La neve aveva smesso di cadere. Da dove stava sdraiato, ora Hildebrand vedeva solo una chiazza grigiastra di cielo, macchiato da nubi minacciose, scure, come lo sfregio sul suo viso, incorniciata da chiome semispoglie di alberi senza frutti o fiori. La mancanza di colore, la fine della nevicata mettevano in pace il suo cuore martoriato e il buio lo cullava familiare. Era felice: piano, piano, la lenta discesa dei fiocchi disuguali era sbiadita in un nevischio fastidioso, ed era poi sparita in quell'alone di gelo che ora ricopriva tutto con l'ombra della notte, della sua notte. Hildebrand guardava il cielo.Aveva aspettato la Luna per ore lì, immobile sul pavimento, ed ora, finalmente, gli parlava: «È ora, bimbo mio» gli sussurrava all'orecchio, ululando con il vento. Hildebrand sorrise. «Certo, Madre». Sentiva il calore pallido della sua luce danzare sulla sua pelle grigia, il freddo delle sue parole riempirgli le orecchie:«Fa' ciò che devi».
Hildebrand seguì con lo sguardo languido l'ultima carrozza di invitati che entrava dondolando nel cortile del castello, attraverso lo stretto arco di cinta dove le guardie proteggevano il portone. Non sentiva nulla di sé, se non il tiepido calore della Luna sulla sua pelle, se non la sua forza nelle vene.«Non si torna indietro».Lei lo guidava dall'alto, infilandosi nei suoi pensieri. Hildebrand prese un ultimo profondo respiro e inghiottì il buio della sera. I suoi polmoni si riempirono dell'oscurità, la punta delle sue dita svanì nel buio, poi, Hildebrand si fuse con la notte. Non svanì semplicemente: il suo corpo divenne ombra; la sua pelle non si confuse con l'oscurità perché divenne buio; la sua carne, le sue ossa, il suo sangue, il suo cuore, ogni parte di lui divenne come etere invisibile, impalpabile, eppure nulla cambiò per lui. Per Hildebrand era così naturale sparire nel buio che non se ne sarebbe neppure accorto se non fosse stato lui a decidere di farlo.«Non esitare».La Luna sibilava ordini imperiosa. Era impossibile disobbedirle. Si mosse verso quello stesso arco da cui erano passati gli ospiti, inesistente per le guardie che presidiavano l'entrata.«Adempi il tuo compito».Varcò l'ingresso, e fu nel castello.«Avanti, bambino mio». Camminò lentamente verso la torre principale, i mattoni grigi che parevano vacillare sopra di lui. Un passo dopo l'altro, con la furia che cresceva a ogni nuovo contatto col terreno innevato. Fu ai piedi della scalinata che portava alla sala da pranzo, alla cima del torrione. Cominciò a salire.«Giustizia».Accelerò il passo.«Equilibrio».Ormai stava correndo.«Sangue».Le porte della sala del ricevimento erano spalancate davanti a lui. Se avesse alzato la testa dal pavimento, avrebbe visto la fiera persona del re con il viso sorridente rivolto alla sua regina, un residuo d'insalata a turbare il giallognolo dei suoi denti, gli occhi che brillavano di vino, il bicchiere che continuava a essere riempito, la pancia gonfia, la schiena stravaccata sulla sedia, e la cintura della casacca slacciata e lasciata alla vista degli ospiti. E se Hildebrand avesse guardato con più attenzione, avrebbe notato la mancanza delle spade al fianco dei cavalieri e l'assenza delle guardie, avrebbe visto il giovane principe abbuffarsi in disparte in compagnia di una serva. Se avesse capito che quella era una cena di famiglia, avrebbe forse esitato. Ma Hildebrand non alzò la testa.Hildebrand non osservò. Prese un ultimo, profondo, respiro. Poi fece ciò che andava fatto.
