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Autore: Dario Pagliara
Sulla strada per la baia dell'Orte
Narrativa
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Sulla strada per la baia dell'Orte
Era un livido pomeriggio di fine febbraio quando andai giù alla baia quasi sicuro che avrei incontrato Bastian al solito posto e, anche questa volta, lo trovai lì, tutto solo, armato di canne e sigaro.
«Bastian, sono venuto a salutarti, ancora pochi giorni e inizierà per me una nuova vita; lo sapevi che prima o poi sarei entrato nella marina, vero?».
«Sì, e non è forse mia la colpa?».
«In un certo senso!».
«Se andrai a bordo di unità navali, ed è molto probabile che accada, non dimenticare che quando una nave militare prende il mare da prora, le gallette non servono a niente; e anche se il beccheggio ti portasse a svuotare l'ultimo residuo di acido gastrico, non si fermerebbe lo stesso; l'unica cosa che puoi fare è quella di stenderti a terra. Io facevo così durante la guerra».
«Bastian, fortunatamente non siamo più in guerra».
«Non illuderti! I mattoni della vita di cui siamo fatti sono in guerra tra loro dal nostro primo vagito. Abbiamo armi cariche di odio senza fine almeno fino alla fine del mondo. Vai, Maltese, e stai lontano dalle persone che frenano le tue ambizioni; cerca pure il tuo futuro e non pensare a me, non sono mai stato un buon esempio per te».
«Non è vero».
«Quando tornerai, non dimenticare di portarmi una bottiglia di buon vino, e se vuoi essere generoso, anche un paio di sigari, per quanto riguarda il whisky, sono sicuro che te lo saresti ricordato lo stesso; o preferisci scolarteli da solo i generi contingentati?».
«Non preoccuparti, lo sai che non mi dimenticherei mai del mio vecchio Bastian. Ma sarei più contento se smettessi di fumare e bere; alla tua età non ti fa certo bene. I vecchi dovrebbero svolgere una vita più salutare, non ti pare?».
«Non sono poi così vecchio come sembro. Il problema di noi vecchi non è la vecchiaia: lo spirito e il corpo non invecchiano nella stessa maniera. Si diventa come uccelli in gabbia, prigionieri di se stessi. È la mia giovinezza a farmi paura, non la mia vecchiaia. La vecchiaia dovrebbe essere fonte di felicità per la maggior parte della gente che non ne capisce il valore».
«Ah, e sarebbe un valore?».
«Dovremmo essere felici solo per il fatto di essere diventati vecchi, di non aver sperimentato gravi malattie. I giovani non sapranno mai se vecchi lo diventeranno».
«Mi mancheranno i tuoi strani ragionamenti, amico mio. Di questo ne sono certo».
«Sei un uomo, Bart. Lo sei sempre stato, anche quando eri un bambino. Ma sarebbe giusto che i bambini facessero i bambini e gli uomini facessero gli uomini. Non preoccuparti per me, ormai conosci bene la categoria a cui appartengo e sai che è riservata solo a persone che non hanno rimpianti. In fondo ho vissuto bene la mia vita e ho raggiunto l'obiettivo che mi ero prefissato, ossia vivere libero. Si rimpiange ciò che non si è riusciti a fare solo quando si sa che è finita, ma se ci concedessero un'altra opportunità, torneremmo a rifare gli stessi errori di prima. Be', può sembrarti strano, ma io non ho alcun tipo di rimpianto».
«Ne sei proprio sicuro, Bastian?».
«Altroché! Non sono in tanti quelli in grado di prenderne coscienza. Un tempo avevo un amico che dopo un infarto continuava a consumarsi il fegato con il lavoro come se nulla fosse accaduto. Pensa che, addirittura, voleva che entrassi in società con lui; mi diceva che sarei diventato ricco, ma non l'ho mai visto felice, neppure quando tornava da lunghe crociere; credeva di comprarsi la felicità col denaro. Adesso se n'è andato e non credo che abbia vissuto un solo giorno nella sua vita. Non bisogna credere troppo in quel tipo di felicità, è qualcosa che non esiste, se lo farai, scaverai dentro di te un profondo senso di vuoto. Quando credi di averla tra le mani, ti accorgi che ha sempre un colore diverso da come lo avevi immaginato».
