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Autore: Paolo Pedicini
Il diavolo e l'acqua sporca
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Il diavolo e l'acqua sporca
Via delle Ginestre.

La vecchia Alfa Romeo nera era parcheggiata a metà di via delle Ginestre.
All'interno dell'auto sedeva un tizio di mezza età, dal fisico asciutto, vestito con un completo blu e una camicia a righe bianche e celesti.
In quella strada non c'era nessuna ginestra. Solo gruppi di case disposti a semicerchi che s'intersecavano, creando ideali parentesi aperte e chiuse. Viali incerti. Passaggi complicati.
L'uomo scese dalla vettura e percorse a piedi tutta quella strada che somigliava a un labirinto. Al termine del viale una targa lo avvertì di aver imboccato via Dell'Amicizia.
Se avesse continuato avrebbe trovato il sentiero Delle Mimose. Decise di non cercare ulteriori prove che dimostrassero l'attendibilità della toponomastica ischitana e tornò indietro.
Salì in macchina e partì diretto a via delle Terme numero 80, sede del commissariato di polizia dove aveva prestato servizio per molti anni e nella quale lavorava ancora una persona che desiderava incontrare.
Ero pronto a correre il rischio di trovarlo cambiato e non temeva di dover provare un senso di delusione.
Uno dei pochi vantaggi di essere stato poliziotto è che si diventa disincantati. In genere luoghi e persone di cui si è sentito parlare spesso e di cui si sono moltiplicate le dicerie, le fantasie poi appaiono opachi e scheletrici, visti da vicino.
Ma non a chi lavora nella polizia, che corre, semmai, il rischio opposto di trasfigurare le cose verso il basso e cercare a priori lo scadimento. Il divario negativo.

L'inizio dell'improbabile.

Alberto Toracca, da qualche anno in pensione, oltrepassò l'ingresso della stazione di polizia accompagnato dal buonumore di chi assapora la vita di ritirato dal lavoro.
Non l'esistenza in sé stessa, però. Quella non lo aveva mai entusiasmato, anche perché l'unica cosa che le riesce bene è lasciarti inseguire dai ricordi.
Accade fin dal primo giorno in cui rammenti ciò che hai fatto ieri. Il problema è che in età avanzata gli echi della memoria diventano troppi. E tutti ostili.
Più semplicemente godeva dell'enorme piacere di non essere costretto a sprecare la maggior parte del suo tempo in ufficio.
Da dietro il vetro del gabbiotto posto all'ingresso lo inseguì una voce.
«Dica?»
«Buongiorno. Mi chiamo Toracca. Cerco Leonardo Oropallo. L'Ispettore.»
L'agente sollevò la cornetta del telefono e schiacciò un pulsante. Poi parlò.
«Ispettore, una persona chiede di lei.»
«Fallo passare.»
«Non vuole sapere il nome?»
«Non serve. Sappi che di fronte a te c'è il funzionario che ha diretto questo commissariato per quindici anni.»
Il poliziotto sbiancò, poi iniziò a balbettare.
«Mi. Mi. Mi scusi signor Commissario.»
«Ex. Comunque non si preoccupi. A dopo.»
Toracca entrò nella stanza del suo amico Ispettore, che si alzò dalla poltrona e lo abbracciò. Tutti e due videro nell'altro un sorriso appesantito dagli anni, ma tennero segreta la riflessione.
L'ex Commissario prese posto su una delle due sedie riservata ai visitatori. Si spostò avanti e indietro un paio di volte, e notò che era munita di docili sfere d'acciaio.
Rilassato dal movimento chiese informazioni sul poliziotto di piantone.
«Mi sbaglio se affermo che il collega è un poco sovrappeso?»
«Già. Da quando soffre di depressione nervosa non fa che mangiare. Non è grave, ma il medico ci ha sconsigliato di impiegarlo in attività operative.»
«E lui come l'ha presa?»
«Benino. Anzi, maluccio. Si sente un uomo finito ma ha raggiunto il suo equilibrio. Se ha provveduto ad aumentare le calorie ingerite in cambio ha diminuito la velocità alla guida. Il suo limite invalicabile è di trenta all'ora. In qualsiasi situazione.»
«Ci credo che lo teniate in ufficio.»
«Alberto come mai hai deciso di stabilirti qui a Ischia e non sei tornato a Sarzana?»
«Mi sono consultato con Valentina e ho capito quanto lei sia legata a quest'isola, quindi l'ho accontentata. Tra l'altro io mi sento più campano che ligure.»
«Bene. Mi fa piacere. Certo che mai avrei immaginato che tu rinunciassi alla vita da scapolo. Rimpiangi qualcosa?»
«Solo non poter più lasciare il letto disfatto al mattino. Per il resto con Valentina mi trovo benissimo. L'amore mi ha sempre parlato di lei. Sapevo che un giorno l'avrei conosciuta.»
«Me lo ricordo bene. Quando si dice il caso.»
«In questo caso non fu il caso ma “un caso”. Chiedo venia per le ripetizioni.»
«Alberto andiamo a prendere qualcosa al bar.»
«Con piacere.»
Mentre camminavano nel corridoio diretti all'uscita Leonardo decise di ravvivare l'ambiente poco illuminato.
«Alberto. Il parroco di San Gaetano ha da poco appeso un avviso all'ingresso della chiesa. Invita i fedeli a spegnere i cellulari durante la funzione, perché, aggiunge, se vuoi parlare con Lui basta sederti in qualunque angolo della basilica. Se, invece, vuoi incontrarlo non hai che inviargli un messaggio mentre sei alla guida.»
«Questi monsignori. Questi principi della Chiesa. Non sono diventati tali perché li hanno estratti a sorte. La scuola si sente, come nel caso del parroco di cui sopra.»
«Noto un certo sarcasmo.»
«Ma no. In tal caso avrei detto che la fede religiosa consiste nella fiducia del verificarsi dell'improbabile.
Un nome esotico.

