Un destino paradisiaco alle isole Galápagos.
L'isola di Isabela aveva la forma di un cavalluccio marino e primeggiava nell'arcipelago delle Galápagos rispetto alle altre isole che lo componevano, tra cui le principali erano Santa Cruz, Santiago e Fernandina. Quest'ultima era famosa per Punta Espinosa, un magico paradiso di iguane marine che si crogiolavano sulle distese laviche, ed era dominata dal vulcano attivo Le Cumbre che le conferiva l'attributo di unico ecosistema dove i cormorani prediligevano nidificare. La città principale e unico centro abitato di Isabela era Puerto Villamil, sulla costa. Qui si concentrava la maggior parte della popolazione dell'isola e la maggior parte delle strutture turistiche; il resto del luogo era sostanzialmente disabitato ed era regno incontaminato di una natura selvaggia e primordiale. Camilla e Marco raggiunsero l'isola di Santa Cruz in aereo da Guayaquil, città colorata che girarono in lungo e largo non mancando di visitare il colorato quartiere di Santa Ana sulla collina. Quando misero piede sull'isola l'atmosfera era differente, predominava la quiete dei piccoli paesi di mare con il ritmo del giorno scandito dalle onde del mare e dal via vai di iguane. Un po' dovunque leoni marini sdraiati o con il muso all'insù nell'intento di marcare il territorio. Qualche fregata che planava sull'orizzonte, qualche piccolo bed and breakfast fatto in pietra lavica e dipinto dei colori del mare, qualche piccolo ristorantino sulle rive del mare e tanto odore di guano nell'aria. I colori erano meravigliosi, dal giallo che spiccava tra le nuvole nere, ma non minacciose, all'argento del mare interrotto da scogliere laviche distribuite qua e là. Questa fu una delle prime emozioni che Camilla provò quando mise per la prima volta piede sulle Isole Galápagos. Non c'erano molti divieti se non quelli essenziali legati alla tutela dell'ambiente e soprattutto alla gestione della plastica. Il viaggiatore, quindi, giunto nella terra di Darwin cominciava a sentirsi ospite della natura, e questa sensazione la provava sin dal primo istante e la portava con sé durante tutto il viaggio in quell'arcipelago. La sensazione che Camilla provò era quella di un imbarazzo estremo verso quella terra, ma allo stesso tempo una gratitudine immensa per averle offerto la possibilità di ammirare quelle bellezze. Era la prima volta che a ospitarli non era un paese fatto di gente, bellezze architettoniche e monumentali, ma un luogo incontaminato dove fauna e flora dettavano le condizioni di sopravvivenza e sostenibilità. Il viaggiatore non poteva che adeguarsi se voleva farne parte e godere di queste bellezze, con un profondo senso di responsabilità sociale, per garantire che tutti avessero l'opportunità di questi paesaggi incontaminati. E fu così che Camilla consolidò il senso del rispetto per la natura e per l'ambiente, in una condizione di coesione tra l'uno e l'altro, che era quanto qualcuno denominava responsabilità sociale. Isabela era, invece, l'isola più grande dell'arcipelago delle Galápagos e contava cinque vulcani attivi, tra cui il Wolf, che con i suoi 1710 metri sul livello del mare rappresentava il punto più alto dell'arcipelago e si trovava nella testa del cavalluccio marino cui poteva ricondursi idealmente l'isola. Al centro del corpo di questa specie marina, e quindi dell'isola che replicava, era visibile il vulcano Darwin e andando più a sud il Vulcano Alcedo, famoso per la sua bocca larga sette chilometri e le sue fumarole nei pressi delle quali vivevano le tartarughe giganti. Sempre sulla coda del cavalluccio, il Vulcano Santo Tomas, raggiungibile solo in jeep con un percorso rocambolesco che portava a un sentiero da percorrere a piedi, da cui si raggiungeva la sua bocca con un diametro di dieci chilometri e tutt'intorno il fumo delle fumarole. Non era un caso né la conformazione dell'isola né il nome che era stato attribuito a quella dolce bambina. Lei non aveva milioni di lentiggini come la madre, Camilla. Isabela era simile al padre, con capelli ricci ramati e occhi nocciola in cui il verde e il marrone si alternavano in un valzer di colori. Si portava abbastanza alta e questo lo doveva alla madre, era esile e molto curiosa. Ognuno di quei vulcani era, come il tempo dimostrò, una qualità attiva, ma nascosta di Isabela che con tanto amore fu concepita nell'isola omonima dell'arcipelago delle Galápagos.