«Vuoi dire che la felicità non esiste?».
«Non come la intendeva quel mio amico. La felicità sta nel modo in cui guardi il mondo. Bisogna cercarla, ma soprattutto saperla riconoscere nelle piccole cose, nei momenti come questo, ad esempio, nella pace di questa baia. Egli non ne sarebbe stato capace. Cerca la gioia in questi aspetti e scoprirai la tua energia».
«Come lo riconosci un uomo felice?».
«Dal sorriso, senza dubbio. La capacità di sorridere è il termometro della felicità. Le persone felici sorridono e non si lamentano; un buon pescatore affronta a testa alta le cattive giornate di pesca, perché sa che il domani sarà un giorno migliore».
«E un uomo infelice?».
«Be', senza dubbio sono quelli che si sentono vittime della loro stessa vita, ma non cercano soluzioni. Sai... c'è una bella differenza tra chi vive per trascorrere una buona vita e chi lo fa per garantirsi una buona morte. Poi ci sono quelli che fanno finta di essere felici spiattellando al mondo la loro falsa felicità».
«Tu, Bastian, sei una persona felice?».
«Solo quando il mio bicchiere di whisky è mezzo pieno; cerco sempre di vedere il lato positivo della vita, ma non posso fare a meno di guardare anche l'altra parte del bicchiere. Siamo nati, ragazzo, è questo il problema! Ogni giorno che passa dissolviamo una parte della vita, una parte di noi stessi, la felicità è solo un modo per sospendere o ingannare questo processo fatale».
«A me sarebbe bastato combinare qualcosa con Lorena per sentirmi felice, non avrei chiesto altro, ma forse ho esagerato liquidandola frettolosamente come ho fatto. La rabbia ha avuto il sopravvento su di me e l'ho fatta finita, anche se non erano quelle le parole che le avrei voluto dire».
«Ah! Ah! Le parole, ragazzo, sono come i sassi: una volta tirati, non tornano più indietro; pensiamo sempre che i nostri interlocutori percepiscano le parole che vorremmo dire con il significato che abbiamo riservato loro, ma le parole non sono nostre né appartengono all'orecchio che le ascolta, c'è un alieno che vive in noi, un traditore che opera alle nostre spalle».
«Non posso darti torto».
«Mi dispiace, Bart. Quella ragazza probabilmente non ha capito il tuo valore e questo mi rammarica. Ma se l'impossibile non entra a far parte dell'amore, vuol dire che non ne valeva la pena. Le donne spesso non sanno apprezzare le buone qualità. E non è raro che le più belle si scelgono gli uomini peggiori. Sono attratte dal fallimento a cui vanno incontro sposandoli. Ma non preoccuparti se ora ti senti afflitto e avvilito, anche l'innamoramento ha il tempo contato».
«Pensi che riuscirò a liberarmene presto?».
«Be', non proprio così presto, ma certamente te ne libererai; finirai di soffrire nel momento in cui cesserà la sofferenza che la persona amata ha il potere di infliggerti, ma è necessario: te lo immagini un uomo che non si sia mai innamorato? Non sarebbe una persona completa».
«Comunque non credo che riuscirò mai a dimenticarla completamente».
«Infatti, è più facile dimenticare una donna che è stata tua, piuttosto che un'altra rimasta nell'immaginario del desiderio, per il rischio concreto che diventi una spirale nei ricordi per tutta la vita».
«Scommetto che è accaduto a te, vero Bastian?».