Seduti a uno dei tavolini piazzati all'esterno della Cafeteria de la Isla (una strizzatina d'occhio ai turisti spagnoli?) Alberto continuò a parlare.
«Come stanno i ragazzi?»
«Loro bene» rispose Leonardo «io e Ilaria molto meno. Vivono lontano. Siamo due sentimentali, sentiamo la loro mancanza però quando ci riuniamo è come un amore che si rinnova.»
«Capisco. Anzi, no. Questa fortuna mi manca. Talia è sempre la tua unica nipote?»
«Sì. Aurora vuole dedicarsi solo a lei»
«Il marito è d'accordo?»
«Mah. Diciamo che mantiene l'atteggiamento diplomatico che ebbe quando scelsero il nome della bimba. Aurora voleva chiamarla Italia. A lui non piaceva. Decisero che togliendo l'iniziale sarebbe venuto fuori un che di esotico.»
«Decisero? Conoscendo Aurora credo che lei abbia rinunciato a una vocale per non perdere il privilegio della scelta.»
«Penso di sì.»
«Sarebbe stato facile trovare un appellativo differente. Ma lei non è il tipo da arrendersi. Ma tu non gliel'hai chiesto?»
«Aurora è chiusa, riservata. E se insisti lo diventa ancora di più. Quindi ho preferito non impicciarmi.»
«A proposito di intromettersi, Leonardo. Ho seguito la vicenda di Giacomo Ciotta. Da quanto ho letto sembrerebbe sia lui l'assassino della moglie. Come si chiamava lei? Non ricordo.»
«Cristina. Ho partecipato all'indagine e gli indizi a suo carico sono pesanti. Inoltre lui o non risponde o dice bugie. Però saranno i giudici a decidere, visto che è stato rinviato a giudizio.»
Poi il Sostituto Commissario Leonardo Oropallo spense la voce. Diventando tetro all'improvviso.
Toracca interpretò quel comportamento dovuto a un eccesso di riserbo.
“Che diamine”, pensò, “ormai sono un cittadino comune ma lui mi conosce bene. Non voglio immaginare che tema di rivelarmi particolari coperti dal segreto istruttorio. Sarebbe di una pochezza sconcertante. E non è da lui”.
Il silenzio durò a lungo. Forse troppo. In ogni caso il tempo necessario affinché sul volto di Leonardo apparisse il disagio che accompagna colui che si è reso conto di aver infilato il piede destro nella scarpa sinistra.
Poi, come d'incanto, l'imbarazzo svanì. L'uomo ritornò a parlare e, nell'esotica cornice di un anonimo bar; raccontò tutta la vicenda abbandonando ogni ritrosia, di qualsiasi natura fosse.

