Crimini e delitti nel bolognese.
Domenica
Agguantò nervosamente il cellulare per la terza volta. Alle prime due, dopo quattro squilli senza risposta, aveva chiuso. Tuuut... tuuut... tuuut... Stava nuovamente per desistere, quando... «Pronto... ma chi è...?». «Cesà, ma se pó sapé ‘ndo cazzo stai? È più du ‘n'ora che te stò a chiamà. Stai ancora a dormì o sei in giro a inseguì ladri de galline pur'oggi?». Silenzio... «De Giorgi...? Ma sei tu?» mormorò con tono da sonnambulo. «Sì... cioè no... non lo so... ero a letto. Ma che ore sono?». «È tardi, svejate! Fatti un caffè e... anzi, fa ‘na cosa: vestiti, scendi e prendilo al bar che fai prima e poi corri di filato in questura, prendi con te Mancuso o Iannaccone e andate di corsa a Budrio: casa di riposo Villa Adele. Capito? Villa Adele! Se só persi un paziente anziano. Vedi de capì che è successo.» Silenzio. «Cesà...?». «... Eh?». «Ahò! Ma te voi da ‘na mossa stamatina?». «Scusa De Giorgi, ma... non sono nemmeno le otto meno venti... ma che giorno è oggi?». «Domenica. Perché?». «Ma... sono di riposo». «Te pijasse ‘n córpo, Cesà! È un'urgenza!». «Spiegati meglio... cos'è successo?». «Ancora non lo so e la Centrale non ha specificato altro. Sbrigate!». «Ma tu adesso dove sei? Dove stai andando?». «Pur'io stó annà a Budrio, ma dal parroco del paese» si sbrigò di dire, togliendogli la parola. Silenzio. «Si può sapere mo' che c'entra il parroco?». «Cesà, oltre all'anziano, nel paese se so persi pure un prete che ciaveva da dì messa.» Ancora momenti di silenzio... Il vice commissario Diego Cesari si sedette sul letto, stralunato e faticando nel capirci qualcosa. «Mo soc'mél... Ma che cazzo sta succedendo a Budrio stamattina?». «'Fanculo, Cesà. Me sa che un giorno de questi te meno! Fa' come t'ho detto e datte ‘sta benedetta mossa! E appena sai quarcosa, famme sapé. C-h-i-a-m-a-m-e!». «Okay, okay. Corro... scendo subito» fece, anche se il commissario Jacopo De Giorgi aveva già chiuso la chiamata.
Appena fuori dal centro abitato di Bologna e superata una piccola cittadina, si ritrovarono in mezzo alla piatta campagna e i fanali della Giulietta disegnavano solo due lunghe linee parallele, come delle lame taglienti, cercando di infilarsi, per quanto possibile, in quel manto bianco, umido e lattiginoso che qui chiamano nebbia, che, senza alcun riguardo, soffocava tutto. «Ma che è ‘sta cazzo de nebbia? Nun se vede nniente!». «Ve l'avevo detto, dottore. Uscendo dalla città la nebbia aumenta, e di molto» rispose l'ispettore alla guida. «Borghi...». «Dica, dottore...». «Poi me spieghi come fai a guidà. Io nun ce vedo ‘n'emerita mazza!». Dopo un po'... «Borghi...». «Sì, dottore...». «Só pericolose ‘ste strade». «Perché?». «Non c'è traccia di guardrail e ai lati ce stanno certi fossi... e só pure grandi e profondi, porca mignotta. Se uno mette le ruote appena fuori dall'asfalto se sfrantuma... se ribalta. Che só?». «Sono i canali di scolo. Sa, per il deflusso delle acque.» De Giorgi rifletteva. «Così attaccati alla carreggiata e così profondi?». «È vero, non c'è molto spazio... bisogna stare attenti». «Appunto! Tu va' più piano e tieni gli occhi sprangati... E sta' attento alla nebbia e a ‘sti benedetti canali.» L'ispettore Simone Borghi sorrise. «Non si preoccupi, dottore, ci sono abituato. Anzi dalle mie parti, nel ferrarese, la nebbia è anche peggio». «... Li mortacci...».
Ogni tanto, però, la guida richiedeva svariati “sinistra-destra-sinistra” improvvisi e rischiosi, con tanto di scuotimenti fisici e sussulti di spavento del commissario, il quale si aggrappava alla maniglia dello sportello più forte che poteva e, durante le accelerazioni, le frenate e una ragguardevole serie di imprecazioni, riusciva a malapena ad intravedere sull'asfalto degli accumuli strani, deformi, irregolari e maciullati. «E questi? Che só tutti ‘sti cosi per strada? Borghi! Che cazzo de bestie sono?» domandò sconcertato. «Nutrie. Sono solo delle nutrie. Qualche macchina prima di noi ne ha messe sotto qualcuna». «Qualcuna? Ma che stai a dì... Questa è ‘na strage!». «Vivono nei canali, dottore. Si fermano in mezzo alla strada abbagliati dai fari e tu non puoi fare altro, purtroppo. Colpa della nebbia». «Ma queste nun só nutrie... só vitelli per quanto só grosse! Tra ‘na nutria e un cane... scappa er cane.»