«Può darsi. La memoria, con gli anni, diventa una malattia che può logorarti l'anima. Se le cose vanno male, i vecchi ricordi riaffiorano nella mente come delle frustate e ogni volta riaprono pagine che, come ferite, lacerano il cuore, lasciandoti intravedere solo la felicità perduta che il destino ti avrebbe negato. Ma non bisogna credere troppo nell'amore: quasi mai le donne che si amano possono renderti felice. E, a volte, sono proprio quelle sposate per ripiego o per altre ragioni che invece possono farlo».
«Qualcosa mi dice che la colpa è di suo padre; senza di lui sarebbe andata diversamente».
«Io penso di no. Se una persona ti ama veramente, supera qualunque ostacolo. Non sei riuscito a convincerla, ecco tutto. E se le parole non convincono, neppure i calci nel sedere possono farlo. Ma su suo padre non posso darti torto. Il signor Santo è una vecchia volpe, pensa sempre di avere davanti dei polli da spennare; poche volte mi è capitato di parlare con lui; è un fascista, ligio al partito, ne sostiene gli ideali nella vita sociale, ma, nella vita privata è un cagnolino al servizio di sua moglie. Ti sei imbattuto in una categoria particolare: quelli sono uomini calcolatori, non si programmano solo la vita, secondo alcuni schemi, ma perfino la morte. Una volta lo vidi al cimitero parlare con la gente, mentre, vantandosi, indicava la sua tomba già pronta per lui, mancava solo il nome. E derideva gli altri per i quali sarebbe stato il caso a decidere dove sarebbero andati a finire».
Feci un cenno di sorriso, poi guardai l'orologio e mi voltai per andare via.
«Ehi, Bart, lo sai che la storia dei rimpianti non è proprio vera? Uno, forse uno solo, ce l'avrei anch'io» disse abbassando le grevi palpebre.
«Di cosa parli, Bastian?».
«Un figlio, se ne avessi avuto uno, avrei voluto che fossi tu» disse, lasciando che una lacrima gli solcasse il viso ruvido. Tornai indietro e l'abbracciai forte, ma senza preoccuparmi se questa volta anche a me fosse sfuggita una lacrima, come avevo fatto un tempo, quando mi domandavo chi fosse il più forte tra gli uomini che piangono credendosi deboli o quelli incapaci di piangere credendosi forti.

Il giorno successivo alle 6:15 un treno partiva per Taranto. Quello con Lorena era stato un sogno che avrei desiderato realizzare nella vita, rimasto, purtroppo, non realizzato. Adesso era giunto il momento di partire. Avrei preferito un giorno diverso, senza pioggia, ma in fondo, un giorno vale l'altro quando si lasciano gli affetti. Alfredo venne a prendermi a casa per accompagnarmi alla stazione. Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Sapevo che era l'ultimo giorno che avrei trascorso in quella casa che con tanto amore mi aveva accolto e quella era una dura prova da superare. Raccolsi in un baule tutti gli oggetti personali, riordinai la stanza disponendo in ordine temporale le pitture che avevo realizzato nel tentativo di contenere quegli anni felici in un lasso di tempo ormai finito; tutto sarebbe rimasto così, fino al mio ritorno, perché nessuno avrebbe toccato nulla. Salutai Dora, che fino alla fine aveva sperato che cambiassi idea e mi occupassi delle attività agricole; mio fratello, che rimase dietro le ante della finestra per nascondere una lacrima; la baia dell'Orte, che avevo amato come se fosse un grembo dove rifugiarmi dalla vita e dalle delusioni subite; il grande caminetto, che mi aveva riscaldato il cuore durante i freddi inverni e che già immaginavo avrei rimpianto. Mancava solo Martina che era rimasta coricata non sopportando l'idea di vedermi partire, un dolore che avrebbe preferito evitare. Entrai nella sua stanza e la vidi raggomitolata nel letto, coperta completamente fino alla testa. Mi avvicinai e le accarezzai i capelli. Sentii che piangeva e posai la testa sulle sue spalle.
«Ti prego, Martina, lasciami partire sereno, non mi aiuterai facendo così».
