Vissuti di guerra 1917-1945.
«Giuseppe Spitoni arruolato». Ho diciannove anni e sono al 18mo Reggimento Fanteria, come me milioni di soldati sono stati mobilitati su tutti i fronti. Per ogni giovane giudicato idoneo al servizio militare si apre una posizione amministrativa, contrassegnata da un numero di matricola, che contiene tutte le informazioni del rapporto con le forze armate: dati anagrafici, occupazione, indicazione sulle capacità di leggere e scrivere, caratteristiche fisiche (l'altezza, la forma del naso, la dentatura). Nel gennaio del 1917 al mio distretto di Perugia feci la prima conoscenza con la vita militare. Nella caserma trovai alcuni paesani di Massa Martana delle classi anziane, anche loro richiamati alle armi, tra cui un certo Ciccarelli, un vicino di casa, un ometto sulla cinquantina, di carnagione scura e con pochi capelli grigi arruffati su una piccola testa bitorzoluta. Era incupito e la stempiatura lasciava intravedere profondi solchi sulla fronte bassa. Se ne stava in fila per prendere il rancio, assorto in chissà quali pensieri e quando mi vide, sorpreso, mi chiamò con voce tremolante: «Peppe!», un barlume si era acceso nei suoi occhi neri e infossati. Gli andai incontro, ci abbracciammo forte. Poveraccio, lui stringendomi piangeva! Grosse lacrime gli scendevano bagnandogli le guance, segnate da venuzze violacee. Aveva comprato, con tanta fatica, un casolare e un campo dove ora vivevano sole la moglie Pinuccia, detta Nuccia, e la figlia Maria, una bambina bionda e ricciolina. Pensai: «Sarà commosso per avermi incontrato o dispiaciuto per aver lasciato la sua bella famiglia, il lavoro, le bestie? Ora chi si prenderà cura di loro?». Nei pressi di casa lo incontravo raramente, sempre in circostanze fortuite, solo fuggevoli saluti con cenni del capo. Siamo tutti distratti dalla quotidianità. Nelle corse frenetiche giornaliere non si bada troppo ai rapporti con gli altri. Spesso le persone s'ignorano come fossero trasparenti, sempre troppo impegnate. Solo in particolari circostanze riaffiorano i momenti trascorsi e ci accorgiamo di quante cose importanti si sarebbero potute fare e di quante tralasciate e perse per sempre, quante persone interessanti si sarebbero potute incontrare e quanto si sarebbe potuto imparare da loro. Forse Ciccarelli piangeva, nella sua mente aleggiava il triste pensiero di non riuscire più a tornare a casa, in quel piccolo rustico, dove la figlia stava crescendo senza un padre. Parlammo del più e del meno per un poco, poi ci dovemmo separare per non rivederci mai più. Anch'io avevo lasciato con grande tristezza i genitori, la casa, i miei tre fratelli e le mie quattro sorelle. Ora però mi tornava in mente il volto avvilito di mia madre mentre mi salutava. Era la prima volta che ci separavamo. Era rimasta immobile sull'uscio di casa, né una parola, né un abbraccio per paura di non riuscire a trattenere le emozioni, riuscì solo a fare un gesto lieve con la mano muovendo a stento le minute dita. Timidi raggi di sole riscaldavano i nostri corpi infreddoliti ma non le nostre anime. Camminavo fra prati e pascoli. Allontanandomi la sua figura esile si fece sempre più sfocata fino a sparire completamente. Quante cose mi diceva quella mano tremolante, alzata lentamente come a sollevare un macigno «Figlio mio, quando tornerai sarò qui ad aspettarti». Bastava solo un cenno per comprenderci, quello sguardo intenso mi fissava e parlava in silenzio «Tieni duro, sei un ragazzo forte. Ce la farai». Quante volte ho cercato quegli occhi materni, spesso coperti dai capelli spettinati, ho pregato per avere la sua stessa forza e implorato il suo aiuto. I sentimenti non si manifestavano in casa mia. Con i miei fratelli e i genitori non c'era tempo per le smancerie. Gli uomini poi non si abbracciano, non possono essere troppo sentimentali. Ritornato tra i compagni, assorto in altri pensieri, riposi dentro di me ogni riflessione. La camerata, così fredda e buia, era davvero maleodorante: polvere e sudore rendevano l'aria opprimente. Mi accorsi ben