Appena entrati in paese, De Giorgi lo bloccò. «Aaalt... Stooop! Fermate qua. Lì c'è un bar. Andiamo a prenderci qualcosa prima di iniziare questa splendida giornata...» ripensando alla nebbia fitta, alle infinite nutrie sterminate per strada, ma, soprattutto, alla bellissima Virginia che a malincuore aveva dovuto lasciare da sola nel letto, dopo una indimenticabile serata ed una memorabile nottata, per colpa di una persona anziana e di un prete che avevano avuto la felice idea di dissolversi nel nulla. Già, Virginia. Bella, anzi bellissima, brillante, dinamica ed intraprendente inviata del Carlino, che con i suoi modi di fare, con la sua immensa vitalità e con quella “erre” alla francese aveva letteralmente mandato in subbuglio, come forse mai gli era accaduto, il suo cuore, la testa ed anche qualcos'altro.
Il caffè era passabile, il cornetto, invece, meglio non pensarci e, nell'attesa che Borghi terminasse di inzuppare beatamente come un bambino felice e goloso la sua brioche nel cappuccino, Jacopo pagò, uscì fuori e diede fuoco al mezzo toscano. L'aria era frizzante, tosta, e la nebbia continuava a star lì, ferma e immobile. Sembrava stesse montando la guardia in quel paese silenzioso e deserto. Sì, deserto. In giro non si vedeva anima viva, a parte loro due e il barista, e se provava a guardarsi intorno, riusciva solo a intravedere le finestre delle case ancora chiuse, serrate. Non c'era nemmeno una macchina che passasse, neanche per sbaglio. Silenzio più assoluto. Gli sembrava un altro mondo rispetto alla sua città, Roma, che a quell'ora era già attanagliata dal frastuono del traffico e dai soliti imbecilli con le mani incollate ai clacson strombettando convulsamente per tutto, soprattutto ai semafori nonostante non fosse ancora il turno della luce verde. Che cazzo ciavranno, poi, da soná così? Boh... Lì, no. Silenzio totale. Pensava che se a qualcuno fosse scappata per puro caso una scorreggia, l'avrebbero sentita tutti, anche nelle frazioni vicine. Mentre rifletteva su quelle enormi differenze, le orecchie cominciarono a captare uno strano cigolio. Una specie di “truck track” che piano piano avvertiva sempre più vicino. Da dove sopraggiungeva quello scricchiolio, non si sa. “Truck track, truck track” e, come per miracolo, spuntò dalla coltre nebbiosa, dall'angolo di una stretta stradina, un essere vivente, un vecchietto tutto intabarrato dalla testa ai piedi in sella ad una vecchia e malmessa bicicletta, producendo, ad ogni pedalata, un frastuono di ferraglia insopportabile. “Truck track, truck track” e, passandogli accanto, alzò la testa, lo mirò, sollevò un braccio e con un mostruoso vocione baritonale urlò: «Bån dè!». Non avendo capito cosa avesse detto il vecchietto tutto intabarrato, lui di rimando replicò: «A sóreta!» alzando un braccio pure lui. Chissà che cazzo ciaveva da dirmi, si domandò. Li mortacci... ci avranno sentito tutti. Abbiamo svegliato tutto il paese... Per un momento ebbe la percezione di un'immagine d'altri tempi, un po' come nei vecchi film di Peppone e Don Camillo: un paese, il nebbione che foderava anche i colori più appariscenti, nessuno in giro, una calma d'altri tempi, un vecchietto su un'altrettanta vecchia e sgangherata bicicletta... Insomma, il quadro gli sembrava quello. Perfetto in ogni virgola. Già, il prete. Avevano veramente appuntamento con il prete del paese, ma non si trattava di Don Camillo, bensì di Don Emilio Accarisi, parroco della chiesa di San Lorenzo, autore della richiesta di aiuto alla Centrale Operativa. Terminata la generosa colazione, finalmente uscì fuori dal bar, beato e con calma angelica, anche l'ispettore. «Borghi...». «Dica, dottore...». «Che fine hanno fatto gli abitanti?». L'ispettore sorrise. «È ancora presto. È domenica. Ma nei paesi è così. C'è pace e tranquillità...». «Me cojoni... Anche tanta!». Poi, raggiunta l'auto: «Borghi...». «Dica...». «Mme dici che ‘sta ‘a significà...”bån dè?”». «Significa “buongiorno”. L'ha salutata qualcuno?». Jacopo lo scrutò sorpreso. «Sì. Un indigeno. L'unico vivente, probabilmente. E l'ho pure mannato ‘affanculo.»
