito da un bacio leggero. Poi si alzò e si diresse verso la porta.
«Ora devo rientrare dalla pausa pranzo». Aprì la porta e si fermò per lanciargli una stoccatina. «Non so quanto tu possa essere attraente senza quella divisa. E comunque... Non ti ho mai visto nudo. E non so se ti concederò mai di farti vedere nudo da me.»
«Prima o poi cederai, bellezza. Più prima che poi.» Le strizzò l'occhio, mentre lei gli lanciava un bacio dalla porta e risaliva alla sua postazione di lavoro, all'ultimo piano della Villa Erebo.
Marvin rimase ancora un'ora nel suo mini appartamento, a ripensare a quei momenti e a rimirare la foto, rileggendo la didascalia stampata sotto.
1918. Reggimento di fanteria francese in posa con lo stendardo francese, dopo la vittoriosa quarta battaglia di Ypres, in Belgio.
Al centro della foto, spiccava la figura del Capitano di battaglione, Louis Chevalier, impettito e fiero.
“C'è poco da dire, ha carisma da vendere il Capitano. Cattura subito lo sguardo. Saranno pure quei bei baffoni così tanto curati,” pensò con affettuoso sarcasmo.
Sul lato destro del Capitano appariva il viso simpatico, ma provato dalla lunga guerra di trincea, di Marin Dieudonné.
“Chissà quante francesine avrà fatto cadere ai suoi piedi, al ritorno in Patria. Troppe ne avrà fatte innamorare, raccontando le sue avventure in trincea.”
Alla sinistra del Capitano, coperto in parte da un mazzo di fiori messo lì dal fotografo ufficiale dell'epoca, compariva proprio lui, Marvin Borman. Con la sua bella divisa blu, il fucile e una gran bella storia da raccontare. Senza rendersene conto, passò la mano sopra la foto, carezzandola con la punta delle dita.
Avrebbe voluto rivederli, quei ragazzi, anche se in luoghi e situazioni meno spiacevoli. Alla fine, si erano dimostrati dei bravi ragazzi, troppo giovani e inesperti per una guerra. “Quella va bene per hijos de puta come me” si ritrovò a pensare Marvin.
“Chissà che fine avranno fatto, al ritorno a casa, dopo la guerra. Se hanno proseguito la carriera nell'esercito o hanno abbandonato la divisa, dedicandosi ad altro. Anzi, chissà se sono tornati a casa... O se sono ancora vivi.”
Rimase ancora un po' a pensare a quei ragazzi, suoi improvvisati commilitoni, poi mise il libro sul tavolo di fronte a lui, la pagina ancora aperta sulla foto.
Prese la pagina di pregiata carta lucida e cominciò a strapparla lungo il bordo attaccato, stando attento a non rovinarla. La piegò e se la infilò in tasca.
“Basta pensieri nostalgici. Andiamo a vedere se la cara Odalys ha finito con questa sfilata. Mi aveva chiesto tempo e gliel'ho dato, ma ora sono passate settimane e ancora non mi ha detto nulla.
Credo sia meglio parlarle di persona, ancora una volta.”
Da quando era tornato dalla Prima Guerra Mondiale, non poteva dire di essersi trovato male. Era uscito un altro paio di volte da solo con Greta. Al di là di qualche bacio e qualche carezza, la ragazza non era voluta andare oltre e Marvin non aveva insistito.
Per vari motivi, tra cui il divario di età tra loro due, ma il più importante era che non voleva indispettire la sua datrice di lavoro. Lei non vedeva di buon occhio le relazioni tra dipendenti e Borman non aveva nessuna voglia di incorrere nelle sue antipatie. Già una volta lo aveva fatto ed era riuscito a rimediare un volo fuori programma, conclusosi con lo schianto sul tavolo di cristallo del suo ufficio.
Per quanto piacevoli fossero le giornate passate girando per Roma senza avere nulla da fare, quella prolungata inattività aveva reso nervoso Marvin.