L'anno prima. Un omicidio.


«L'anno scorso, più o meno di questi tempi, verso le dieci di sera un uomo chiamò il numero di emergenza e riferì di aver trovato la moglie morta al suo rientro in casa. Parlò di suicidio, ma quando intervenimmo capimmo subito che si trattava di tutt'altro: non è semplice ammazzarsi con tredici coltellate.»
«Tu c'eri?»
«Sì. Il Commissario Santacroce era a Roma per un corso di aggiornamento, quindi lo sostituivo io. Chiamai il magistrato di turno, la dottoressa Tagliavino, e l'aspettai sulla scena del crimine. Nell'attesa Giacomo Ciotta mi riferì di essere stato a cena con degli amici e di aver trovato la moglie morta al ritorno a casa. Disse di non poter immaginare chi potesse aver commesso quello scempio, ma non lo vidi affranto più del dovuto. Poi venne la Tagliavino, che lo interrogò. E qui iniziarono i problemi. Per lui.»
«Come mai?»
«Credo che non si siano piaciuti a pelle. Lei gli chiese perché avesse menzionato il suicidio nella chiamata. Se andasse d'accordo con la moglie e altre domande. Tutte con tono abbastanza aggressivo. Lui si chiuse in sé stesso e ripeté che non avrebbe sprecato tempo a rispondere sapendo già che non sarebbe servito a niente.»
«Che intendeva dire?»
«Aveva capito che la giudice sospettava di lui e che non avrebbe creduto a una sola parola, ma che lo stava provocando per indurlo in errore.»
«Era così?»
«A posteriori devo ammettere che aveva ragione. Ma il punto vero era un altro: Giacomo Ciotta è un uomo dal carattere fermo e poco gradisce gli attacchi. Il suo silenzio era una forma di difesa.»
«Continua.»
«Nei giorni a seguire fu eseguita l'autopsia. Il medico legale accertò che la morte di Cristina Domicelli era avvenuta a causa di numerose pugnalate, inferte con due coltelli diversi e che la donna presentava tracce biologiche su cosce e gambe. Sperma.»
«Due pugnali?»
«Già. Il primo non era abbastanza appuntito. L'assassino, quindi ne aveva usato un altro più utile alla causa.»
«Omicidio premeditato?»
«Sembrava più d'impeto. Un coltello di sicuro è stato preso dalla cucina. Ma ci arriveremo. Prima ti racconto della Piemme che quando lesse il referto convocò subito il marito della defunta, invitandolo a presentarsi accompagnato dal legale di fiducia. Non ti dico come si arrabbiò la Tagliavino quando lui continuò nel silenzio totale. Ricordo che il Ciotta rispose solo a una domanda, sostenendo che il giorno dell'uccisione della moglie, né in quello precedente, avesse avuto rapporti sessuali con lei.»
«Quindi?»
«La dottoressa gli chiese la disponibilità a sottoporsi alla prova del DNA. Lui accettò senza protestare e da quel momento iniziarono i guai. Sempre per lui.»
«Scommetto che le tracce erano sue.»
«Infatti. A quel punto ritornammo nella casa e facemmo un'ulteriore perquisizione. La sera stessa avevamo prelevato tutti i coltelli presenti nell'abitazione e uno di questi era compatibile con le ferite mortali. Sai uno di quelli usati per tagliare la carne, ma noi cercavamo l'altro. Non trovammo nulla, però...»
Il racconto aveva coinvolto Toracca, che lo interruppe per eccesso di entusiasmo.
«Leonardo. La domanda nasce spontanea: esiste qualcosa a favore di Giacomo Ciotta?»
«No. Tra l'altro la donna aveva un'assicurazione sulla vita di 80.000 euro.»
«E lui è il beneficiario.»
«No. La signora Cristina aveva cambiato da poco il nominativo dell'erede.»
«E chi aveva nominato?»
«Una sua amica. Tale Marzia Illiano.»
«Ma lui lo sapeva?»
«Sembra di no. Almeno a quanto dichiarato dalla figlia e la figliastra.»
«Oddio. Questa me la spieghi.»
«Hai ragione. Quando Cristina e Giacomo si sono sposati le aveva già una figlia, Letizia, di cui non si conosce il padre, tanto è vero che porta il cognome materno. Dall'unione di entrambi è nata Immacolata. Ecco spiegato il mistero, in apparenza. Perché mi ha sorpreso che tutte e due le ragazze non abbiano disegnato un ritratto benevolo del loro padre. O patrigno che sia. Non si sono limitate a dichiarare che lui non fosse al corrente della modifica del beneficiario, hanno anche aggiunto che il tipo era propenso a esplosioni di rabbia.»
«Da come lo hai descritto non si direbbe.»
«Vero. Infatti quando la Tagliavino lo ha interrogato l'ultima volta e gli ha fatto presente che gli indizi a suo carico fossero gravi ha reagito con freddezza e lucidità.»
«Ovvero?»
«Ha preso un pacchetto di Marlboro morbide dal taschino della camicia e ha fissato la Piemme. Poi le ha chiesto che cosa avesse nella mano. La procuratrice, spiazzata, ha farfugliato una risposta che sembrava una domanda: “sigarette?” Allora lui lo ha accartocciato e, con lo sguardo di ghiaccio, ha detto testuale: “ecco la fine che faranno i vostri gravi indizi”. Poi è andato via lasciando il tabacco stritolato sulla scrivania.»
«Accidenti! E lei?».
«È corsa dal Procuratore Capo e si è fatta firmare il fermo dell'indiziato. Il GIP lo ha convalidato. Il GUP ha disposto il rinvio a giudizio. Il processo inizierà a fine mese.»
I due vecchi amici lasciarono il bar per ritornare alle rispettive esistenze. Leonardo rientrò in ufficio. Alberto a casa, dove lo aspettava Valentina, alla quale avrebbe raccontato, forse, la storia di Giacomo e Cristina.