Giunti con la Giulietta nera nel cortile posteriore della chiesa, Jacopo suonò all'unico pulsante che c'era su una porta con sopra scritto “Abitazione”, e dall'interno si udì echeggiare un cicalino piuttosto soffocato e scordato. Ne seguì un totale silenzio. Tutte le altre porte presenti non avevano nulla, niente pulsanti, citofoni o scritte e, dopo una lunghissima attesa, decise di riattaccare nuovamente il dito su quel solitario bottone, facendolo cantare questa volta a lungo, come un gallo ammattito. Finalmente tre giri di chiave, pesanti e rumorosi, si fecero avanti e la vecchia porta con esasperante lentezza, cigolando negli antichi cardini, calò le braghe. Si aprì, ma appena, e da quel minuscolo pertugio si affacciò una matassa di lana bianca e nera, più bianca che nera, all'altezza della maniglia. Forse più in basso. Dovettero chinare parecchio gli occhi per ammirare un rotolo irregolare di zazzere accomodate su una testa che a prima vista pareva appartenere ad una donna, meglio, ad un'anziana donna bassa, molto bassa, ma che dico... bassissima e pure bruttissima, uscita fuori da non si sa dove. I due spalancarono gli occhi sconcertati, guardandosi. «Buongiorno. Abbiamo appuntamento con Don Emilio. Siamo della...». La bassissima con le zazzere irregolari non lo lasciò nemmeno finire: «Chi devo dire?». «Polizia!». «'O veh... siete voi, alåura» gettando uno sguardo apatico. «Era ora, sapete? Il reverendo vi sta aspettando già da un bel po'. A sån la perpetua» mugugnò la vecchiarda con voce ruvida e impastata, squadrandolo con estrema severità. Se c'è una cosa che Jacopo proprio non sopporta e che lo manda in bestia, è quando qualcuno lo osserva in modo torvo dalla testa ai piedi. Cos'è, sono vestito male? Mi sono infilato scarpe diverse? Ho la cerniera dei pantaloni aperta? Rifletteva osservandosi. Poi si accorse di un particolare: la vecchia non aveva solo lo sguardo perfido, il dito della sua mano destra, tremante come la penna di un sismografo dopo una tremenda botta sismica, indicava senza ombra di dubbio il mezzo toscano che aveva fra le dita. «È spento» sottolineò veloce. «Non l'accendo, giuro...». E senza articolare altro, l'anziana perpetua li fece accomodare.
Una volta dentro si ritrovarono in un enorme androne freddo e buio. Le luci erano spente e un tanfo stagnante di chiuso invase, potente, le narici, seguito da un forte e penetrante puzzo di incenso. Oltrepassata una vecchia doppia porta con i vetri smerigliati, accedettero in un lungo corridoio, almeno così sembrava, più buio e pesto dell'androne e man mano che procedevano pigramente, tallonando il rotolo di zazzere e stando attenti a dove mettevano i piedi nell'attesa che gli occhi si abituassero a quella oscurità, cominciarono a scorgere qua e là statue di Madonne, di Santi, antichi quadri e quadretti tutti a tema religioso e una moltitudine di crocifissi di tutte le dimensioni, di ogni tipo e fattezze, appesi a delle pereti che, per quanto potessero notare, non vedevano pittura fresca probabilmente da più lustri, ad occhio e “croce” (è il caso di dirlo...). L'insieme dava l'idea di un arcaico e tenebroso museo. Girato un angolo e dopo un altro lungo tratto di corridoio, intravidero le scale. Intanto che procedevano lentamente e, ovviamente, sempre nella penombra, Jacopo non si poté trattenere: «Scusi la domanda: ma è andata via la corrente?». «No!» fece la vecchia, bloccandosi e sempre con tono scontroso. «È che a Don Emilio dà molto fastidio la luce e i suoi occhi non sono più quelli di una volta.» E così, al pari di un corteo funebre che avanzava con esasperante indolenza, finalmente arrivarono al primo piano, dove quattro porte chiuse erano lì ad attendere, ovviamente al buio, una a sinistra, due al centro, una a destra. La bassissima e scorbutica perpetua diede due colpetti con le nocche a quella di destra e una voce delicata, dall'altra parte, ordinò di entrare. «Reverendo, c'è la Polisia» rantolò, spostandosi per farli accomodare e, una volta entrati, la vecchiarda richiuse immediatamente la porta, silenziosa e rapida. L'anziano parroco era seduto