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Autore: Monica Benedetti
Ritagli
Racconti brevi
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Ritagli
12 storie brevi a lume di candela.

La vita è fatta di ritagli. Ritagli di tempo, di spazio, ritagli di terra e di cielo. Infiniti istanti ritagliati all'esistenza fanno infinite storie. In questa raccolta ci sono alcuni dei miei ritagli. Sono storie impresse in un frame di immaginazione, scovate in un sogno o in un panorama ritagliato oltre la finestra. Storie che appartengono a chi legge e a chi sogna.
Non ho seguito un ordine preciso, se non quello del conteggio di parole, in crescendo.
Spero possano esservi, questi racconti, di compagnia in uno dei vostri ritagli.
Grazie e buona lettura.

Zagare

Non era mai dell'umore adatto quando doveva salire su un treno, così come non era mai dell'umore adatto quando doveva spostare il suo naso di qualche metro oltre la sua poltrona. Nello spazio sacro di due metri si era costruito il suo rifugio ed ivi esisteva tutto ciò di cui sentiva il bisogno. Uno schermo TV ultrapiatto, HD e Blueray cui erano collegati due woofer posizionati in modo da rendere quasi naturale il chiacchiericcio dell'infernale tavolozza di pixels, potevano condurlo ovunque desiderasse col solo sforzo di pigiare un tasto sul telecomando piazzato strategicamente sulle ginocchia sì da consentirgli il minimo movimento del braccio.
La poltrona, reclinabile ovviamente, era all'occorrenza il suo letto o una scomoda sedia per drizzare, ogni tanto, la spina dorsale senza rinunciare alla morbidezza
del cuscino sotto il sedere. I braccioli si trasformavano, con un semplice click al bottone invisibile sotto di essi, in piccoli tavolini rettangolari sufficienti a contenere una lattina e un barattolo di fagioli o di pesche sciroppate o di qualunque altra brodaglia fosse in grado di soddisfare il necessario apporto di cibo senza l'obbligo di doversi spostare se non, talvolta, quantomeno per ripulire la postazione prima di soccombere soffocato da una discarica. Il suo cellulare, quasi sempre spento, ogni tanto riemergeva da sotto la poltrona o il cuscino, annaspando richieste d'aria e, solo per pietà, accadeva che lo riaccendesse per controllare il livello della batteria. Ed era accaduto che, in uno di quei moti compassionevoli, aveva cominciato a squillare rivelando sul display il nome di sua sorella che continuava ad apparire e scomparire seguendo il ritmo della suoneria.
Mario, protagonista anonimo come il suo nome, come la sua esistenza, con estrema riluttanza decise di rispondere ed apprese la notizia che lo avrebbe costretto a cimentarsi in un'avventura imprevista e, assolutamente, non desiderata. Sua madre era deceduta e il disappunto di doversi dimenare in uno spostamento di un centinaio di chilometri lo sconvolgeva molto più della notizia. Anzi, a ben vedere, probabilmente si sentiva indispettito dall'improvviso decesso che la donna pareva aver architettato, nei pensieri del figlio, solo per costringerlo, dopo anni di inviti andati a vuoto, ad onorarne, finalmente, almeno uno: l'ultimo ed irripetibile; quello al quale non avrebbe potuto opporsi.
Compagna una rabbia feroce più che una naturale tristezza, girò la chiave una, due, tre volte nella toppa e, a passo lento e strascicato percorse, come un condannato, il tratto di strada che separava il suo rifugio, dalla stazione ferroviaria. Di lì a poco un treno, troppo veloce per i suoi pensieri, avrebbe ospitato il suo flaccido posteriore per quel centinaio di chilometri ed un tempo interminabile. Mario, scostante e distaccato, sopportando a fatica la scomoda poltrona e l'aria condizionata, teneva lo sguardo fisso sul finestrino in cui immagini di paesaggi scorrevano come su una pellicola ad una tale velocità che fermarne un solo frame sarebbe stato troppo faticoso così si lasciò andare ai ricordi.
La sua mente gli restituì immediatamente il mare e la bianca sabbia che aveva visto la sera prima nel suo mondo rettangolare; leoni liberi nella savana e torrenti impetuosi; gli spari nella notte a Manhattan, le Piramidi, la foresta pluviale, gli indios dell'Amazzonia... Così mutava il paesaggio oltre i finestrino. Così Mario poteva sentirsi al sicuro.
Nella sala bianca e asettica di una camera mortuaria una donna in lacrime veniva accompagnata a lato di una barella per il riconoscimento della salma di un uomo trovato senza documenti dopo il disastro ferroviario di cui era rimasto vittima assieme ad un centinaio di passeggeri. Le cause, ancora non accertate, propendevano all'errore umano e il silenzio dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime rendeva ancora più grave, se possibile, la tragedia. La signora squarciò quel silenzio con un grido disperato quando venne sollevato il lenzuolo e riconobbe quel fratello che non vedeva da anni; da quando, come un orso, si era rintanato nella sua grotta di cemento dopo che sua moglie aveva deciso di chiudere i battenti di un matrimonio ben oltre il fallimento. Quel fratello che avrebbe dovuto assistere, lo stesso giorno della sua morte, al funerale di sua madre e che, su quel treno maledetto, ci era salito solo a causa di quel triste evento.
Mario, durante lo schianto, era immerso nell'inebriante profumo di un aranceto in fiore, nel Sud della penisola; l'unico ricordo che conservava della sua breve infanzia. Con lui, con le mani a coppa, riempite di zagare, sua madre, bella e sorridente come la ricordava. Sorrise anche lui e, in quel sorriso, l'ultimo, rimase impresso per sempre.