«Non era questo che avrei voluto» disse piangendo. «Pensavo che la nostra fosse una famiglia per te, ti abbiamo dato tutto e ti abbiamo sempre considerato uno di noi».
«Ma voi siete la mia famiglia, non ho altro che voi».
«Ma ci stai lasciando lo stesso».
«Martina, ognuno di noi deve percorrere la sua strada, andare incontro al proprio destino; è per questo che siamo nati».
«Sì, lo so, ma non riesco ad accettarlo».
«Ritornerò presto, sorellina. Adesso verrai con me alla stazione, ma non voglio vederti piangere, lo sai che io non vi abbandonerò mai».
Appena misi il naso fuori dalla porta, vidi un ragazzo che mi aspettava, era Cesare che nonostante mi avesse già salutato il giorno precedente, aveva deciso di venire a casa per vedermi partire. Su Cesare nessuno avrebbe scommesso un soldo, ma la sua tenacia, a breve, lo avrebbe spinto a percorrere una strada molto simile alla mia: poco dopo, infatti, iniziò ad allenarsi costantemente, rieducò il suo carattere e per correggere la miopia andò in un paese lontano per sottoporsi a un miracoloso intervento di microchirurgia oculistica. Tutto questo per sentirsi come me, un modello a cui si era sempre ispirato.
Io l'abbracciai fortemente, salii in macchina, mi voltai un'ultima volta a guardare dal lunotto posteriore, un momento dopo, girata l'ultima curva, la Casa nella Piantagione di Tabacco non si vedeva più.
In relazione alla mia data di nascita, sarei partito per l'esercito, ma avevo presentato una domanda presso la Capitaneria di Porto di Brindisi chiedendo l'arruolamento nella marina con rafferma. L'unico zaino che portavo, oltre agli indumenti, lo avevo riempito di libri d'arte che non avrei più letto. La strada che avevo scelto di seguire era difficile, torbida e per certi versi imprevedibile.
«Mi raccomando!» disse Alfredo. «Nella vita militare, qualsiasi cosa ti diranno di fare, di' sempre di sì, che tu lo faccia o meno non è fondamentale».
Imparai, tuttavia, che bisognava prendere sempre con le dovute cautele le opinioni degli altri e che nella vita era importante saper dire “no” quando era il momento di dirlo.
Lungo il tragitto, due pensieri quasi costanti mi tornavano alla mente: Marilena, con i suoi occhi grandi e il sorriso sempre accogliente, e Lorena, con il broncio e la sua eterna infelicità. Marilena, dopo l'ultimo colloquio che avevo avuto con lei, aveva preso le distanze da me; l'avevo vista un paio di volte e non mi aveva neppure salutato. Avevo sofferto nel vedere la sua faccia senza luce, diversa, non più come prima. Ora mi sentivo frustrato, perché le avevo perdute entrambe. Di Lorena pensavo di essermene liberato. Avevo creduto di conoscere il mio cuore, ma non era vero. Quale sarebbe stato il suo destino? Contro la mia volontà, il fuoco della sofferenza ardeva ancora dentro di me. Come avrei scacciato via questo demone? Come avrei potuto curare una malattia cronica? Ah, non era immaginabile. Avrei cercato di dimenticarla. Ero deciso a farlo. Ma ci sarei riuscito? Che momento di irrefrenabile follia era stato quello di liquidare quella ragazza gettando la spugna troppo velocemente. Come mi appariva ormai lontano il ricordo di quel momento. Ogni particolare di quella relazione mi tornava alla mente in maniera disordinata, diversa da come l'avevo vissuta, deplorevole. I sensi di colpa si accavallavano. Come avrei voluto non incontrarla mai! Forse la mente aveva bisogno di liberare spazio. Se solo chiudendo gli occhi ella fosse sparita dalla memoria, sarei rimasto con gli occhi chiusi per tutto il viaggio facendo finta di dormire.

