Di là dall'amore, tra gli alberi
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Regalo di Natale Al buio. La tapparella abbassata. Un raggio di luce a illuminare la tua ombra. Le tue mani. Il collo. La schiena. La vita. Ho tolto quello che restava con l'avidità con cui scartavo i regali a Natale. La stessa sorpresa. Lo stesso blocco allo stomaco. Come vederti la prima volta. Briciole timide Si veste. La guardo. Chiude la tenda. Indugia. Prova. Cambia. Riprova. Trasparenze leggere. Timide. Fai il caffè. Mi strappa il telefono. Urla. Non è esattamente un urlo. È un verso. Schiacciato. Soffocato. Un richiamo. Un fischio per uditi allenati. Assecondati. Fedeli. Niente calze. Crema. Lo specchio in bagno. Stringo. Avvicino la schiena alla pelle. Si scuote. Nega consensi. Automatismi. Matita. Ciglia. Lacrime. Apro il tavolo della cucina. Fragile. Come il nostro equilibrio. Come i cracker. Come le briciole. Briciole di noi. Sul pavimento. Sui nostri mille pavimenti. Distesi. Senza tregua. Assemblati. Incorporati. Muoviti. Alle 7.30 scatta l'area C. Il pianerottolo Svuoto l'armadio. Occupo solo mezza anta. E il cassetto del comodino. Quello con il ricordo di chi c'era prima. Getto tutto dentro lo zaino. Dove pensi di andare? Chiude la porta, toglie le chiavi. – Mi stendo per terra. Si siede sopra. Incide la maglietta. Piccoli fori che diventano tagli. Mi sfiora il collo, il petto, il polso. Dove vai? Eh? Dove credi di andare? A casa. Vorresti andare a casa? Ma bravo. – Ma che bravo. Reagisco con movimenti lenti, innaturali. Chiudo gli occhi. Hai sonno amore? Vieni di là. Mettiamoci a letto. – La seguo. Annuisco. Ho freddo. Guardiamo la TV? Scegli tu. – No, fai pure. Il 39 va bene. Sorride. – Non mi abbracci? Non ti va di baciarmi? – Eseguo. Ho paura delle sue reazioni. Siamo malati. Si strofina. La stringo. Procedo. Vorrei comprare un faretto nuovo per la telecamera. – Spiazzata. Delusa. Mi afferra il collo e finge di stringerlo. Mai una volta che tu sia carino, dopo. – Squilla il telefono. È Luca. – Posso? – Sul pianerottolo. – Accetto per la prima volta quella imposizione. La fine del nostro amore. L'ho sepolto. Portami la Nutella con un cucchiaio grande. Neppure una riga Sbloccare gli amici scivolati in black list a mia e loro insaputa. Sorridere scoprendo che ci sono finiti. Osservare la pioggia dal finestrino mentre scorrono le stazioni. Fare i conti con la realtà. Con le assenze. Con i rimorsi. Con gli infiniti. I modi dei verbi sono pieni di fascino. L'infinito riempie, dissuade, consola. A me non hai dedicato neppure una riga. Mai. – Ti vedo mentre mi punti contro l'ennesimo dito. Non è vero e lo sai. E se anche lo fosse, queste sono per te. Non leggerle. Ti riconosceresti. Senza cura Devi lasciarla andare. Senza chiederti se sia giusto. Devi osservarla mentre chiude la porta, il telefono, il profilo. Senza fiatare. Senza muovere un dito. Senza sperare che cambi idea. Devi convivere con l'assenza. Giorno dopo giorno. Devi imparare ad apprezzarne la profondità. Ci sono istanti in cui l'assenza stordisce. Altri in cui paralizza. Di solito accompagna. È una costante, ti attraversa. Mentre fai la spesa, la valigia, raramente la barba. Poi la spesa finisce, la valigia si svuota, la barba riaffiora. E sei al punto di partenza. Senza cura. Seduto sulla sponda sbagliata. Vuoto a perdere Arriva il momento di dire basta. Non sei tu ad andartene perché lei è già volata via. Ma ha incatenato la tua anima. È una prigione senza sbarre. È la privazione dei ricordi. È una luce fioca che non si accende mai. Non ha senso. Perché agli errori non si rimedia se non c'è qualcuno disposto a farti rimediare. Non lo puoi inventare. E non puoi restarne prigioniero. Mi sarebbe bastato un segnale, uno, e avrei percorso da solo tutti i chilometri che ci separano. Invece nulla. Vuol dire che non lo meritavo. Allora meglio segare quelle sbarre e affrontare il vuoto. Non ho nulla da mettere sul piatto, solo quel vuoto. Vuoto a perdere. La direzione sbagliata Starti accanto non è stato un gioco. Piacevole, complicato, mai un gioco. Lucido le immagini che vorrei svanissero. È un amore a perdere. Irrazionale e sadico. Controproducente. Contro natura. Contro il buon senso. Irrimediabile. Ostinato nella direzione sbagliata. Senza lieto fine. Senza fine. L'ultima vocale Lei scriveva amore e trascinava l'ultima vocale. La allungava per scuotermi o forse per ampliarne il contenuto. Ma non ne aveva bisogno. Sapevo esattamente cosa voleva trasmettermi. Per mesi il pudore le