presto che mi sarei dovuto adattare a condizioni precarie, catapultato a una vita primitiva fatta di stenti e privazioni. Il giorno dopo, di buon mattino, tutti prendemmo il treno per raggiungere la sede del Reggimento a Chieti Scalo; per me era la prima volta. Un treno ordinario, dove ogni vagone era suddiviso in scompartimenti da sei posti, con duri sedili di legno scuro, ci avrebbe condotto a velocità sostenuta verso la meta. La ferrovia consentiva di trasportare e spostare rapidamente quantità di uomini e mezzi impensabili sino a qualche anno prima. Tra battute e scherzi attraversammo il magnifico panorama umbro. Distese di campi con i loro filari di piante così bene allineate, sembravano scacchiere disposte lì per farsi ammirare con i piccoli paesaggi rurali adorni di nodosi ulivi secolari e vecchie case coloniche isolate. I campi arati sfoggiavano tutte le tonalità del marrone con solitarie striature di giallo. La varietà di paesaggi che il viaggio mi mostrava, nonostante la stagione invernale tendesse a velare ogni cosa, non aveva eguali. Non avevo mai visto così tanta bellezza. Sembravano dipinti, dove la natura mostrava fiera il suo fascino, distraeva i miei pensieri e appagava ogni mia angoscia. In quel primo viaggio mi resi conto che in alcuni momenti si riescono a guardare le cose non solo con gli occhi, ma anche con il cuore ed è allora che si mostrano davanti a noi spettacoli infiniti. I finestrini del treno facevano da cornice a quegli scorci, a quei luoghi a me sconosciuti. La ferrovia seguiva il capriccioso zig-zag del fiume Pescara che attraversa l'Abruzzo da ovest a est e il treno rallentando più volte lo valicava con assordanti stridii sui ponti di ferro. Gli scenari mutavano. Spiccavano orgogliose davanti a noi vette montuose ricoperte da un candido manto nevoso. Arrivammo a L'Aquila, in pieno Appennino, attraversando strette gallerie e valli brulle. Dopo una piccola sosta salutammo quelli del 17mo Reggimento Fanteria e giungemmo a Sulmona quasi di notte. Se solo ripenso ai giorni passati con mio padre nei boschi a tagliar tronchi per farne traversine dei treni! Oggi su quelle traversine ci stavo viaggiando io. Finalmente a Chieti Scalo, indolenziti, scendemmo. La scorta ci fece radunare in fretta nel piazzale della stazione. Dopo un rapido appello, inquadrati alla meglio, l'intera compagnia iniziò a salire la collina. Nessuno di noi aveva cognizione di dove stessimo andando, non c'era alcuna traccia della città ormai sepolta nel buio. Sapevamo solo di essere non molto lontano dall'Adriatico. Mezz'ora di marcia e davanti a noi si mostrò Chieti. Entrammo da Porta Napoli, in quell'ora non un'anima viva, il cielo era muto, in solitaria malinconia andammo dritti alla caserma Santa Maria. Vi erano compagni di leva provenienti da altre parti d'Italia. Per molti di noi, che non erano mai usciti dal proprio paesello - me compreso che non avevo mai lasciato le campagne umbre di Massa Martana - solo sentire un altro modo di parlare era una stranezza. Facce sconosciute, diversi ambienti, tutto mi era singolare. Una moltitudine di emozioni si dibatteva con forza dentro di me facendomi sussultare il cuore, che spesso iniziava una corsa all'impazzata per poi acquietarsi dalla stanchezza. Il mio sguardo basso scrutava attentamente gli occhi di quei ragazzi spaesati dai visi tesi e impauriti. Tutti cercavamo di mostrarci indifferenti gli uni agli altri. Tentavo di carpire qualcosa dagli atteggiamenti e modi di fare; alcuni impacciati, altri più disinvolti. Dopo la prima impressione e curiosità incominciarono però ad affiorare i difetti. Molti erano scostumati, grezzi e veramente prepotenti. Passarono alcuni giorni intensi, si dormiva in una grande camerata sopra della paglia secca sparsa alla meglio per terra. Capitava che i più maleducati sputassero sui nostri giacigli e qualcuno, dopo essersi sdraiato per riposarsi, si alzasse con ciuffetti di paglia appiccicati addosso, specialmente fra i capelli, su
Cinzia Proietti
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