Prima di salire sul treno, abbracciai Martina, che con gli occhi gonfi di lacrime non riusciva a staccarsi dal collo. “Partire è un po' come morire” aveva detto Dora il giorno prima, ma io non ne avevo interpretato il giusto significato fino a questo momento. L'unica consolazione era vedere che altri condividevano la mia stessa sorte e chissà, forse, anche la mia stessa vita. Il fischio del capo stazione sollecitò la partenza del treno e io vi salii agli ultimi istanti; entrai nel compartimento, mi affacciai dal finestrino e vidi Martina che mi guardava con tristezza. Nessuna parola. Solo silenzio e basta. Anche il tempo entrava in sintonia con la malinconia di quella giornata di pioggia. Ogni attimo era un momento di tortura. Lo scricchiolio della locomotiva segnava la partenza. Io mi sarei aspettato che il treno si allontanasse così, semplicemente, immaginando di vedere la stazione diventare sempre più piccola fino a sparire; invece accadde l'impensabile: una ragazza con il cappotto rosso, un cappello di lana bianco e una sciarpa girata intorno al collo, si presentò inaspettatamente, quando il treno ormai avanzava lento. Era Marilena. Rimasi sorpreso, ormai pensavo di averla perduta per sempre.
«Bart» gridò con la mano alzata «aspetterò il tuo ritorno; ti aspetterò per sempre».
Io la riconobbi e, incredulo, stentai a dire una sola parola. Poi mi ripresi dallo stupore. La chiamai per nome, spostandomi da un compartimento all'altro per avvicinarmi il più possibile a lei. La delusione sofferta accanto a una donna che avevo conosciuto, nella città in cui avevo vissuto, mi avrebbe impedito di provare attrazione per un'altra? Avevo conosciuto la primavera, ma mi sarei aggrappato ad altre stagioni per superare l'inverno? Mi sentii pervaso da un rimescolo di sensazioni. Come potevo ora traslare su Marilena, in un colpo solo, tutte le emozioni, i tormenti, le speranze che, come un documento di proprietà, appartenevano a Lorena! Ero consapevole che l'innamoramento non era un sentimento materiale che poteva essere spostato da una persona a un'altra frettolosamente, ma sapevo che, davanti a una delusione, poteva accadere, almeno nell'illusione che pur di tenerlo in vita, lo avrei riversato in un nuovo contenitore solo per non farlo appassire.
Ella iniziò a correre lungo il marciapiede della stazione. In lei vidi tutto un mondo che stavo per perdere. Tutto quello che potevo fare era allungare il braccio dal finestrino nella vaga speranza di chiuderla nel pugno della mano, come da piccolo facevo con le farfalle che svolazzavano sulle aride terre di San Nicola. I miei occhi si riempirono di lacrime. L'immagine di Marilena, che a passo veloce rincorreva il treno tra i rumori delle rotaie, si riflesse su ognuna di quelle lacrime, come in un prisma, frammentandosi in una moltitudine di cristalli che come petali si sfogliavano da una rosa. Ogni lacrima rifletteva di lei un'immagine diversa e tra tutte avrei dovuto sceglierne una, la più bella, da mettere esposta su un comodino immaginario a fianco di quella branda, stretta e fredda, in cui ci sarei entrato insieme al mio dolore, nella solitudine di una stanza, in un casermone enorme. E sarebbe stato come mettere la più bella rosa del giardino nella più squallida delle stalle.
Pochi secondi ancora e poi tutto ebbe fine, ritrovandomi solo davanti a un sedile vuoto e l'odore forte che emanava mi ricordò il giorno in cui avevo preso un treno simile quando scappai via dall'orfanotrofio.
