La tigre di Valdrusina - Ombre di guerra.
Nella loro stanzetta della Shtëpi, Yelena si era sciolta dall'abbraccio del suo compagno, si era alzata e aveva iniziato a indossare i suoi indumenti da combattimento: pantaloni aderenti, stivali militari, leggero giubbino antiproiettile, guanti rinforzati con fibre di carbonio sulle nocche, e una cintura speciale con scomparti ripieni di armi. Il tutto occultato da una felpa nera con cappuccio, molto leggera, ma di un tessuto quasi impenetrabile. Agim, rimasto seduto sul lettino con lo sguardo pensoso, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la testa tra le mani, sollevò il mento e la contemplò stupito. «Vuoi davvero iniziare una guerra?» mormorò. «Non ho scelta, la guerra è già qui, non te ne sei accorto? Non credi che sia giunto il momento di scoprire chi ha ucciso i nostri amici e di vendicarli, o dobbiamo attendere senza fare nulla che uccidano e torturino anche noi?» L'albanese si alzò e allargò le braccia. «E vorresti combatterli da sola?» commentò preoccupato «Tu, da sola, contro una banda di feroci assassini dei quali non sappiamo niente, e che Kobaisi ci ha ordinato di non contrastare?» La rumena alzò le spalle, nervosa. «Kobaisi, Kobaisi, e dove cazzo è ora Kobaisi... e perché ha dato queste disposizioni? Non lo sappiamo, e forse non lo sapremo mai, anche se potrebbe avere le sue buone ragioni.» strinse le mani a pugno. «Comunque, come ho già detto, i suoi ordini non mi riguardano, io sono grata al tuo capo per avermi accolta e aiutata, lo sai. Ma sono rumena, non faccio parte della Vëllazëri! E poi... Sì, se sarà necessario combatterò da sola, credi che non ne sia capace? E allora non mi conosci.» Agim la contemplò: Yelena, con gli azzurri occhi lucenti e con la chioma che alla luce della stanza sembrava fiammeggiare, non era mai stata così bella. Sentì il cuore tumultuare per l'ansia e per la disperazione. Adorava quella donna e il solo pensiero che potesse trovarsi in pericolo gli annebbiava la mente e lo addolorava. Le si avvicinò, le afferrò le spalle e se la strinse al petto stringendola forte e accarezzandola. «È vero, e ogni volta che ti ho vista in azione ho ammirato la tua forza, la tua determinazione e il tuo coraggio. Eppure, mi rendo conto che ci sono ancora tante cose che non so di te, segreti del tuo passato che custodisci gelosamente e che forse ti tormentano. Non ti ho mai chiesto nulla. So quanto tu sia fiera e orgogliosa e lo rispetto. Ma il mio desiderio più grande è condividere con te ogni momento della mia vita, ogni pensiero, ogni desiderio, ogni sofferenza. Vorrei tanto sapere ogni cosa di te... ma me lo dirai solo quando sarai pronta e se lo vorrai.» Yelena si scostò e fissò lo sguardo in quel volto dal quale era scomparso l'atteggiamento ironico e canzonatorio che gli era abituale. In quegli occhi verdi colse l'inaspettato scintillio di lacrime trattenute e una certa disperazione. Aveva sempre saputo che l'albanese teneva molto a lei, ma solo ora comprese davvero quanto quell'amore fosse incondizionato, sincero, profondo e intenso. Per la prima volta nella vita, lei, che non si era mai fidata di nessuno, comprese che di lui poteva fidarsi e che con lui, ma solo con lui, poteva anche confidarsi. Si rilassò, si sedette sul letto e afferratogli un braccio se lo fece sedere accanto, poi, chinando il capo, cominciò a raccontare. «Abitavamo nei pressi di Bistrita, io avevo nove anni e la mia sorellina soltanto cinque quando i nostri genitori restarono entrambi uccisi in uno scontro a fuoco tra bande. Era uno dei tanti che allora avvenivano. Fummo accolte da una zia paterna, ma una notte... avevo solo sedici anni, mio zio entrò nel mio letto e cercò di violentarmi. Ero già alta quasi come adesso e abbastanza forte, lo colpii con violenza e riuscii a scacciarlo. Raccontai tutto a mia zia, ma invece di sostenermi lei mi gettò fuori di casa insieme con mia sorella...» Si interruppe, sentiva salire un nodo alla gola mentre una serie di immagini affollavano la sua mente. Era un film già visto e più volte, troppe volte, rivisto. -La porta della camera aveva cigolato lievemente, poi qualcosa di grosso e pesante si era introdotto sotto le coperte al suo fianco ridestandola. Una mano rapace e viscida si era insinuata nella scollatura della sua camicia da notte e le aveva afferrato e stretto il seno, facendole male. Un alito fetido di vino si era accostato alla sua bocca, mentre un'altra mano cercava di aprirle le cosce. Aveva tentato di