Era un uomo d'azione, uno pronto ad essere buttato nella mischia, non certo un viveur. Troppa pace lo stancava, lo nauseava quasi.
Marvin bramava l'azione e Odalys era in grado di dargliela a dosi massicce. Ma sembrava dovesse essere di nuovo spronata affinché lo rimandasse in missione. Di questo Marvin non se ne capacitava.
“All'inizio sembrava che non vedesse l'ora di spedirmi indietro nel tempo a recuperare il lavoro lasciato in sospeso da lei, anzi era una condizione imprescindibile che io partissi il prima possibile, così da ripagare il debito nei suoi confronti. Adesso, invece, sembra quasi che mi stia evitando, che non voglia più farmi partire. E se ci avesse ripensato? Se avesse deciso di farmi tornare all'inferno? No, basta, non posso più aspettare, devo sapere.”
Uscì dal seminterrato, deciso a ritornare in missione il prima possibile. O almeno a porre fine a quella serie di dubbi nati nella sua mente.

Attese.

Non era ancora arrivata in ufficio, Odalys, per cui Marvin si avvicinò a Greta, seduta alla scrivania.
«Senti, ma la nostra cara datrice di lavoro ha intenzione di non venire anche oggi? Sai che le devo parlare con urgenza.»
«Mi dispiace, Marvin. Ti ho già detto che la signora Erebo non mi avverte dei suoi spostamenti. Potrebbe anche non venire, oggi. Perché non approfitti di questa bella giornata per uscire e farti un giro? Io morirei dalla voglia di passeggiare per Roma invece di starmene chiusa qui in ufficio.»
Marvin storse il labbro.
«Sono stufo di bighellonare tutto il giorno. Almeno mi desse qualcosa da fare, nel frattempo. No, non andrò fuori. Rimarrò qui.»
Si mise a camminare avanti e indietro per il corridoio, con passo nervoso, più e più volte. Mancò poco che non lasciasse il solco sulla moquette.
Passò davanti alla porta trasparente dell'ufficio di Odalys e lanciò un'occhiata oltre il vetro, immaginando di vederla comparire dal nulla sulla sua poltrona.
“Non mi stupirei: dalla Dea della Vendetta c'è da aspettarsi questo e altro. Magari è capace di diventare invisibile e passarmi sotto il naso senza che io me ne accorga.” Non poté non buttare l'occhio alla moquette, alla ricerca di orme formatesi nel frattempo tra i morbidi fili intrecciati.
Continuò ad aspettare, in un crescendo di nervosismo, di fronte all'ufficio di Odalys fino a quando Greta, stufa di tutto quell'andirivieni, non sbottò.
«Marvin, smettila! È inutile che aspetti. E soprattutto, mi distrai dal lavoro se ti vedo passeggiare avanti e indietro come un leone in gabbia. Fai come ti ho detto, fatti un giro e dopo torna a casa. Ci penso io ad avvertirti se lei ritorna, d'accordo? Ora vai, per favore.»
Poi aggiunse, come una madre indispettita ma pur sempre protettiva. «E vedi di non farti notare troppo!»
Marvin si allontanò, stupito più dal tono autoritario della ragazza che dalle parole usate.
“A stare tutto questo tempo a lavorare con Odalys, pure a Greta le sta uscendo fuori un caratteraccio. Tale madre, tale figlia...”
Così, seppur riluttante, uscì da Villa Erebo e si mise a girare per le strade di Roma. Non aveva tanta voglia di fare il turista, sebbene la Città Eterna lo meritasse, perciò si decise a fare una puntatina dal tabaccaio. Era tanto nervoso, sia per l'attesa infinita di Odalys sia per la rispostaccia di Greta. Una bella fumata gli avrebbe rilassato i nervi.
Mani in tasca e viso imbronciato, arrivò nei pressi del negozio. Era a un passo dall'entrata, quando delle voci concitate provennero dall'interno della tabaccheria.