Con gli occhi gonfi e il cappello in mano, mi misi a camminare lungo il corridoio, pensando a quanto era accaduto. Strinsi la testa tra le mani per contenere un sentimento che non riuscivo a interpretare: era gioia? Era rabbia? Era delusione? O disperazione all'idea che, anziché vedere Lorena su quella stazione, avessi visto Marilena? Che tra l'altro aveva aspettato l'ultimo momento per farsi vedere, nella desolazione che adesso, per parlare con lei, avrei atteso chissà quanto tempo; ora avevo un'idea più concreta di cosa fosse un incubo. Feci pochi passi appena quando un ragazzo si presentò davanti a me con le mani in tasca e un cappello nero in testa.
«Zhou!» gridai. «Che cosa ci fai su questo treno?».
«Bart! Cosa ci fai tu?».
«Mi sto arruolando nella Marina Militare!» risposi stupito.
«Sei stato convocato anche tu?».
«Sono un volontario!».
«Lo sono anch'io!».
«Sono contento!» dissi, non ancora consapevole che, per qualche ragione, un destino comune, come una spirale, iniziava ad avvolgerci; e anche nei momenti più difficili che avrei dovuto affrontare spuntava qualcuno di quei ragazzi del rione Catona sempre pronto a darmi una mano.
«Non ti riconosco più!» dissi io, vedendo Zhou con i capelli tagliati e un atteggiamento da “signorino”. «Dov'è andato a finire quello scugnizzo con il cappotto pieno di chiodi e un marsupio pieno di... come la chiamavi? Polvere di stelle!».
«Ah, sì, ricordo ... Che bei tempi quelli!».
«Già! Erano veramente bei tempi!».
Intanto qualcuno che somigliava a un vecchio amico passava nel corridoio. Portava una sciarpa intorno al collo e trascinava una valigia con le ruote, un modello che nessuno aveva mai visto prima. Io gli corsi dietro e lo chiamai a bassa voce.
«Nic!».
«Bart! Anche tu su questo treno?» disse, guardandomi meravigliato.
«Sì! E a quanto pare non siamo gli unici!» risposi, indicando Zhou nel corridoio.
Quei pochi minuti furono sufficienti per sfatare l'atmosfera di malinconia che si era creata. Durante il viaggio passammo momenti divertenti ricordando le marachelle che avevamo combinato anni prima. Parlammo della scomparsa di Mao e di Alan che era entrato nel tunnel della droga, di Rudy ed Erik che, ormai sergenti nella Marina Militare, da tempo, navigavano nelle acque del Mediterraneo. Rudy lo avrebbe fatto ancora per poco, un triste destino, infatti, attendeva anche lui e presto lo avrebbe staccato dal suo mondo, nonostante avesse lottato come un guerriero fino all'ultimo giorno della sua vita.
Nic non sembrava più lo stesso; è una cosa naturale, pensavo; le persone vanno incontro a continui cambiamenti, ma il suo sembrava radicale, e, nonostante non avesse terminato le scuole superiori a causa di problemi familiari, rimaneva una persona dalle sorprendenti curiosità intellettuali che sconfinavano in tutti i campi: scienza, matematica, filosofia. Conosceva Borges, Hegel, Nietzsche, e tanti altri. Si era studiato interi faldoni solo per avere, come diceva lui, un'idea della musica, partendo da quella medievale fino alla classica moderna, ragion per cui era in grado di affrontare svariate tipologie di dibattiti, per la capacità di pescare dalla memoria argomenti che teneva classificati come in un archivio. Niente, invece, era cambiato nel suo lato effeminato. Tutti sospettavano che da qualche parte ci fosse una donna nascosta dentro di lui, una sensazione che si percepiva già da ragazzino, non a caso i suoi fratelli gli avevano tormentato l'infanzia. Ma, nonostante le sue qualità intellettuali, preferiva non affrontare mai l'argomento, vivendo un conflitto interiore con se stesso che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita. Ci tenne a precisare che parlare del passato non era qualcosa che amasse, perché gli evocava solo cattivi ricordi.
Quelle poche ore di viaggio passarono in fretta e, in breve, ci ritrovammo al di là di un mastodontico cancello di ferro con due enormi leoni di bronzo all'entrata: il Centro arruolamento reclute di Taranto. Di centri di addestramento nessuno di noi ne aveva mai sentito parlare, ma all'unanimità pensammo subito che chiunque non ci avesse portato il proprio sedere, non avrebbe potuto esprimere giudizi.