Una chiesa. Un prete.

Mentre andava per le viuzze del centro Valentina sentì, all'improvviso, un acuto odore di cera e vide, in una modesta rientranza delle palazzine, la facciata di una chiesa.
Dal portone erano appena emerse due donne di mezza età, che ora stavano riponendo i veli nelle borsette.
Annarella, s'informava una in dialetto, si era più ripresa. Nun tanto, rispondeva l'altra scrollando il capo.
Valentina esitò. Era una devota abbastanza saltuaria, ma il racconto di Alberto l'aveva trasportata lì non per venerazione quanto per curiosità.
Rifletté un momento poi decise di andarsi a sedere in quel santuario che l'aveva sempre attirata ma nel quale non era mai entrata prima.
Le due donne si allontanarono in direzioni opposte e lei entrò nella chiesa dopo aver spinto il battente con la mano destra. Non si soffermò sugli avvisi appesi nella bacheca. Se lo avesse fatto avrebbe letto l'ammonimento riferito all'uso dei cellulari, e anche un cartello con la scritta “non bisogna avercela con i ricchi ma con la ricchezza”.
Una volta dentro si trovò immersa, di colpo, in un'oscurità gelida e profonda, impregnata dalle fiammelle di migliaia di candele.
Stupita dal forte contrasto di ombre e fuoco, ma pensando a un guasto dell'impianto elettrico, avanzò nella navata centrale e si sedette, a caso, in un banco sulla destra.
La chiesa era quasi deserta, fredda, spoglia. In fondo, vicino all'altare, si distingueva una confusa struttura d'assi e tubi. Un'impalcatura che si perdeva nelle alte tenebre del soffitto.
“Ecco”, pensò Valentina, “stanno riparando, o restaurando, qualcosa. Perciò manca la corrente elettrica”.
Nel mezzo della riflessione sentì una grossa mano posarsi rude sulla sua spalla. Poi una voce maschile, non alta ma sicura, autoritaria, dall'inflessione minacciosa.
«Cosa fai tu qui?»
La donna si voltò e vide vicinissima, incombente, una testa mozzata. L'assoluta irrealtà dell'apparizione durò un attimo; poi il cuore le tornò a battere e il pianeta riprese la propria solidità.
La testa aveva un suo supporto bianco, un collarino da prete. Sotto c'era la tonaca, invisibile contro lo sfondo buio e, fattore decisivo, la sagoma scura emanava un odore naturale, terreno. Tipo un abito mai portato in lavanderia.
«Prego.» Rispose lei una volta ripresasi dallo spavento.
«Prega, donna, prega!» Comandò il prete «Ma fallo al tuo posto. Ognuno deve rispettare la sua collocazione. O vogliamo che il grande bordello ci travolga?»
Senza aspettare la risposta, infilò la mano sotto l'ascella della signora, la quale si trovò sollevata e trascinata verso i banchi di sinistra da una presa di ferro.
«Le donne da questa parte. I maschi dall'altra! Se Dio avesse voluto confonderli li avrebbe fatti uguali!»
«Non lo sapevo» rispose Valentina imbarazzata. Quindi un lampo fece irruzione nel suo disagio.