«Non farmi perdere tempo, vecchio! Dammi tutto quello che hai!»
Borman allungò la testa per vedere cosa stesse accadendo, pur avendolo intuito. Con le mani si appoggiò al muro, cercando di non farsi vedere.
“Ah, le vecchie e care rapine” pensò Marvin con un sorrisetto beffardo, tornando indietro con la memoria a quando le compiva lui stesso in Cile, appena ragazzino. “Non passano mai di moda. Paese che vai, rapina che trovi.”
Al di là della vetrina, vide la figura smilza del rapinatore mentre si rivolgeva, tutto nervoso, al proprietario dei tabacchi. Il viso era coperto dal passamontagna e la voce arrivava un po' soffocata, attraverso la spessa stoffa. Assieme a lui, vi era un altro ragazzo, il complice. Entrambi erano armati.
Il secondo ragazzo, più grosso e muscoloso, teneva sotto mira quello che sembrava essere un cliente capitato lì nel momento sbagliato.
«Riempi questa busta! Svelto, vecchio!»
Il vecchio tabaccaio, seppur avvezzo ai pericoli che comportava avere un'attività come la sua, era visibilmente preoccupato.
«E tu non pensare di filartela, o ti faccio un bel buco in testa» disse invece il secondo ragazzo, quello più muscoloso, rivolgendosi all'unico, disgraziato cliente capitato lì per caso.
«E non credere di cavartela. Inizia a svuotare le tasche e a darci tutto quello che hai, sbrigati!»
Marvin notò il volto pallido del negoziante, mentre cercava di riempire la busta data dal rapinatore, e quello ancora più spaventato del cliente, mentre rovistava nel suo soprabito alla ricerca di soldi.
“Sono troppo agitati, tutti quanti. Qui ci scappa il morto. E se accade, questa tabaccheria rischia di chiudere per sempre. Carajo! Mi toccherebbe allungare il giro per prendermi le sigarette...” Marvin rifletté sul da farsi.
“Però è pure vero che non dovrei farmi coinvolgere, meno si sa di me e meglio è, sia in questo tempo che in altri.” Si rimise le mani in tasca, deciso a proseguire il suo cammino.
Intanto dentro la situazione andava peggiorando.
«Ti ho detto di sbrigarti, cazzo! Cosa sei stupido, vecchio? Apri quella cassa e mettici dentro tutto. E quando dico tutto, intendo dire anche la parte che tieni nascosta sotto il cassetto, chiaro?» Il rapinatore stava diventando sempre più nervoso.
«Non... non riesco ad aprirlo. Mi tremano le mani.» Il vecchio tabaccaio quasi non vedeva nulla davanti a sé, tanta era la tensione del momento, e i suoi riflessi erano ormai un ricordo sbiadito. Così, non vide nemmeno partire il manrovescio che lo colpì in pieno. Accusato il colpo, quasi si accasciò, colpendo con la schiena la vetrina alle sue spalle e facendo cadere per terra alcuni pacchetti di sigarilli.
«Hai deciso di farmi incazzare, vero? Ti spedisco al campo santo, vecchio!»
Lo smilzo gli puntò l'arma contro, mentre il viso del tabaccaio si faceva sempre più ceruleo.
«No, no... ti prego...» Il tono del vecchio era diventato supplichevole, la voce ormai flebile.
Lo smilzo armò la pistola, tirandone indietro il cane.
«Ti ammazzo, adesso.»
Sentiva le vene pulsargli, era pronto a sparare a quel vecchio, non gliene fregava niente delle conseguenze.
«Ehilà!» disse una voce allegra alle sue spalle.
Tutti si voltarono all'unisono, come ballerini professionisti durante le prove di una coreografia provata e riprovata.
«Che carini che siete! Vi siete mossi tutti insieme, bravi!» disse Marvin, tenendo le mani in tasca e sfoggiando il suo miglior sorriso. Sembrava stesse facendo uno scherzo a dei vecchi compagni di scuola.
