Storia di un Inferno Bianco.
Il fotoreporter Arlon Tomasson era seduto al tavolo della sua camera d'albergo sorseggiando una tazza di tè allungato con il latte. Aveva lo sguardo perso nel vuoto e nemmeno ascoltava i rumori che ronzavano dalla televisione. Era in ansia per l'incontro che avrebbe dovuto sostenere il giorno dopo con l'Ammiraglio della base navale di San Diego Arthur Saymara: un soggetto rude, dal quale sapeva benissimo di essere disprezzato e che notoriamente non gradiva la stampa. Senza farci caso, iniziò a stiracchiarsi l'anulare sinistro cercando la fede che aveva tolto l'anno prima. Se la sentiva ancora addosso, anche se aveva dovuto lasciarla in una vecchia scatola di scarpe ricolma di ricordi e fotografie. Gli mancava sua moglie Darleen, a cui aveva chiesto la mano durante il master di giornalismo a Berkeley e che continuava ad amare, nonostante il loro brutto divorzio. Si mise inconsciamente a pensare agli ultimi giorni in cui poteva dirsi ancora felicemente sposato. Non aveva rabbia nel cuore, ma solo una grande desolazione, rafforzata dalla consapevolezza che era stata tutta colpa sua. Aveva perso la testa per la segretaria di un giornale con cui lavorava e con cui era riuscito a consumare una storia tra riunioni di lavoro ed interviste in giro per lo stato. I due erano stati scoperti da un collega di Arlon, che conosceva Darleen e che, carico di un malsano autocompiacimento, non si era preoccupato di farsi gli affari suoi. Il giornalista sorrise, con gli occhi un po' lucidi, pensando che dopo essersi lasciato con la moglie venne scaricato anche dall'amante. Spesso gli capitava di domandarsi che fine avessero fatto quelle due donne, le quali, ciascuna a modo proprio, erano state così importanti per la sua vita: con la prima aveva progettato una famiglia, che con la seconda aveva poi terremotato in una piccante storia clandestina. Risultato: era rimasto con una marea di carte da firmare e con uno squadrone di avvocati in alta uniforme da pagare. Consumato dalla nostalgia, proiettò nella mente qualche frammento di vita coniugale, qualche sorriso, qualche ricordo di una cena romantica, anche se tutto era contornato dalla cornice bluastra che solitamente accompagna i ricordi malinconici. Al salire del nodo alla gola capì che era meglio finire il tè e farsi una doccia. L'indomani, come detto, avrebbe dovuto sostenere un colloquio difficile. La mattina dopo Tomasson si trovava seduto sulla panchina davanti all'albergo dove sarebbe passato l'autobus della base navale. Aveva un aspetto trasandato, con i capelli rossicci e mossi che gli ricadevano sulle orecchie e che a prima vista lo facevano sembrare un ragazzino appena uscito dall'università. Leggeva svogliatamente un rapporto confidenziale sull'isola di plastica, dove venivano dati dei consigli relativamente utili su come fare le fotografie, che obbiettivo usare, come evitare il riverbero della plastica bagnata, ecc... Non era molto interessato alla lettura, dato che si trattava di un'inutile guida realizzata dagli organi di stampa dell'esercito e che lui aveva imparato a memoria. Perso a metà strada tra l'irritato e l'annoiato, rimise in equilibrio lo zainetto che teneva appollaiato tra i piedi, arrotolò il fascicoletto a cono e, braccia conserte, iniziò a domandarsi per quale motivo si trovava ancora una volta a dover partire controvoglia, peraltro con lo stato d'animo del moccioso che non ne combina una giusta e che è convinto di avere il mondo contro. Arlon era un professionista famoso, ma in profonda crisi. Si era fatto le ossa nel giornalismo di prima linea al seguito delle forze armate americane. Aveva un curriculum di tutto rispetto ed era diventato celebre in Somalia, quando fotografò due marines intenti a svuotare una pentola d'acqua bollente sulla testa di un disgraziato legato a una sedia. Quello stesso servizio, però, ne aveva segnato anche la disfatta. Con le sue fotografie, Tomasson aveva dato scandalo, innescando un ginepraio di polemiche che erano costate le dimissioni di parecchie personalità politiche e militari. Manco a dirlo, tutti avevano additato all'unanimità il reporter quale fautore della loro rovina. Nel vespaio finì travolto lo stesso Tomasson, divenuto un personaggio non più gradito alle “alte sfere”. In rapida sequenza gli erano stati revocati i permessi e gli accreditamenti ufficiali, con i contratti editoriali che gli venivano strappati a ripetizione riciclando sempre la medesima formula: «Ci rincresce informarLa che non sussistono più le condizioni per proseguire con la Sua collaborazione e che ogni intercorso accordo viene pertanto risolto con effetto immediato. Confermiamo che gli anticipi già versati in Suo favore Le vengono riconosciuti come compenso per l'attività svolta. Cordiali saluti». Violando tutti i consigli della psicologa, Arlon ebbe la brillante idea di ammazzare il tempo ripensando a quella parabola discendente che era diventata la sua vita. Ripensò