Accadde tutto troppo velocemente perché Hagen se ne rendesse conto. Non riuscì a capire subito cosa stesse succedendo, ma ripensandoci, con il passare dei giorni, a mano a mano che il dolore si alleviava, cominciò a comprendere. Assisté a ciò che avvenne nel modo peggiore: con l'impotenza che gli bagnava le guance e il sangue che gli sporcava la bella casacca di seta porpora su cui era ricamato lo stemma di famiglia. L'uomo spuntò dall'ombra. Si materializzò letteralmente all'entrata del salone, senza emettere un suono,schiacciando con la sua presenza il silenzio stupito che era calato sulla sala. All'inizio ci fu solo stupore. Un uomo imponente, gobbo e asimmetrico era apparso nel salone come dal vuoto. Guardava il pavimento lucido, mostrando agli ospiti niente più che una massa di capelli neri, arricciati come rami di un cespuglio. Sul suo volto scavato di tagli neri, una macchia scura sfregiava la pelle chiara dall'occhio sinistro al mento, prendendo tutta la guancia. Solo con il silenzio l'uomo alzò la testa. I suoi occhi brillarono: le iridi spezzate scintillarono alla luce delle candele. Il grigio dell'iride sisfilacciava e rompeva come strappato e il nero della pupilla sembrava colare fuori dal suo cerchio, come sangue sporco, dello stesso nero del cielo senza Luna. Hagen non aveva maivisto degli occhi così. Era come se l'iride grigio fosse stato lacerato, come stoffa, e ora pendeva con esili filamenti davanti al nero della pupilla. Qualcosa in quello sguardo seminò il panico. Hagen sentì la serva che stava accanto a sé gridare e si voltò di scatto, a un tempo con gli altri cinquanta ospiti.Quando la videro, molti urlarono. Il sangue colava a gocce sul pavimento di legno che sembrava assorbirlo, scivolava trale travi e gocciolava al piano di sotto silenzioso. La ragazza si era irrigidita, come colpita da un fulmine: ogni muscolo sotto la sua pelle giovane era tirato, tanto da farla tremare, lì, sospesa a mezz'aria, con l'urlo che le moriva nel petto trafitto. La muscolatura dell'addome straripava viva dalla veste rosa, il rosso del sangue copriva i frammenti degli organi che colavano dalla ferita al suo stomaco. Alcuni degli ospiti presero a vomitare. Il respiro frammentato della ragazza non si era ancora fermato. Hagen poteva vedere il suo torace magro alzarsi ed abbassarsi piano, affaticato. Il suo respiro gli arrivava in rantoli deboli alle orecchie. Finché i muscoli della ragazza non si rilassarono all'unisono, lasciando la sua testa a penzoloni nel vuoto. Finché il suo torace smise di alzarsi edi abbassarsi. Fu il panico. Erano in trappola, come formichein un formicaio dato alle fiamme, come topi nella loro tanabuia, come gatti appallottolati nei sacchi del mercato. Il buio,che quell'ombra aveva in qualche modo manipolato, trasformato in materia, li circondava tutti, filtrava dalle finestre, riempiva tutte le stanze. E il marchiato davanti a loro avrebbepotuto farne ciò che voleva.Il re si era voltato verso la regina, con il volto pallido dalterrore. Le aveva sussurrato all'orecchio qualcosa che Hildebrand non aveva potuto sentire e, mentre la serva rantolavaun'ultima volta, la donna si era alzata, aveva preso per manola principessa, si era allungata oltre il tavolo per afferrare ilbraccio del principe, e aveva preso a correre verso una porta,per sfuggirgli. Hildebrand aveva lasciato che lo facesse. Nonera di lei che alla Luna importava.La serva era stata nel suo piano, ed ora... il re.Gli uomini della sua guardia si interposero fra lui ed Hildebrand, impugnando i coltelli da tavolo come armi. Ma alui non fecero differenza. Quando si fecero vicini, lui si fecebuio, li attraversò come un fantasma. E quando li ebbe passati, si trovò davanti al re. Sembrava paralizzato. Gli occhiindaco fissavano sgranati le iridi stracciate di Hildebrand, icapelli, tagliati corti perché un nemico non riuscisse ad afferrarli, erano sporchi del sangue schizzato dal corpo dellaserva, ma altrimenti sarebbero stati biondi come il grano.Hildebrand guardò negli occhi del re, e lo riconobbe: era luiche la Madre voleva. Lo guardò di nuovo. E sorrise.Sua madre lo tirava per un braccio, ma non importava.Non gli importava dei suoi lisci capelli raccolti nella trecciachiusa dal nastro rosso, non dell'abito porpora di sua sorellache si scuoteva a ogni passo. L'unica cosa che gli importavaora era sapere se avrebbe riabbracciato suo padre. Quell'uomo che gli scompigliava i capelli con le sue manone e chelo faceva stare seduto per ore ai consigli per insegnargliqualcosa su quel regno che presto sarebbe stato suo. Di lui,che ora più che mai, desiderava solo non prenderne il posto,diventare re. Scivolò fuori dalla presa debole di sua madre,liberando il polso magro dalle sue dita affusolate. E corseverso la sala. La regina gli strillò addosso già in lacrime, urlandogli di tornare indietro, ma Hagen, semplicemente, nonsentiva. Ripercorse a grandi falcate il corridoio in cui stavanoscappando, correndo veloce quanto le gambe gli permettessero. Quando arrivò alla porticina con cui avevano lasciatola sala, gli parve di aver corso per una vita intera. La scenasi srotolava ai suoi piedi: il corpo immobile della ragazza sulpavimento, il sangue che le impregnava il vestito, la figurafiera del re che tremava appena sulle gambe larghe, la figuradi quell'ombra, quell'ombra che era diventata di carne, quelbuio che ora veniva impugnato come una spada, che ora era18macchiato di rosso. Si accucciò sull'uscio, nascosto dal legnochiaro della porta, e assisté mentre il buio calava sul collo disuo padre, e il rotolare della sua testa mozzata ingarbugliavai fili del Fato.Nell'azzurro degli occhi del re, Hildebrand aveva vistosolo paura. Paura e tristezza, tanta, profonda, grigia tristezza.Il grigio della Luna: la Madre lo aveva marchiato per lui,così che lo riconoscesse, in mezzo agli altri. Non era statoun compito facile. Lacrime scivolarono lungo le sue guancementre la lama nera recideva la testa del re come un coltelloil gambo di una rosa. Guardò il corpo deturpato un'ultimavolta: si irrigidì, ebbe uno spasmo e, in ultimo, stramazzò aterra. E fu immobile. Il grido del principe Hagen riempì lastanza mentre Hildebrand spariva un'ultima volta nell'ombra.
Savio Alessandra
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