«E tu che cazzo vuoi? Stai fermo!» disse stupito lo smilzo.
«Alza le mani, coglione!» intimò il muscoloso, prendendolo di mira.
«Ehi, ehi, calma ragazzi. Uno alla volta. Che devo fare, allora? stare fermo o alzare le mani?» Continuava a sorridere, come se quella situazione fosse la più banale al mondo. E forse per lui lo era, in effetti. Provocò i rapinatori. «Chi è il capo, tra voi due?»
«Io» risposero all'unisono i due rapinatori, guardandosi l'un con l'altro. Le labbra di Marvin si incresparono in un altro sorriso, questa volta di soddisfazione. Poteva giurare che, sotto quei passamontagna, i due rapinatori si stessero guardando in cagnesco tra loro su chi dovesse avere il comando in quella rapina.
«Oh, capisco, problemi su chi deve comandare, eh? Su, su, da bravi bambini, non vi vorrete mica mettere a litigare per questo? Non avete le idee tanto chiare, questo l'abbiamo capito. Ma è normale, specie se siete alle prime esperienze. Posso capirlo, anche io ero piuttosto nervoso le prime volte. Ma poi tutto diventa più facile, credetemi. Basta prenderci un po' la mano.»
Rimanendo con le mani in tasca e sorridendo come il più amabile degli anfitrioni.
«Vediamo un po', chi tra voi due è più adatto a comandare?» Passò lo sguardo da uno all'altro, soffermandosi su quello più muscoloso.
«Direi che dall'aspetto, dovresti essere tu il capo. Grande e grosso come sei, di sicuro sei uno tosto.»
Si avvicinò un poco di più.
«Permettimi di darti un consiglio. Il tizio accanto a te, quello che trema di paura... beh, non dovresti tenerlo in piedi accanto a te. Doveva essere già atterrato con un calcio negli stinchi e costretto a terra. Non sai mai che reazioni possa avere un uomo, quando è pieno di adrenalina, sai?»
Lo smilzo reagì con prontezza.
«Stai fermo, non ti avvicinare. Chi cazzo sei? Inizia tu a metterti a terra, allora» ordinò a Marvin, dando le spalle al tabaccaio. Il quale non si lasciò sfuggire l'occasione e armeggiò sotto il bancone, allungando il braccio. Lo smilzo si rigirò subito, tenendo però la pistola puntata verso quello strano sconosciuto.
«Tu apri quella cazzo di cassa, sennò finisce male per te, fallo!»
Si rivolse di nuovo a Marvin, minacciandolo con l'arma.
«E tu tira fuori le mani dalle tasche e dammi quello che hai.»
Borman lo fissò negli occhi. Il sorriso sornione era scomparso. Ma l'espressione del viso non denotava alcuna minaccia. Sembrava stesse assistendo a una recita noiosa e volesse porne fine quanto prima.
«Naah. Non lo farò.»
I due rapinatori non dissero nulla, allibiti da quella risposta. Anche il tabaccaio e il cliente lo fissavano, ancora più allibiti.
Il rapinatore muscoloso era scandalizzato. Una vittima di una rapina che si dimostra capace di ribellarsi. Non esistevano più le vittime di una volta.
«Che cazzo credi di fare, coglione? Queste sono armi vere!»
«Lo so, lo so. Siete voi che non siete uomini veri. Né tantomeno rapinatori professionisti.» provocò ancora Borman.
«Che... Che hai detto? Che cazzo hai detto?!» urlò lo smilzo. La voce, con una punta di nevrastenia, sembrò strozzarsi in gola.
«Hai sentito, hijo de puta. Non siete uomini veri, solo ragazzini del cazzo.»
Non diede modo ai rapinatori di rispondere. Con uno scatto si slanciò su quello muscoloso, il più vicino a lui. Gli si avventò contro, stringendogli il polso per fargli mollare la presa. Quello, non aspettandosi che tutto quel peso gli crollasse addosso, perse l'equilibrio.