Camilla e Marco erano giunti alle Galápagos dopo aver attraversato il Costa Rica ed essere scesi da Quito sino a Guayaquil, la città colorata, costeggiando la cordigliera delle Ande, imponente e con le cime innevate, e visitando tre dei dieci principali vulcani che popolavano il paese. Tra questi il Chimborazo, a 6263 metri, fu l'unico su cui salirono perché era il primo che videro. Quando arrivarono a circa quattromila metri, ogni passo potevano farlo solo con l'aiuto di una gru, se l'avessero avuta, e il cuore era oltre la gola senza un minimo d'aria. Poi toccò al Tungurahua e al Cotopaxi. Durante il viaggio avevano vissuto anche la fiabesca esperienza del Nariz, o Naso del Diavolo, con il suo celebre trenino sulle Ande. Questo non era un semplice trenino, ma la memoria vivente dell'intraprendenza, della fantasia e della lungimiranza del genere umano, e dell'immenso coraggio necessario per mettere in pratica la follia di un piano: far superare a un treno un dislivello di circa ottocento metri in una manciata di chilometri. Per far questo, gli ingegneri idearono un sistema di binari a zig-zag, tale da consentire al treno di superare il dislivello percorrendo quelle rotaie, andando in un senso e nell'altro fino a salire o scendere al livello desiderato, come una serie di passerelle messe a triangolo. Così facendo, il problema fu risolto con intelligenza e con coraggio, perché dovettero credere che un tal sistema potesse funzionare. L'esperienza fu entusiasmante perché avevano vissuto virtualmente anche un pezzo di storia, vivendo il luogo che aveva rappresentato l'incubo degli ingegneri ecuadoriani durante la costruzione della ferrovia che avrebbe collegato Quito a Guayaquil e ritenuta economicamente e socialmente strategica. Di buon mattino presero quel trenino che partiva dalla piccola stazione di Alausí, cittadina colorata con palazzetti gialli, ocra e arancio. Il viaggio durò circa tre ore, e dopo aver provato l'esperienza dell'andirivieni di quel trenino su e giù sui binari con carrozze molto eleganti e morbidi divanetti che fungevano da sediolini intorno a un tavolino, fecero una sosta a un'altra piccola stazione in mezzo alle Ande, molto soleggiata, per fare delle foto. L'aver partecipato a un'esperienza del genere, rappresentava il Nirvana per Camilla, poiché l'essenza dell'opera era l'aver realizzato una cosa sino a quel momento ritenuta impossibile. Questa era anche l'essenza di Camilla: voleva raggiungere sempre l'impossibile. Intanto, la strada ferrata che stavano percorrendo scorreva lenta, ma regnava uno spirito di avventura che rendeva l'esperienza sempre più intensa. Controllavano ogni piccolo movimento o zig-zag di quel treno. A ciò si aggiungevano altri piccoli problemi, come quelli derivanti dallo stare perennemente a un'altitudine di almeno tremila metri con tutti gli effetti propri del soroche, il mal di montagna. Avevano già vissuto questa esperienza in un precedente viaggio in Perù, ma dovevano comunque ricominciare ad adattarsi e a gestire il mal di montagna, anche con l'aiuto delle foglie o del mate de coca che trovavano sistematicamente negli hotel dove pernottavano. Erano in un idilliaco viaggio di nozze, integrato con gli impegni di lavoro di Marco, e quindi erano felici. Ma avevano anche attraversato, con coraggio, terre lontane e impervie dove la natura faceva da padrona. L'esperienza nel Corcovado, in Costa Rica, per esempio, restava impressa nella loro mente. Ospiti della natura avevano dormito in una tenda montata in cima a un albero ed ermeticamente chiusa per evitare che entrassero animali o insetti. Si erano lavati in un bagno a cielo aperto nella giungla, riparati dalle palme da cocco, e con piccole rane con striature colorate dal rosso al verde che gli saltellavano tra le caviglie, creando attimi di terrore perché molto velenose. La sera, al tramonto, bevevano birra con la testa all'insù per veder volare i pappagalli ara che tornavano sui rami dei propri alberi per riposare, beffeggiandosi dei tucani che facevano capolino dagli alberi di fronte mettendo in mostra i colori sgargianti. Il verso dei pappagalli ara e lo sbattere delle ali per scandire il ritorno e mettere in mostra l'intensità del rosso e dell'azzurro, rendevano l'atmosfera magica, e quella birra della sera era superlativa. E tutto ciò con l'aiuto del mare che scandiva, con il rumore delle onde, quei momenti di quiete vissuti immersi nella giungla. Durante il giorno, erano impegnati a fare trekking alla ricerca di specie animali sino allora mai viste, camminando attraverso la vegetazione e scrutando ogni angolo per scorgere un'ombra e magari osservare una specie a loro sconosciuta. Questo non accadeva quando si trattava di pappagalli ara nascosti dietro le foglie. In quel caso, erano i colori a mettere in mostra il pennuto nonostante si nascondesse tra la vegetazione, e poi quando si faceva vedere lo spettacolo diventava paradisiaco.
Eugenio Alaio
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