su una sedia imbottita da svariati cuscini, dietro ad una vecchia scrivania di legno massiccio e logorata dal tempo. Più che altro sembrava un tavolaccio e lo studiolo era spoglio. L'unica finestra, dietro ad una passata, lercia e trasandata tenda, aveva gli scuroni chiusi e, a parte il tavolaccio con le due sedie davanti per gli ospiti, vi era solo una piccola libreria con le ante in vetro ad arredare l'ambiente. Null'altro, a parte un crocifisso appeso alla parete dietro al prete e un obsoleto abatjour sul piano della scrivania, pardon, del tavolaccio, la cui lampadina, poveretta, cercava in tutti i modi di darsi da fare per dare un po' di luce. In abito ecclesiastico, occhialini da presbite sulla punta del naso e con una enorme sciarpa avvolta intorno al collo, Don Emilio cercò di sollevarsi dalla sedia traboccante di cuscini per dare il benvenuto. Jacopo lo bloccò sul nascere, vedendolo muoversi a fatica: «Stia comodo, Don Emilio» avvicinandosi per stringergli la mano. «Sono il commissario De Giorgi, Squadra Mobile di Bologna. Lui è l'ispettore Borghi». «È un vero piacere conoscerla, commissario, e buongiorno anche a lei, ispettore» mormorò con un filo di voce, riaccasciandosi debole e infiacchito su quella sedia colma di cuscini. «Scusatemi, ma io più di così faccio fatica ad alzarmi. Dovete sapere che, oltre a questo tremendo raffreddore, qualche giorno fa sono anche caduto. Non ho visto l'ultimo gradino della scala e mi sono ritrovato, chissà come, disteso lungo lungo per terra». «Niente di rotto, spero» fece sibillino Jacopo, anche se una leggera ironia sull'assenza totale delle luci gli stava scappando di bocca. «No, no, commissario. Grazie a Dio niente di rotto» sollevando occhi e mani al cielo in segno di gratitudine. «Solamente una forte contusione ad una gamba, meno male. Alla mia veneranda età questi incidenti potrebbero diventare seriamente fastidiosi». «Mi vuole dire perché siamo qui?» attaccò senza altri preamboli. «Anche per questo motivo». «Don Emilio, non sono mica un medico...». «Non mi permetterei mai di scherzare in simili momenti. Adesso le spiego tutto.» L'anziano sacerdote rimosse gli occhialini dalla punta del naso, adagiandoli delicatamente sul tavolaccio. Poi riprese: «Ecco, vede... proprio perché faccio fatica a camminare e il medico ha detto che non devo fare sforzi almeno per una settimana, ho chiesto aiuto a Don Dino, bravissimo parroco della parrocchia di Vedrana e che stimo molto, di celebrare quantomeno la messa domenicale delle sette al mio posto. Poi, per le altre, vengono ad aiutarmi alcuni frati consacrati di una comunità qui vicino. Bene, Don Dino è una persona precisissima, non manca mai ad un appuntamento e, se proprio non può, lo dice per tempo. Quindi, questa sua assenza è di per sé già molto strana e poi non si è fatto nemmeno sentire. Ho telefonato in parrocchia, ma non sanno dirmi dov'è. Sembra scomparso e io ho cominciato a preoccuparmi». «Chi le ha risposto in questa parrocchia?». «Ho parlato con il diacono, del quale ora mi sfugge il nome. Stamattina, difatti, doveva celebrare messa lui nella chiesa di Vedrana al posto di Don Dino, che sarebbe venuto qui». «Come si sposta da Vedrana il parroco?». «Con la sua macchina. Guida molto bene ed è ancora giovane, bontà sua... però la macchina è lì, accanto alla sua abitazione, che fa corpo unico con la chiesa». «Sa dirmi quanti anni ha questo sacerdote?». «Se non ricordo male, poco più di una cinquantina». «Ed è molto conosciuto, immagino». «Lì a Vedrana certamente. È parroco da nemmeno quattro anni nella chiesa di Santa Maria Annunziata, ma anche qui a Budrio. Non è la prima volta che mette piede in questa parrocchia. Quindi sì, è abbastanza conosciuto». «Quanto dista da Budrio questo paese?». «Vedrana? È vicinissima. Saranno sì e no quattro, quattro chilometri e mezzo, non di più. Lei non è di queste parti, vero commissario? Ha un accento marcatamente romano». «Sì, sono di Roma e sono qui a Bologna da nemmeno dieci giorni. Ma... mi dica, il parroco in questione ha parenti? Magari loro sono al corrente di qualcosa». «Sì, certo. Ha