Devo dirti una cosa


«Devo dirti una cosa» disse al ragazzo che stava percorrendo a rapide falcate il corridoio, diretto alla porta d'ingresso.
«Non ora, sono in ritardo» rispose il giovane finendo la frase oltre la soglia.
Nonno Alessio si tolse un pezzetto di tabacco che gli era rimasto tra le labbra e lentamente riaccese, boccheggiando, la sua pipa di castagno.
L'aveva costruita lui stesso da ragazzo, con l'aiuto del nonno e anche se il vizio di fumarla lo aveva acchiappato da adulto, non aveva mai aspirato da nessun'altra parte che da quel pezzo di legno ricurvo, stagionato e consunto.
Appoggiò una mano sulla mensola del camino e, a tastoni, trovò quello che stava cercando. Una vecchia foto, increspata al pari del suo viso ormai vicino al secolo e rinsecchita come le sue mani nodose e ingiallite.
L'immagine, sbiadita, lo ritraeva ancora giovane e accanto a lui, sorridenti, stavano sua moglie, buonanima, suo figlio e sua nuora che teneva tra le braccia un piccolo Alessio, l'ultimo erede dei suoi ricordi.
Il giorno in cui era stata scattata quella foto era impresso nella sua memoria più di qualunque altro dopo di lì.
Quello era il suo ultimo giorno nella casa di famiglia.
Il figlio e la nuora avevano appena firmato l'atto di vendita ed erano venuti a prendere lui e sua moglie per portarli a vivere in città in una casa tutta nuova, senza toppe sui muri e pietre sporgenti. Luminosa, grande e con un curatissimo e asettico giardino.
Il suo ragazzo non aveva mai amato il silenzio della campagna né avere la schiena ricurva, come il padre, per aver corteggiato troppo a lungo la terra e si era dato da fare studiando e lavorando fino ad ottenere la vita agiata che aveva sempre desiderato.
Denaro, una bella moglie, un figlio perfetto.
Alessio, dal canto suo, era fiero dell'impegno profuso dal figlio per conquistarsi il suo posto nel mondo, per non essere ricordato solo come un anonimo uomo di campagna, spesso troppo sudato e troppo stanco anche per lavarsi via l'odore della terra e degli animali da accudire.
La chiave nella toppa fece scattare la serratura della porta blindata che lo teneva in quella dorata prigione di cui aveva dovuto abituarsi, suo malgrado e suo figlio entrò rivolgendo un'occhiata, sbadatamente, nella stanza in cui Alessio aveva deciso di rimanere dopo la morte della moglie avvenuta dodici anni prima.
Alessio chiamò, tra colpi di tosse, il figlio «Devo dirti una cosa» disse allungando la testa verso la porta per accertarsi che lo avesse sentito.
L'uomo in carriera, già accomodato alla sua scrivania, rispose «Non ora papà. Devo sistemare alcune pratiche urgenti.»
Nonno Alessio strinse la sua foto e deglutì il solito pezzo di tabacco che gli si fermava in gola ogni volta che sentiva tutta la solitudine in cui versava dopo che sua moglie lo aveva lasciato.
Finché aveva potuto muovere le gambe era andato a trovarla ogni giorno, fermandosi durante il tragitto dal solito fioraio, per portarle sempre un fiore fresco.