aveva impedito di usarla. Lei si interroga sui significati e quando sceglie un termine non è mai per caso. O aspetta il momento, un determinato tempo. Il più funzionale. Dentro di me Mi tieni per mano quando l'euforia delle mie emozioni si confonde con il sapore dei tuoi fianchi. Sei dentro di me ogni volta che respiri, e quel respiro fa l'amore con la mia testa. Il lago leggero La invito al tavolo, quotidiani in condivisione. Frammenti di dialogo, parole senza contenuto. Cornici. Sorrisi forzati. Concetti reiterati, immodificabili. Si è sposata Erika, abito ancora lì ma ho dei progetti. Tu? Vacanze? – Dovresti trovare una fidanzata. Blocchi che non si sbloccano. Devo tutelarmi. Sei in gran forma. – Mi volta le spalle con un gesto educato, definitivo. Dal lago sale un vento leggero. Situazione non modificabile. La panchina al sole Aveva occhi larghi e mani svelte, modi spicci e labbra calde. Concetti essenziali, espressi in forme minime, elementari. Pratica. Definita. Eppure irrisolta. Molto bella. Una bellezza lineare, ordinata. Come si chiama quell'attore? Il protagonista di Mentalist? – Glielo chiedevo appena fatto l'amore. Vaffanculo. Si irritava. Come una bambina. Scalciava. – Conficcava le unghie curate sulla schiena sudata. Smalto e sangue rosso fuoco. Coagulati. Dissolti. Archiviati. A volte mi fermo nel parchetto della sua piazza. I piccioni accanto alla fontana, Ana urla al cellulare in ucraino, Gegè circondato dalle pensionate del quartiere. – I tubi del lavabo oggi sono meno resistenti, chiarisce. Le guarnizioni si disintegrano in fretta. Le ho cambiate in tanti bagni, sempre senza successo. Scelgo la panchina al sole e respiro. L'odore di benzina, di pane, di arrosto al Cabernet. Chiudo gli occhi e la vedo arrivare in tuta con le borse della spesa, i capelli più corti, gli stessi occhi larghi, le stesse mani svelte. Salutatela per me. Ana annuisce. Gegè allarga le braccia. Le pensionate archiviano tubi e guarnizioni e si interrogano silenti. Riprendo l'auto. Sventolano le mani. Torno presto. Sorridono. Mi pare. Una pizza in Porta Romana Alla fine siamo andati a mangiare una pizza in Porta Romana. In un posto che non conoscevo. Non ci ero mai entrato. È arrivata puntuale, con una sciarpa lunga, colorata. Pensavo inciampasse. La cameriera ci ha sistemati vicino al forno a legna, su un tavolino troppo piccolo, con sedie minuscole, poco spazio per stendere le gambe, per appoggiare lo zaino, per liberarsi dei giubbotti. Per liberare l'ironia. Sorrideva, con lo stesso sorriso di sempre. Un'unica espressione facciale con sopra incollato quel sorriso. Aveva le mani gelate, un buon profumo. Io buone intenzioni. Abbiamo ordinato la stessa pizza, bevuto birra, parlato di lavoro. Poi chiesto altre birre. Mi ha raccontato del liceo, della sua passione per il greco, per la logica. Delle sue inclinazioni. Temevo mi dipingesse il suo giornalista-modello. Non lo ha fatto. Le sono grato. Ho continuato ad ascoltarla distratto, annuendo con brevi cenni del capo. Ho inventato un gioco, mentre lei parlava, immaginavo la conclusione di ogni singola frase. Avrei voluto denunciarmi, confidarmi. Non l'ho fatto. Mi ha elencato i frequenti trasferimenti del padre, l'opportunità di vivere in città diverse. Banalità. Siamo usciti dopo il caffè. Volevo evitare la 90, entrare nella sua auto, farmi offrire il liquore alla liquirizia, regalo degli zii. Mentre studiavo la situazione il sorriso si è infilato in macchina e dietro il sorriso i boccoli e il profumo. In un secondo. Mettevo in carica la batteria della telecamera. Mi è arrivato un messaggio: “Cinema”? Non ho risposto. Neanche nei giorni successivi. Lei non ha insistito. Forse si è fatta bastare il greco, la logica, la sciarpa. O forse ha accettato un invito al cinema. L'ho rivista alla presentazione di un libro, alla Feltrinelli. Entrambe noiose. Come il libro. Appesantita. Nei concetti. Nei sorrisi. Perfino nei boccoli. Mi ha ignorato. E sorriso. Uno sforzo innaturale, prolungato, indecifrabile. La magia della pizza evaporata. Come il profumo. Come le mie ambizioni. Ho evitato l'intervista. Le sue domande scontate. Le risposte inutili. La ricerca affannosa di un titolo. Di un lancio. Ho affrontato la galleria con leggerezza. Ho contato i venditori di selfie, compatito i turisti giapponesi di fronte agli spaghetti. Mi sono infilato in metro. “Il libro non è piaciuto neanche a me – WhatsApp – mi è rimasto del liquore alla liquirizia”.
Francesco Gilioli
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