ancora il padre in vita e se l'è portato dietro per non lasciarlo solo dopo la morte della moglie. Mi pare che l'ultima volta, prima di venire qui, fossero a Ravenna, o da quelle parti. Il padre lo conosco, ogni tanto mi viene a trovare e ci facciamo qualche bella chiacchierata. Brava persona». «Bene. E saprebbe anche dirmi dove abita? Forse lui potrà esserci di aiuto». «Essendo da solo non abita in un appartamento. È ospite alla Casa di Riposo... aspetti... si chiama... Villa Adele, sì. Casa di riposo Villa Adele. È proprio qui in paese.» De Giorgi e Borghi si scrutarono negli occhi con una certa incredulità. «Ha detto Villa Adele?». «Sì, certo. C'è qualche problema?». «No, Don Emilio... nessun problema. Un'ultima domanda: chi altri, oltre noi della Polizia, è a conoscenza che Don Dino non si trova?». «Il comandante dei Carabinieri della Stazione di Budrio, bravissima persona. Quando gli ho telefonato si è subito precipitato qui e, siccome sono pochi in caserma e hanno molte cose da fare, ha pensato bene di allertare la vostra Centrale Operativa, descrivendo l'accaduto e facendomi poi parlare personalmente con un agente». «È vero. Siamo a conoscenza che i colleghi hanno qualche difficoltà». «Subito dopo il comandante si è fatto un giro fino a Vedrana, quantomeno per accertarsi che non gli fosse capitato qualcosa. Magari invece della macchina avrà preferito prendere la bicicletta... ma niente. Proprio poco fa mi ha telefonato per dirmi che non ha trovato nulla». «Beh, don Emilio...» ribatté De Giorgi, «Andare in giro in bicicletta con questa nebbia...». «Infatti, è la stessa cosa che mi ha risposto il maresciallo. Ma c'è così tanta nebbia fuori?». «Ammazza se ce n'é! Mi perdoni... la parola fuori posto. Non ha dato uno sguardo fuori?». «Veramente no. Purtroppo la luce mi crea molto fastidio. Sa, anche gli occhi...». L'ispettore Borghi ad un certo punto, come uno scolaro, alzò la mano: «Posso fare una domanda?». «Certo che puoi» gli rispose prontamente De Giorgi. «Oltre al padre, Don Dino ha altri parenti?». «Che io sappia no» puntualizzò Don Emilio. «Non mi ha mai parlato di altri parenti. La cosa certa è che è figlio unico. Poi, se ha anche dei cugini in giro francamente non saprei...». «Va bene, Don Emilio. Ora ci diamo da fare. Lei, nel frattempo, non faccia sforzi e si curi per bene. Mi tolga una curiosità: potrei sapere quanti anni ha?». «Eh, commissario mio...» fece sorridendo, «Ormai sono arrivato all'ottantaquattresimo anno della mia vita terrena e, ringraziando sempre il Signore, anche in discreta forma, tranne adesso, s'intende.» Sorrisero e, dopo essersi salutati, ridiscesero le scale, sempre al buio e stando attenti a dove mettevano i piedi, scortati dalla lentissima, bassissima, imperturbabile e mostruosissima perpetua che, nel frattempo, si era tirata su l'orripilante rotolo di zazzere, raccogliendole in un altrettanto orribile “toupet”.
«Stai pensando a quel che penso anch'io?». «Sì, dottore. Questa cosa è strana davvero.» Jacopo prese il cellulare: «Ciao De Giorgi, dimmi...». «Cesà, ‘ndo state? Siete arrivati alla casa di riposo?». «In questo preciso momento. Abbiamo appena parcheggiato. Sòcc'mel, c'era una nebbia...». «Non me lo dire... Chi c'è lì con te?». «Iannaccone. L'agente Mancuso era di guardia». «Bene. Cominciate a sentire cosa dicono. Noi vi raggiungiamo più tardi». «Procedo. Adesso dove vai?». Anche questa era una di quelle cose che dava sui nervi a Jacopo... «Cesà, non te l'avevo già detto che sembri mì madre?» liquidandolo velocemente. «Andiamo Borghi. Andiamo a fare un salto dai “cugini” Carabinieri.» Intanto che raggiungevano la caserma, l'ispettore appariva stranamente taciturno. «Che c'è, Borghi? Ti vedo pensieroso». «Non... non mi spiego una cosa, dottore...». «E dimme...». «La vecchia signora, lì... prima ha detto di essere la per... per...». «La perpetua?». «Giusto! Sì. Cosa voleva dire?». «È un termine di manzoniana memoria. Oggi si chiamano collaboratrici del clero. Praticamente sono le donne al servizio di un sacerdote. Non ricordi niente dei Promessi Sposi?». «Mah... veramente...».
