Storia di una strega, Vanina la Zoppa
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Introduzione
Il bosco di Tuneda era una bella distesa di alberi e sottobosco di circa 700 pertiche (pertica milanese 654,5179 mq) Sito tra Groppello d'Adda e l'attuale cascina Romilli, era di proprietà dell'Arcidiocesi di Milano e fino ai primi decenni del Novecento vegetava ancora rigogliosamente. Al giorno d'oggi del bosco rimangono poche tracce, qualche acro che circonda l'originaria struttura della cascina. Al suo posto vi è una grande cava utilizzata per l'estrazione di sabbia e detriti destinati all'edilizia. Il bosco di Tuneda (o Teneda), oltre a essere uno rigoglioso polmone verde, nel medioevo era luogo d'incontro utilizzato dai contadini della zona per celebrare feste pagane. Il termine “pagano” derivava da pagus, che significa villaggio; gli abitanti del pagus erano appunto i pagi o “pagani”. Quindi “pagano” corrisponde ad “abitante del villaggio”. I pagi, risiedendo distanti dai centri abitati più grandi, erano rimasti legati alla religione primigenia, alla Dea Madre, Demetra o Artemide, divinità consacrate alla fertilità, all'abbondanza, alla nascita. Il “pagus” o pagano era un uomo semplice e pratico, che aveva con gli dèi un rapporto intimo e diretto. Aveva un forte legame con la Natura, che rispettava in ogni sua forma, riconoscendola come parte del Divino. Legame sancito da rituali che potevano essere differenti in zone montane o lacustri, ma in tutti si riconosceva come dominante, come espressione di un pensiero collettivo, la divinità femminile. La religione cristiana e, in seguito, il pensiero illuminista hanno investito molta energia nel tentativo di esiliare e bandire le religioni animiste quali il druidismo, lo sciamanesimo e le tradizioni celtiche, i cui rituali erano ritenuti fonte di superstizione e minaccia all'egemonia del potere patriarcale. Le antiche religioni contavano, al loro interno, figure come il sacerdote “druida”, lo “stregone” e la “donna herbana”. Personaggi che praticavano rituali discutibili, persino strani, ma indispensabili a un culto che li concepiva come tramite con l'Universo. Essi furono in seguito perseguitati e condannati dalle religioni monoteiste. In particolare, la “donna herbana”, oggetto d'attenzione morbosa e di studio da parte del potere temporale, subirà torture e condanne e cambierà progressivamente il suo nome, divenendo per tutti “strega”, “janara” e “lamia”. Da qui il termine “stregheria”, o “stregoneria”, che sarà applicato per determinare l'attività malvagia di queste figure legate alle credenze pagane e divenute improvvisamente scomode, ma anche utilissimi capri espiatori. “Strega”, da strix, strigis corruzione del termine latino che indica la civetta, l'allocco, il barbagianni e il gufo. Il nome deriva dallo stridio notturno che emettono questi rapaci. La tradizione mescolava il volo notturno della strega con quello di questi uccelli predatori. Da qui il nome. In alcuni dialetti italiani esso viene tramutato in “strie”, le streghe dei boschi e degli antri. La strega moderna è un impasto tra la Lilith degli Ebrei, la Lamia e la Janara. Le streghe sono presenti in tutte le culture agricole, continuatrici di un paganesimo che adora e serve la Terra, rappresentanti del vecchio matriarcato, ultimo baluardo di una religione femminile preistorica. Una cultura agreste, dove l'energia della Terra unita a quella dell'Acqua celebra l'antica Demetra, madre e protettrice della Fecondità. Forse oggi streghe e stregoni farebbero parte di correnti ecologiste, in difesa della natura, dell'ambiente e degli animali e la Chiesa li accetterebbe di buon grado nel suo grembo.