Quando si erano conosciuti, se la memoria non gli giocava brutti scherzi, lei stava raccogliendo narcisi nel campo accanto al suo e, prima di prendere il coraggio di rivolgerle la parola, anche lui aveva cominciato a raccogliere narcisi, volgendo ogni tanto lo sguardo nella direzione di lei, attendendo il momento opportuno per presentarsi.
Per fortuna la ragazza era sveglia e fu lei a prendere la parola altrimenti quel momento non sarebbe forse mai passato alla storia come uno di quei personali ricordi da conservare nello scrigno dei preziosi.
Ogni giorno dei cinquantacinque anni che avevano trascorso insieme lui aveva raccolto un fiore per lei tornando a casa dal lavoro e quando faceva troppo freddo per e petali delicati, allora le portava un rametto di quercia o di frassino o di rosmarino.
Neppure dopo che lei se n'era andata per sempre nonno Alessio aveva smesso di portarle un fiore fino a che le sue gambe avevano deciso di abbandonarlo, anch'esse.
Ogni volta che si lasciava trasportare dai suoi ricordi tornava a sentire il profumo dell'erba fresca di rugiada, della terra zuppa, dei sorrisi di un bambino che correva e giocava con gli animali della piccola fattoria e ogni volta gli sembrava di poter rimanere lì, se solo avesse fatto uno sforzo in più per non tornare, se solo avesse stretto di più gli occhi e serrate le mascelle fino a sentire più vividi i battiti del suo cuore.
Ma ogni volta era solo una piccola riga di sale che gli restava sulle guance scavate dai solchi dell'aratro del tempo.
La voce di sua nuora, appena rientrata dal lavoro, lo aveva riportato alla realtà ed ora lo stava osservando, appoggiata allo stipite della porta della sua stanza, con ancora il cappotto indosso.
«Tutto bene Alessio?»
Forse lei lo avrebbe ascoltato, così rispose in fretta «Si, si. Devo dirti una cosa» e attese.
La nuora, gentile come sempre, distolse in fretta lo sguardo e si scusò ma era tardi e doveva preparare la cena.
Nonno Alessio riprese la sua foto stropicciata e ne distese le rughe con i polpastrelli poi la ripose nel solito posto, sulla mensola del camino.
Era spento, nonostante l'inverno fosse ormai al suo apice.
Nella casa di suo figlio il riscaldamento era un groviglio di tubi sotto il pavimento in cui passava l'acqua calda e la fiamma del focolare sarebbe stato solo un vizio non necessario.
Poteva ancora immaginarla, però, e ogni tanto tendeva le sue mani e le sfregava ricordando lo scoppiettio della legna resinosa che ardeva ogni giorno nel camino della sua vecchia casa ad accompagnare il profumo del pane e della cenere.
Riprese ancora la sua vecchia foto e stringendola più forte che poteva, infilò le mani sotto la vestaglia per tenerla sul cuore.
Gli pareva di vedere, attraverso il cristallino annacquato, la figura di una ragazza con un mazzo di narcisi tra le mani, che gli sorrideva.
Strinse forte forte gli occhi e le mascelle e tornò a casa.
La cena era pronta e il profumo di pane appena sfornato era accogliente come l'abbraccio di sua moglie e la rincorsa, tra le sue braccia, di suo figlio.

Monica Benedetti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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