Io, Zhou e Nic, all'interno di quella struttura, frequentammo lo stesso corso di addestramento e insieme ci ritrovavamo fuori quando uscivamo in franchigia. Fin dai primi giorni, facemmo i conti con i bulli tarantini che, all'arrivo di un nuovo contingente, si mettevano di vedetta fuori ad aspettare che qualche malcapitata recluta passasse da una delle stradine secondarie. Molti ragazzi portavano le tasche piene di soldi che le famiglie rifornivano loro per superare il primo periodo. Qualcuno li aveva già incontrati e, oltre alle bastonate, ci aveva rimesso tutti i soldi che aveva. Il sergente di guardia ci aveva informati che, in caso di aggressione, non conveniva reagire per non mettersi nei guai con la giustizia, in tal caso, addio carriera.
«Io non sono certo il tipo che se ne sta fermo a prendere mazzate!» dissi, appena Zhou mi accennò l'argomento. «Non l'ho mai fatto, tantomeno inizierò a farlo ora. Se non avete nulla in contrario, mi piacerebbe proprio conoscerli questi tizi».
Quella sera uscimmo insieme ad altri commilitoni e passammo una magnifica serata in quella bellissima città dove tutto sembrava fatto apposta per accogliere i marinai. Al “Poker d'Assi” la gente pullulava e i piatti di spaghetti volavano sulle nostre teste come i gabbiani sulle onde del mare. Qualcuno ascoltava le canzoni del primo Sanremo che non avrebbe visto a casa cercando di nascondere una lacrima sotto al berretto. Poi, giunto l'orario di rientro, ci incamminammo tutti lungo la strada di ritorno. Angelo era un ragazzo pienotto e fumava la pipa, strano a dirsi per un ragazzo di quell'età.
«Come mai fumi la pipa?» gli domandai.
«Così!» rispose. «Mi aiuta a non fumare le sigarette. Quando ne fumavo, non mi bastavano mai, ma adesso, con un paio di pipate sono a posto».
A me piacque così tanto quel profumo del tabacco da immaginare che un giorno anch'io sarei diventato un fumatore di pipa.
Angelo e Zhou si erano un po' distanziati dal resto del gruppo quando due sconosciuti saltarono fuori all'improvviso cercando di intimorirci per farsi dare i portafogli. Angelo fece resistenza e uno di essi lo colpì con un randello sul collo. Io intervenni in sua difesa; fui colpito al braccio che avevo usato come scudo per difendermi, ma prima che costui riuscisse a caricare nuovamente, lo raggiunsi con un pugno; poi lo afferrai per il collo del giubbotto trascinandolo a terra, intenzionato a gettarlo giù dal ponticello alto un paio di metri. Il randello gli era caduto di mano, Zhou lo raccolse e si diresse verso l'altro che, pensando di intimorirlo, fece uno strano salto da sembrare ridicolo, ma non gli servì a niente se non a rimediare una randellata sulla schiena. La situazione aveva preso una brutta piega per i due teppisti: uno di essi preferì scappare via, l'altro, invece, mi implorava affinché non lo gettassi dal ponticello; durante la colluttazione aveva perduto una scarpa, Zhou la raccolse e la lanciò lontano nella campagna. Infine lo lasciammo andare via.
Prima di rientrare al centro, raccomandai a tutti di stare zitti e non divulgare a nessuno quanto fosse accaduto per evitare rogne in caserma.
Nic non aveva avuto nessun contatto con gli aggressori e, non essendo caratterialmente formato per partecipare a risse, rimase come stupefatto. Se avesse avuto tempo, probabilmente, avrebbe cercato di difendersi con la sua parlantina, e chissà se sarebbe riuscito a farli scappare via.

Dario Pagliara

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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