Il maresciallo capo, comandante della Stazione Carabinieri di Budrio, era un tipo alto, magrissimo, con dei capelli tutti bianchi e ricci, anche se dava l'impressione di non aver superato ancora la cinquantina e sfoggiava un naso sottilissimo e appuntito, e aveva una straordinaria somiglianza con un cantante che andava in voga parecchio tempo fa, ma che Jacopo, in quel momento, faticava a ricordarne il nome. «Buongiorno, dottore. Prego, accomodatevi pure. Maresciallo Palmisano Raffaele». «Lieto di conoscerla. Jacopo De Giorgi e lui è l'ispettore Simone Borghi, Squadra Mobile» e via con le consuete spremute di falangi. Piacere qui... molto lieto là... e via discorrendo. «Innanzitutto, grazie per la grossa mano che ci potete dare. Ho gli uomini contati e sono anche tutti in giro. Questo territorio sta diventando un vero problema, dandoci seri grattacapi. Ricordo di non aver mai visto tanta delinquenza in giro come ora. E poi, come dicevo prima, l'organico è ristrettissimo. Abbiamo l'esigenza di aumentare il personale del Reparto e la Legione s'è fatta portavoce presso il Comando Generale dell'Arma, ma... ancora niente. È un problema oramai che affligge quasi tutti i paesi della Bassa. Siamo, è vero, quattro gatti pieni di passione e volontà, ma non basta, purtroppo, per essere presenti come vorremmo e per combattere la microcriminalità». «Sono a conoscenza delle difficoltà, il questore mi aveva già informato. Quindi anche questi paesi vivono le stesse complicazioni come le grandi città?». «Purtroppo, e come le dicevo sembra non diminuire affatto. Negli ultimi tempi c'è stato un incremento rilevante di furti in ville, appartamenti e anche in diverse aziende, per non parlare poi delle continue risse in paese». «Risse...?». «Sì. Baruffe senza senso, per futili motivi oltretutto. Insomma, siamo in emergenza continua. Noi cerchiamo in tutti i modi di essere presenti e di fronteggiare qualsiasi difficoltà ma sembra quasi che per la comunità è come se non ci fossimo. Tutti vedono, tutti sentono, tutti sanno... e poi, come se niente fosse successo, tornano a farsi i fatti propri, senza dirci come e perché, e questo non ci è di aiuto». «Strana ‘sta cosa...». «Direi proprio di sì. E poi la vita di tutti i giorni continua normale, come sempre». «Si fa finta di niente per non cedere al pensiero che le cose in verità sono cambiate...». «Evidentemente non può che essere così». «Allora...» spostò subito il discorso Jacopo: «Cosa ci può dire di questo parroco... adesso mi sfugge il nome...». «Don Dino? Sparito. È semplicemente svanito. Non si sa se nella notte o da questa mattina e ho fatto personalmente un giro anche nella frazione, a Vedrana. La sua auto però è lì, parcheggiata e chiusa e ho scambiato due chiacchiere col diacono, tale Grossi Riccardo. Mi diceva che ieri sera, sabato, si è incontrato con lui per preparare la funzione religiosa della messa di stamattina, perché Don Dino era impegnato qui a Budrio in sostituzione di Don Emilio che s'è fatto male». «Sappiamo. Poi?». «Poi... nulla. Vedendo che la sua vettura era lì ha cominciato a cercarlo ovunque, in chiesa, in casa, nei pressi della recinzione, tra le vie lì vicino... niente. Anche la sua bicicletta è lì, accanto alla macchina, ma il fatto più strano è che il diacono dice di aver trovato la porta di casa socchiusa e la luce della cucina accesa, ma di lui niente. Anche il suo cellulare è nell'appartamento». «Ha chiesto a che ora si sono visti ieri?». «Certamente. Erano pressappoco le diciannove quando si sono lasciati. Hanno passato insieme, sì e no, un'oretta». «E ha domandato come le è sembrato? Turbato, tranquillo...». «Sicuro. Era tranquillissimo, come sempre. Io, poi, penso di conoscerlo abbastanza bene per confermare che Don Dino è una persona molto calma e pacata». «Don Emilio mi ha riferito che ha anche un padre. Pare sia ospite qui, nella casa di riposo Villa Adele. Lo conosce?». «Francamente non lo sapevo. So dov'è Villa Adele, ma che avesse un padre no». «A proposito, Borghi...» voltandosi verso di lui: «A Don Emilio non abbiamo chiesto come fa di cognome Don Dino...». «Per questo non c'è problema» fece il maresciallo, «In archivio abbiamo i nominativi di tutti i residenti nel Comune e ci dovrebbero essere anche quelli dei sacerdoti. Provvediamo subito: Nisticò... Nisticò!». «Comandi...». «Nisticò, controlla se abbiamo della documentazione