Entrambi travolsero il cliente, che si ritrovò disteso per terra con addosso quei due che lottavano con furia per il controllo della pistola.
Il tabaccaio, ripresosi dallo stupore iniziale, si precipitò nel retrobottega, chiudendosi la porta blindata alle spalle e buttandosi a terra; non ne voleva sapere niente, desiderava solo che tutto quel trambusto finisse. Lo smilzo, preso di sorpresa, riuscì a esplodere due colpi contro la porta. Tutto inutile, ormai era chiusa, il tabaccaio si era messo al sicuro.
«Fermo, no, stai fermo!» ma ormai il vecchio non lo stava più a sentire, al riparo oltre la porta. Il rapinatore imprecò prima di volgere lo sguardo ai due a terra che continuavano a lottare, dimenandosi e mollando anche qualche gomitata al cliente, che rimaneva stordito a terra.
Il muscoloso urlava di mollare la presa, inascoltato. Borman rimase in silenzio, pensando solo ad avere la meglio; gli rifilò un cazzotto in faccia, che il rapinatore incassò senza troppi problemi.
Allora Marvin insistette, colpendolo ancora e ancora, fino a quando non mollò la presa sull'arma.
Impegnato nel gonfiarlo di botte, Marvin non aveva fatto caso che il muscoloso aveva infilato la mano nel giacchetto e tirato fuori qualcosa. Lo fece scattare e infilò la lama dentro il costato di Marvin, fino a quando le costole non bloccarono il manico.
«Ahhh! Hijo de puta!» gridò, portando le mani all'impugnatura del coltello. Lo estrasse con un mugolio di dolore; il tagliente si sfilò dalla carne tutto insanguinato.
Non ebbe il tempo di rivolgere lo sguardo sull'aggressore, che subito quello gli fece piombare addosso una testata, proprio dritta sul naso. Qualcosa di molliccio scricchiolò. Marvin digrignò i denti, coprendosi il viso. Gli aveva rotto il naso.
Nelle mucose, l'odore ferroso del sangue che uscì rapido, invadendogli il setto nasale.
Faticò a respirare, tanto che dovette inspirare dalla bocca, producendo uno strano gorgoglio, composto di fiato spezzato e sangue.
Il rapinatore ne approfittò per rialzarsi. Cominciò a sferrare calci addosso a Marvin, rimasto a terra col volto coperto.
Gli diede due, tre, quattro colpi, prima che venisse afferrato per la caviglia da Marvin, che gli sollevò la gamba in aria, facendogli perdere l'equilibrio. Il rapinatore precipitò a terra, schiantandosi di schiena e rimanendo senza fiato. A quel punto, Marvin si mise le mani in faccia, serrando le dita attorno al naso e, con una mossa secca, riallineò il setto nasale. Si percepì un sommesso schiocco, prima che il suo naso riprendesse la posizione originaria. A quel punto, respirando meglio di qualche istante prima, Borman si alzò in piedi. «Ora tocca a me», sentenziò, prima di tempestare di calci il secondo rapinatore.
“È un buon incassatore”, pensò Marvin; non avrebbe saputo dire se per via di tutte quelle iniezioni di ormoni che lo avevano gonfiato o per qualche aiutino assunto prima della rapina. Quando vide che non reagiva, Marvin si avventò sulla pistola caduta a terra.
L'aveva appena afferrata che subito l'altro rapinatore gli esplose contro due colpi, che lo ferirono alla spalla e al petto. Borman crollò sul pavimento, con ancora la pistola tra le mani.
Lo smilzo lo aveva beccato in pieno.
Aveva aspettato il momento giusto per farlo, quando era sicuro di non beccare il suo compare.
In un negozio così piccolo, non era stato difficile colpirlo da quella distanza.
Lo smilzo tremava ancora, con la pistola in pugno, mentre il suo compare giaceva immobile da una parte, incosciente.
Nella confusione del momento, ebbe la lucidità di pensare di fuggire via.