soprattutto alle sgradevoli telefonate che aveva ricevuto negli ultimi tempi, quando i suoi agenti lo avevano chiamato per farsi ambasciatori di una notizia peggiore dell'altra. Risentiva nelle orecchie ogni singola conversazione: revocato l'incarico con il giornale tal dei tali, risolto il contratto con il settimanale x, annullato l'incontro con il direttore della testata y, annullata l'esposizione presso la galleria di Tizio, di Caio e di Sempronio... Il piangersi addosso era diventato un comodo vizio autolesionista di Arlon e lui ne era pienamente consapevole. Per certi versi ne era perfino attratto, anche se era altrettanto consapevole che il suo rimuginare sulle cose alimentava solamente il già grasso ventre della sua depressione. Seduto su quella panchina comoda come un letto di chiodi e bollito dalla calura dell'asfalto, Tomasson si perse nelle inutili domande esistenziali da cui era assillato: come diavolo era successo? Perché la sua carriera era andata così tanto a rotoli? Certo, il servizio dalla Somalia aveva dato fastidio a molti, ma c'erano stati altri giornalisti che avevano sollevato dei polveroni ben peggiori. Con lui, però, si erano accaniti tutti quanti, ivi compreso il suo amico e socio Flaubert Marchal. Rimasto progressivamente senza lavoro, Arlon era ovviamente rimasto anche senza quattrini e della tragica situazione finanziaria aveva pagato il prezzo anche l'agenzia freelance che aveva costituito con Marchal, ossia la “Flaubert & Arlon News n' Press”. Il digiuno che aveva investito i bilanci della società aveva portato i due ad avere dei continui battibecchi e a mal sopportarsi a vicenda. Discussione dopo discussione, il loro rapporto era sceso ai minimi termini, rimanendo spesso in bilico tra il dirsi addio e il prendersi affettuosamente a pugni. Una sera, dopo l'ennesimo litigio, Arlon sentì l'esigenza di sfogarsi con una confidente, o meglio un'amante che incontrava di tanto in tanto, alla quale riassunse la questione dopo un fugace e scadente amplesso: «in principio Flaubert era un amico, una persona fidata, ma ora è diventato meschino e bugiardo... vorrei andarmene... ma non posso...». Oltre che di dollari, in sostanza, il giornalista era a corto anche di energie emotive, sentendosi incastrato in una situazione dalla quale non vedeva vie d'uscita e per la quale era spesso portato a sognare (o forse a sperare) di addormentarsi in un elegante letto di mogano... In altri termini, non aveva alcuna voglia di partire per l'isola di plastica, ma era stato costretto dalle necessità, cosa che gli logorava i nervi oltre ogni limite. Aprì lo zainetto e sbirciò con rassegnazione un foglio di carta bollata, sul quale era stata collezionata una foresta di timbri e di firme: era il suo “lasciapassare”; la certificazione che lo inchiodava definitivamente a quel viaggio non desiderato. L'idea di andare sull'isola di plastica era stata proprio di Flaubert ed era venuta fuori durante uno dei loro ultimi battibecchi. All'inizio la cosa era stata buttata a casaccio nella discussione, sembrando più che altro una battuta di rassegnazione per sottolineare che la loro società si sarebbe salvata soltanto grazie a un miracolo. Nessuno poteva avere accesso in quel luogo e Tomasson aveva etichettato la cosa come un vagheggiamento ai limiti del farneticante. Marchal, però, si presentò una mattina tronfio come un piccione e con nonchalance gli illustrò un progetto che definì “sensazionale”. Garantì di aver avuto una dritta ufficiosa, secondo cui il governo stava per finanziare delle nuove operazioni di ricerca del capitano Stevens. Disse che quella sarebbe stata l'occasione giusta per riprendere i contatti con il Dipartimento della Difesa; che sarebbe stata l'occasione giusta per chiedere di unirsi alla missione come corrispondente civile. Sarebbe bastato fare leva sui tasti e sulle persone giuste per ottenere il nulla osta: avrebbe pensato a tutto lui, sfruttando delle conoscenze che aveva nello staff presidenziale. «Sei completamente matto. Io in quella discarica galleggiante non ci vado. Se proprio ci tieni prendi la borsa e parti tu», fu la risposta di Tomasson. I due avevano nuovamente litigato, ma questa volta Marchal aveva imposto un bivio: o Arlon andava sull'isola, o lui avrebbe chiesto lo scioglimento della società. Il reporter si era dovuto mordere la lingua e dovette cedere, non tanto per far contento l'altro, che in quel momento detestava, quanto piuttosto perché sapeva di non potersi permettere un ufficio tutto suo, tenuto conto che aveva pure lasciato parecchie firme di garanzia per i debiti della società. La “Flaubert & Arlon News n' Press” navigava in cattive acque, questo era innegabile, ma riusciva comunque a far girare qualche soldo; quel tanto che bastava per pagare le banche. Arlon, poi, aveva un disperato bisogno anche di quegli spiccioli sudati. Insomma: non aveva avuto scelta.
Luca Parrillo
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