su Don Dino, della parrocchia di Vedrana». «Subito, comandante.» Nemmeno due minuti e il carabiniere scelto bussò, riaffacciandosi alla porta: «Comandante, abbiamo solo la copia della carta d'identità del parroco. Che faccio, stampo?». «Stampa, stampa. Fanne qualche copia, potrebbero servirci.». E il giovane carabiniere scelto Nisticò tornò con le stampe, consegnandole al maresciallo Palmisano che ne diede una a De Giorgi. Borghi, intanto, era occupato a prendere appunti sul suo taccuino. Cosa, non si sa. «Allora...» attaccò veloce Jacopo, «Vediamo un po': Grigatti Orlando, sacerdote...». «Non sapevo si chiamasse Orlando...» osservò il maresciallo. «Evidentemente si fa chiamare col diminutivo, Orlando, Orlandino... Dino» puntualizzò De Giorgi, «Nato a Ravenna nel '57 e quindi... ha cinquantatré anni, altezza uno e settantaquattro... segni particolari... nessuno. Non abbiamo altro». «Io farei un salto alla casa di riposo...» suggerì Palmisano. «Già pensato. Ho mandato due dei miei. Poi vediamo se il padre sa qualcosa. Dopo farò un giro anche a Vedrana. Già che ci siamo, è a conoscenza del fatto che anche un anziano ospite, proprio di Villa Adele, è scomparso?». «Assolutamente no! Come scomparso...». «Già. Abbiamo ricevuto anche una chiamata da questa casa di riposo dicendo che se só persi un ospite. E con Don Dino... fanno due». «Ma come se lo sono perso...». «E che ne so? Comunque, tra non molto ne sapremo di più e, magari, la tengo informata, comandante». «Certo, ci mancherebbe. E grazie ancora per il vostro intervento». «Non si preoccupi, dovere. Allora, che fa? Vuole fare un salto con noi in questa villa?». «Mi piacerebbe, ma purtroppo non posso. Devo raggiungere la squadra per effettuare alcuni importanti controlli e sono già in forte ritardo. Però mi fa sapere...». «Come no. Gliel'ho appena detto.»
In via Massarenti una palazzina di due piani, tenuta molto bene, ospitava Villa Adele, con una grande insegna che ne caratterizzava l'ingresso. Non si poteva sbagliare. Parcheggiata l'auto accanto alla volante di Cesari e Iannaccone, scesero dalla macchina, intanto che la nebbia cominciava a sollevarsi, restituendo un po' di visibilità in più. Appena, però. «Vandelli! Ecco, porca mignotta... Maurizio Vandelli!» esclamò improvvisamente De Giorgi. «Proprio lui, sicuro. Sono identici». «Che è successo, dottore? Chi è questo Maurizio...». «Il maresciallo Palmisano, Borghi. È la copia esatta del famoso cantante Maurizio Vandelli, quello dell'Equipe 84. Grande!». «Non... non lo conosco» ammise Borghi, cercando, invano, di ricordare. «Ah, già. Sei troppo giovane tu. Ma se fai una ricerca su di lui, scoprirai che sono uguali» tagliò corto, contento per essergli venuto in mente, altrimenti quel pensiero se lo sarebbe portato dietro per tutta la giornata. «Daje, entriamo. Vediamo che ci dicono qui.»
Due grandi vetrate si aprirono automaticamente grazie ai sensori di presenza e una melodia personalizzata li accolse. L'ingresso sembrava un hotel a cinque stelle ma, a parte le belle, vistose e comode poltrone di marca, tutto il resto era un'accozzaglia stilistica inimmaginabile: si passava dal futuristico al moderno, dal liberty al rinascimentale, così, come se niente fosse, tutto d'un fiato e tutto mescolato insieme. In poche parole, un minestrone di schifezze. La reception si trovava in fondo. Era un tavolone orribile a vedersi, forse stile seicento veneziano, e dietro di esso una signorina sorprendentemente alta e snella, dai capelli nerissimi e lunghissimi, in camice bianco e con un piccolo copricapo, diede il benvenuto esibendo un magnifico sorriso a trentadue denti, denti bianchi, bianchissimi e perfetti. Decisamente meritevole di una réclame per un centro odontoiatrico. A occhio e croce venticinque anni. Sempre a occhio e croce, una gran sventola di ragazza. «Buongiorno, signori» fece, garbata e con una bella vocetta, sfoderando due graziose fossette che si fecero largo sulle guance, «In cosa posso esservi utile?». «Forse siamo noi che possiamo essere utili a voi» rispose Jacopo sarcasticamente. «Squadra Mobile di Bologna. Sono il commissario De Giorgi. Dove sono i miei uomini?». La bella signorina dai lunghi capelli nerissimi non se l'aspettava. Il bel sorriso splendente e meritevole di una réclame si spense, diventò seria e: «Sono in direzione insieme al direttore sanitario». «Molto bene. Ci accompagni.»