La storia
La storia che sto per raccontarvi è ambientata a Cassano d'Adda nel 1519. Un momento di passaggio turbolento e instabile. Dopo la dominazione dei Visconti e degli Sforza, Cassano, come gran parte della Gera d'Adda, diventa terra di nessuno. Un territorio ambito e conteso, e quindi soggetto a ogni sorta di ruberie. Un territorio insicuro e pericoloso, dove la popolazione assiste indifesa a scorribande di soldataglie, francesi e veneziane, che depredano, saccheggiano, profanano tutto ciò che incontrano. In questo contesto si inserisce la vicenda realmente accaduta a Vanina detta la Zoppa di Pontirolo, Leonarda d'Inzago e Caterina de' Cerbalii di Pontirolo Nuovo. Nella storia compaiono anche il parroco di Cassano, don Gaspare da Carpignano, e Gioachino Beccaria, il frate inquisitore, realmente esistiti. Gli altri personaggi, pur prendendo spunto da documenti del periodo storico analizzato, sono frutto della mia fantasia. Vanina era, con ogni probabilità, una “donna herbana”, che conosceva le proprietà e l'uso delle erbe. Conoscenze che, quasi sicuramente, hanno decretato la sua condanna. Per secoli la donna ha subito l'onta di essere amica del Diavolo, complice di Satana e praticante “stregherie” varie. Per secoli perseguitata per la sua cultura e i suoi antichi saperi, che la Chiesa, in quanto organismo patriarcale, non ha mai del tutto accettato e perdonato Pontirolo Nuovo o Vecchio
Pontirolo Vecchio non esiste e non è mai esistito. Non c'è mai stato nessun paese che si chiamasse così. E allora perché oggi c'è un Pontirolo “Nuovo” se non ce n'è mai stato uno “Vecchio”? Anticamente c'era Pontirolo e basta, che altro non è che l'attuale Canonica d'Adda. Il termine Pontirolo deriva da Pons Aureoli, il ponte dedicato al condottiero romano Acilio Aureolo che si trovava sul fiume Adda, tra Canonica e Vaprio. Come mai oggi Canonica si chiama così e non è rimasta Pontirolo? Tutto ruota attorno a un ponte, anzi attorno a sette ponti. Nel XVI capitolo de I promessi sposi, Renzo Tramaglino chiede a un oste di Gorgonzola dove avrebbe potuto attraversare l'Adda e questi gli risponde: «Volete passare dal ponte di Cassano o sulla chiatta di Canonica?». Nella prima metà del Seicento, epoca in cui è ambientato il romanzo del Manzoni, un ponte sull'Adda a Canonica in effetti non c'era. C'era, invece, nell'Ottocento, epoca in cui visse Don Lisander (nome affettuoso con cui Manzoni veniva chiamato dai milanesi. Lisander è la versione dialettale di Alessandro. Storicamente, deriva dal fatto che il 10 Aprile 1816, con una sovrana risoluzione, l'Imperatore d'Austria riconosce il titolo di Signore di Moncucco a Don Alessandro Manzoni (per questo motivo viene chiamato Don Lisander), una struttura in legno, ben diversa dall'attuale, in cemento, con la caratteristica arcata a mezzaluna. La storia locale narra di ben sette ponti costruiti in quel punto, dove la corrente è particolarmente intensa metà in muratura e metà in legno. La prima struttura sarebbe stata realizzata nel 200 d.C., mentre quello odierno, sul quale scorre l'ex strada statale 525 che collega le province di Bergamo e Milano, fu inaugurato il 1° maggio 1957. Prima di questo c'era un ponte in ferro risalente alla fine dell'Ottocento. Dei ponti precedenti non resta alcuna testimonianza iconografica, ma per certo tutti furono chiamati Pons Aureoli, in memoria del fatto che in quel luogo, nel 268 d.C., l'imperatore Gallieno uccise il luogotenente romano Acilio Aureolo, temendo che quest'ultimo gli volesse usurpare il trono. Ucciso Acilio, Gallieno gli riconobbe però l'onore delle armi e il suo successore, Claudio II, fece costruire il primo ponte che dedicò proprio ad Aureolo. Dal latino Pons Aureoli si passò a Ponsaroli, Pontiroli e infine, a Pontirolo, che diede il nome all'antico borgo dell'attuale Canonica. Il ponte era in una pericolosa zona di confine, così molti abitanti del luogo, nel tempo, decisero di spostarsi più a est, dove fondarono un nuovo centro, inizialmente chiamato Borgo Nuovo. Ed ecco che compare, per la prima volta, l'aggettivo “nuovo”, seppur per identificare l'allora neonato borgo, senza alcun particolare riferimento a Pontirolo. Nel 1100, Pontirolo era a capo di un'enorme pieve che faceva capo a 36 paesi della zona e aveva giurisdizione su 68 chiese, da Villa Fornaci a Sforzatica, da Trezzo a Treviglio. Aveva la valenza di una diocesi, protetta dalla Santa Sede con un editto del 23 giugno 1155. Originariamente, il territorio comunale comprendeva sia Pontirolo (riferito all'attuale Canonica) sia Borgo Nuovo. Solo mezzo secolo fa si arrivò alla separazione del territorio: essendo abitato da ex residenti del borgo in riva all'Adda, a mantenere il nome di Pontirolo fu Borgo Nuovo, mentre il paese più antico venne ribattezzato Canonica, in ricordo della presenza di un'antica collegiata di canonici.