Ormai il vecchio si era chiuso nel retrobottega e non lo avrebbe stanato mai più da lì. Inoltre, con molte probabilità, qualcuno aveva sentito i colpi esplosi e forse aveva già allertato le forze dell'ordine.
E se lo avessero beccato con un tizio appena freddato...
In quanto al suo compare, che se la vedesse da solo. Non poteva certo trascinarselo in spalla fino alla macchina.
Lo smilzo corse verso l'uscita, scavalcando con un balzo il corpo di Marvin. Ma nel giro di una frazione di secondo, si sentì afferrare la caviglia e tirare giù. Il viso dello smilzo ebbe un incontro ravvicinato, e assai doloroso, con il pavimento.
Fu uno scontro duro, ma tra la carne e le ossa di uno e la superficie di marmo dell'altro, l'esito fu scontato. Lo smilzo perse quasi conoscenza e rimase lì per terra, intontito, in una posa scomposta, con la caviglia ancora imprigionata dalla presa robusta di Marvin, che dopo pochi secondi si alzò.
«Avete proprio deciso di rendermela difficile, eh?»
«Ma tu... Tu chi cazzo sei?» chiese lo smilzo sgranando gli occhi. «Ti ho sparato. Non può essere, non può...» non completò la frase, perché un cazzotto ben piazzato di Marvin lo mandò a dormire.
«Dilettanti...» commentò, dandosi una rapida controllata agli abiti.
«Oh no, di nuovo!» Passò la punta del dito nei fori prodotti dai proiettili. “Altro cambio d'abito,” ebbe a pensare.
«E meno male che non dovevo farmi notare», commentò a bassa voce. «Odalys mi ammazzerà... E Greta le darà una mano.»
Sentiva ancora dolore per le pallottole che lo avevano attraversato, ma percepiva anche come le ferite si stessero cicatrizzando con rapidità.
Era stato fortunato, stavolta. Le pallottole non avevano lesionato organi vitali. La guarigione era stata più veloce, rispetto a quella volta nel bosco, in Belgio.
Diede un'occhiata al cliente. Era ancora dolorante e steso a terra. Ma era vivo.
La voglia di fumare di Marvin non era diminuita, anzi era aumentata dopo tutto quel trambusto. Fece il giro del bancone e raccolse da terra le scatole di sigarette. Se ne prese un paio. Andò verso la porta chiusa, dietro la quale si era rifugiato il vecchio. Con le nocche diede due colpetti alla porta.
«Ehi, lì dentro. Qui è tutto finito. Prendo qualche pacchetto. Consideralo un rimborso spese per la protezione, amigo» disse ad alta voce, sapendo che il tabaccaio lo sentiva al di là della porta blindata, ma era troppo impaurito per aprirgli.
Cercò sul bancone un accendino e si accese una sigaretta.
Aspirò una grande boccata, con soddisfazione. Espirò, rimanendo a osservare la nuvoletta di fumo che salì su, fino al soffitto. Infilò l'accendino in tasca, assieme ai pacchetti.
Un gemito provenne dalla base del bancone, al di fuori della sua visuale. Rifece il giro. Il rapinatore, quello muscoloso, si stava riprendendo dai pugni ricevuti. Marvin non si fece pregare e gli rifilò un calcio sulla mandibola, con la stessa scioltezza con cui si colpisce una cartaccia trovata sul marciapiede. Quello ritornò nel mondo dei sogni, dopo un breve gemito.
Tornò ancora una volta con lo sguardo sul cliente, rimasto accucciato a terra. Non era abituato a simili emozioni, il poveretto.
«Giornata schifosa, eh? È finita, amigo, vattene» disse Marvin per rincuorarlo, ma quello neanche lo stava a sentire. Scavalcò lo smilzo e se ne uscì, scostando la tenda di perline della tabaccheria.
Per oggi, aveva compiuto la sua buona azione quotidiana.

Emanuele Giustiniani

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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