In direzione, oltre al vice commissario Cesari e all'agente scelto Iannaccone, c'erano altre tre persone dall'aria visibilmente preoccupata. Il direttore sanitario era un uomo massiccio e imponente. Sembrava Tom Sellek, l'investigatore privato della famosa serie tv “Magnum P.I.”, con meno capelli però, e sfoderava un paio di baffoni smisurati che gli coprivano completamente la bocca. Un tipo simpatico, a prima vista. «Buongiorno» tuonò con voce imperiosa, «Sono il dottor Stefano Buriani, direttore sanitario. Loro sono i miei soci, la dottoressa Rambaldi e il dottor Cavicchi che è anche il geriatra della struttura». «Buongiorno a voi, commissario De Giorgi e lui è l'ispettore Borghi. Gli altri li conoscete già. Allora? Novità? Abbiamo scoperto qualcosa?» rivolgendosi a Cesari. «Il direttore ci stava appunto descrivendo come sono andati i fatti». «E come sono andati?» voltandosi ora al direttore. Angosciato, il “Tom Sellek” della struttura ricominciò: «Vede, commissario, come già stavo esponendo ai suoi uomini, purtroppo non troviamo più un nostro cliente. Non ci spieghiamo cosa sia successo né dove sia finito». «Prima che ci chiamaste avete controllato bene ovunque?». «Certamente. E non solo in tutta la struttura, siamo anche andati in giro, fuori, ma niente...». «In poche parole, ve lo siete perso». «Sembra di sì, commissario. Non riusciamo a trovarlo». «Avrà pure un cellulare questa persona, no? Avete provato a chiamarlo?». I tre soci si guardarono negli occhi e, dopo una breve esitazione, la dottoressa Rambaldi tenne a precisare: «Veramente Tarcisio non ha mai avuto un cellulare.» ‘Azzo! Pure questa... rimuginò Jacopo. «Quando vi siete accorti della sua sparizione?». «Questa mattina presto, alle sei» ribatté Buriani. «Chi è stato a dare l'allarme?». «Uno dei nostri assistenti». «Sì, esatto» confermò la dottoressa, «Uno dei nostri assistenti di turno, entrando in camera, si è accorto che non c'era. Gli portava il consueto medicinale per la pressione». «Quindi?». «Non era mica normale e non avendolo trovato è sceso giù, alla reception, chiedendo di Tarcisio ma nessuno ne sapeva niente». «E avete cominciato a cercarlo...». «Esatto». «L'assistente era quello del turno di notte?». «No. Aveva appena preso servizio un altro suo collega». «Dopo vorrei parlare con questo assistente. Ieri sera Tarcisio c'era? Qualcuno del personale o degli altri ospiti l'hanno visto, ci hanno parlato... l'hanno notato?». «Abbiamo sentito il personale di ieri sera» riprese la dottoressa, «Hanno detto che dopo aver finito di cenare è uscito come fa solitamente e come fanno anche tutti gli altri, se vogliono». «Non ho capito, mi scusi... In che senso “possono uscire liberamente”?» domandò incredulo. «Vede, commissario...» spiegò il geriatra, «Questa struttura funziona diversamente da una RSA, dove curano gli anziani. La nostra è una casa di riposo adibita a persone anziane sì, ma autosufficienti. Praticamente è come stare in un albergo e i clienti sono liberi. Liberi di uscire, fare passeggiate e rientrare quando vogliono, oppure approfittare delle nostre sale per giocare a carte, vedere la tv in compagnia oppure leggere dei libri. Abbiamo una bella e fornita biblioteca, sa?». «Non avevo dubbi, complimenti. Ma tornando a noi... questo è l'unico ingresso alla struttura o ce ne sono altri sparsi in giro?». «Ce n'è un altro sul retro» precisò il dottor Buriani, «Ma serve solo agli ausiliari che lavorano in cucina e per i nostri fornitori. E poi è quasi sempre chiuso a chiave. I nostri clienti non possono usarlo». «In poche parole, tutti devono transitare necessariamente dall'ingresso principale, non è così?». «Sì» confermò la dottoressa. «Che sistemi di sicurezza avete?». «Cioè?» fece perplesso il direttore. «Telecamere a circuito chiuso, per esempio...?».
Antonio Romanazzi
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