urlare, ma la voce le si era strozzata in gola. Con un faticoso sforzo e aggrappandosi alla spalliera del letto era riuscita a mettersi seduta, e aveva scalciato violentemente con entrambe le gambe scaraventando in terra il suo aggressore. Questi aveva cercato di risalire sul letto e di impedirle di gridare tappandole la bocca con una mano. Brancolando nel buio Yelena era riuscita ad afferrare una statuina di legno dal comodino e aveva colpito con forza la testa dell'uomo, poi, con una spinta violenta era nuovamente riuscita a gettarlo in terra. Da un secondo lettino, situato in un angolo della stanza, una vocina argentina aveva mormorato qualcosa. Era la sua sorellina che i rumori provocati da quella lotta avevano destato. A questo punto l'uomo aveva ritenuto opportuno rinunziare alle sue voglie e si era allontanato. Nell'aprire la porta il suo volto era apparso e l'aveva riconosciuto: era suo zio.- Agim, sconvolto dall'espressione della donna e del suo improvviso mutismo, le afferrò il viso tra le mani. «Basta. Lascia stare, non continuare. Non voglio che tu soffra ricordando quelle tristi vicende...» Yelena fece un sorriso mesto. «No, lasciami parlare, voglio liberarmi di un peso che mi opprime da anni!» afferrò una bottiglia, bevve un sorso d'acqua e continuò. «Trovai una fatiscente baracca dove abitare e feci diversi lavoretti: commissioni, pulizie, piccole cose che solo a stento ci consentivano di sopravvivere. Adoravo la mia sorellina, e quando ero alle strette le procuravo del cibo rubandolo nei mercati. Una sera, era tardi, molto tardi, fui circondata da tre teppisti. Cosa volevano? Non lo so, forse volevano solo picchiarmi o forse violentarmi. Cominciai a lottare... Ma erano troppi e troppo forti. Stavo per soccombere quando intervenne un vecchio giapponese: un omettino in apparenza piccolo e magro. Ordinò con durezza di lasciarmi stare. Lo guardarono con disprezzo, si misero a ridere, lo sbeffeggiarono e ricominciarono a colpirmi senza curarsi di lui. Poi avvenne l'incredibile, il vecchio si fece avanti muovendosi con tale velocità che era impossibile capire che cosa stesse facendo. Pochi minuti dopo quei tre robusti giovinastri giacevano in terra, svenuti e sanguinanti.» Agim, rabbioso e indignato la interruppe stringendo i pugni. «Avrei voluto esserci e quei bastardi non avrebbero potuto toccarti. Quel vecchio è stato un vero eroe! Ma, come ha fatto?» Yelena annuì, pensosa. «Sì, anche se anziano, era uno degli ultimi esperti maestri del Kodokan Judo, un'antichissima arte marziale ormai quasi sconosciuta. Accolse me e mia sorella nella sua casa e ci fece da padre. Ci mandò a scuola, e a me insegnò ogni minimo segreto di quell'arte. Divenni una combattente, forte nel corpo e nella mente. Ottenni il decimo Dan nel Kodokan Judo e aprii una palestra. Guadagnavo bene e stavamo tranquille, poi... passarono gli anni e a Bistrita uno schifoso assassino seriale violentò e uccise la mia sorellina. Fuggì all'estero, continuando a violentare e uccidere. Lo inseguii per mezza Europa, mi infiltrai in quella cosca di delinquenti rumeni dove si era rifugiato e, come sai, l'ho eliminato mentre stava per pugnalare la nostra amica Alfonsina e per violentare Masha. Come vedi sono in grado di affrontare qualsiasi delinquente.» Agim si pose una mano sul cuore con rispetto. «Sei una donna incredibile, Yelena.» mormorò, con una nota di ammirazione nella voce «Ora capisco molte cose e sono d'accordo con te. Stavo pensando che Kobaisi mi ha ordinato di non attaccare, ma posso sempre difendermi. Mi hai convinto. Hai ragione e puoi contare su di me nella tua battaglia, anzi penso che dovremmo tornare subito a Valdrusina. I nostri amici potrebbero essere in pericolo!» L'albanese si levò in piedi, aprì un armadietto e si armò a sua volta. In fretta abbandonò la Shtëpi con la sua compagna e rientrarono a Valdrusina. Era necessario proteggere Alfonsina e Masha e concordare con loro una linea di azione. Dopo l'uccisione di Arben Hoxha e Irvin Shehu l'abitazione di Alfonsina era come afflitta da una palpabile atmosfera di tensione che alterava l'animo dei suoi abitanti. Il laboratorio, di solito movimentato dal chiacchiericcio allegro delle sarte e dal ticchettare sommesso delle macchine per cucire, era muto e vuoto. Preoccupata dagli ultimi avvenimenti, e volendo evitare ogni minaccia, Alfonsina aveva concesso a tutte le sue lavoratrici quindici giorni di ferie pagate.
Sergio Bertoni
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