Vanina
Camminava dondolandosi sui larghi fianchi. Sembrava danzasse, le gonne leggermente sollevate per sostenere il grembiule colmo di erbe. I capelli ribelli sfuggivano alla cuffia che ormai aveva perso il suo candore, dopo la giornata trascorsa. Il passo circospetto e gli occhi chiari che scrutavano ora il terreno scosceso ora i margini della radura. Si era spinta fin nel folto del bosco per raccogliere le sue preziose erbe. La strada era stretta e lei posava un piede davanti all'altro per non perdere l'equilibrio, quel piede che spesso le causava dolori. Buttava l'occhio ai bordi della boscaglia, guardinga, attenta a ogni rumore, a ogni fruscio. Temeva incontri inaspettati con cinghiali coi piccoli al seguito, volpi, faine; a volte persino qualche lupo affamato si spingeva fin giù, nella pianura. E forse fu proprio questa concentrazione esagerata che le impedì di vedere la grossa pietra. Sporgeva da un cespuglio della fitta macchia. Il dolore lancinante la costrinse a fermarsi. Si sedette sul grosso masso a esaminare il piede. Il piede storpio, per il quale la gente l'aveva soprannominata “la Zoppa”. Vanina la Zoppa che, mormorava la gente, invece di pensare a prendere marito e farsi una famiglia, perdeva tempo nei boschi a raccogliere erbe. Quel pensiero la riempì di rabbia e un lamento le sfuggì dalla bocca. Il piede si era piegato in un'angolazione strana, che non faceva presagire nulla di buono. Provò con delicatezza a muoverlo, ma un dolore acuto le imperlò la fronte. Improvviso, un fruscio le fece distogliere l'attenzione. Lentamente sfilò il grosso coltello che portava alla cinta. Immobile, seduta per terra, col piede ferito, era sicuramente una facile preda per animali feroci o briganti. Sollevò lo sguardo e lo vide. A pochi metri, immenso e poderoso. Uno stallone nero, batteva la terra fissandola incuriosito. Sopra di lui la sagoma di un uomo si stagliava nella luce del tramonto. “Avete bisogno di aiuto?” L'elsa della spada brillava. Si chinò e lei poté notare gli stivali impolverati e le mani guantate. “No grazie, faccio da me” “Passeggiare nella foresta da sola non è pericoloso?” “è obbligatorio avere compagnia?” “Non obbligatorio, ma prudente” sorrise. “Sono prudente. Conosco la foresta come le mie tasche!” “Che sembrano belle gonfie. Raccogliete frutti, erbe?” E scese agilmente dal destriero. Era alto. La chioma scura danzava morbida intorno al volto cotto dal sole. Sembrava un saraceno. Ne giravano molti nelle campagne. Dicevano che erano pericolosi. Dicevano, ma lei non ne aveva mai incontrati. “Fate vedere...” Istintivamente Vanina si ritrasse. Il cavaliere la fissò, notando il verde intenso e in quel momento cupo dei suoi occhi “Signora, non ho intenzioni bellicose. Vengo da una battaglia, ho solo desiderio di riposo. Vi prego, mostratemi la ferita”. Si tolse il guanto e con sorprendente delicatezza sollevò il piede ferito. “Temo proprio che non farete molta strada... – affermò – Se vi fidate, vi posso accompagnare” Vanina decise di fidarsi. Non aveva alternative. “Abitate lontano?” “Non molto” “allora mettiamoci in cammino – disse, sollevandola senza sforzo e sistemandola sulla sella – Da che parte dobbiamo dirigerci?”
Emanuela Vacca
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