“Sono entrata al momento giusto per assistere a una crisi di follia del parroco”, pensò, “o forse è un pazzo vero travestito da sacerdote”.
La donna si guardò intorno in cerca di aiuto. Anche il prete si girò a guardare, poi la sua faccia si torse in una specie di cenno d'intesa.
«Non avere timore. La casa del Signore è il rifugio più sicuro. Sei nuova? Non ti ho mai vista.»
«Appartengo a un'altra parrocchia.» La risposta di Valentina fu accompagnata da una prosodia eccessiva, come se lei stesse rispondendo sotto la minaccia di una Colt impugnata da uno sceriffo poco propenso ad accettare gli stranieri.
«Sei entrata senza segnarti con l'acqua benedetta.»
“Razzista ma sveglio il monsignore munito di stella e cinturone”, ironizzò con la mente lei.
«Vai a bagnarti le dita. La carne, non i guanti!»
Valentina si alzò in piedi e camminò verso l'acquasantiera. Si sfilò il guanto e solo allora comprese che a pochi metri da lei c'era l'uscita. La strada. La ragione. Ma non fece nulla. A parte rivivere un incongruo ricordo turistico.
Era stata a Roma e col primo marito, colui che sarebbe stato sostituito da Alberto, avevano cenato nel famoso ristorante ove vigeva la regola di maltrattare i gongolanti clienti.
Ricordava bene il faccione rozzo e la voce tonante con la quale il proprietario del locale insultava gli avventori. Grazie a quella trovata la trattoria aveva avuto un successo strepitoso che non sarebbe mai diminuito nel tempo.
Tutte le sue paure si sciolsero trasformandosi in un moto di simpatia verso il prete diventato, ai suoi occhi e a un passo dalla fine del mondo, non più uno sceriffo ma un oste bonaccione.
Un curato di campagna sempre pronto allo scherzo. A una partita a carte. Al mezzo litro di vino.
Ma quando lo vide rovistare nella borsa che aveva lasciato sulla panca le sue certezza subirono un duro colpo.
«Ma cosa fate? Avete bevuto il mezzo litro di primo mattino?»
Don Votino non sorrise, non si difese, non si appellò allo scherzo da prete.
Estrasse dalla borsa firmata un portamonete gonfio, per i documenti contenuti all'interno non certo di banconote, ma questo lui non lo sapeva, ed emise un mormorio, soffuso quanto la luce delle candele.
«Sei ricca, ma diventerai povera.»
Ripose il portamonete nella borsa e la riconsegnò alla proprietaria, poi andò tra i cavernosi blocchi di buio.
Valentina, desiderosa di essere rischiarata da leghe di luce lasciò il luogo sacro e tornò a casa.
Alberto alzò gli occhi dal Corriere della Sera quando sentì la serratura della porta d'ingresso emettere il familiare rumore di una chiave che gira all'incontrario.
Sorrise a Valentina per niente deluso dall'aver dovuto interrompere la lettura. Era giunto alla sezione dedicata all'economia. Un argomento che non lo aveva mai appassionato.

Paolo Pedicini

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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