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Autore: Vincenzo Rita
Sangue e ciliegie
Giallo Formazione
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Sangue e ciliegie
Mi ero infilato un paio di jeans, una maglietta e un giacchetto della tuta nero per passare il più possibile inosservato, ero uscito di casa in fretta e furia e avevo inforcato lo scooter. Per precauzione avevo preso anche un coltellino a serramanico dal cassetto del comodino e me l'ero cacciato nella tasca del giacchetto.
Il profilo grigio delle case popolari si stagliava all'orizzonte sullo sfondo del cielo nero. Le giornate si stavano già accorciando di molto.
Ci ero passato davanti tante volte, ma conoscevo poco quella zona; avevo sempre cercato di evitarla, viste le voci che giravano su quel quartiere così degradato. Era famoso come luogo di spaccio e si diceva che la maggior parte dei motorini rubati in città venissero portati lì, smontati e rivenduti pezzo per pezzo.
L'intonaco rovinato in diversi punti come una pelle grigiastra scorticata, lasciava intravedere la carne rosea dei mattoni forati e, in alcuni punti, scopriva addirittura l'ossatura di tondini in ferro zigrinato; completavano il quadro le grate arrugginite alle finestre e la ragnatela di fili volanti che univano le palazzine tutte uguali.
La cosa che mi inquietava di più però erano i garage: gli edifici di sette piani erano delle enormi palafitte rettangolari che poggiavano su pilastri in cemento nudi tra cui si formavano spazi aperti, illuminati di notte solo da poche luci al neon, dove non erano fulminate. Dalla strada non si riusciva a vedere bene all'interno dei garage anche perché erano ribassati rispetto alla carreggiata e, tra la via principale e gli edifici, c'erano almeno una ventina di metri di prato incolto con qualche cespuglio qua e là.
Pilastri esterni del piano garage e muretti erano pieni di graffiti e scarabocchi fatti con le bombolette spray.
Mi addentrai fra le palazzine fatiscenti con lo scooter e mi ritrovai in quella che doveva essere piazza Mazzini. La pavimentazione in cemento era delimitata dai mostri grigi che circondavano l'area. In pratica era una sorta di cortile interno a quel blocco di palazzi. Al centro della piazza una piccola aiuola in cui era conficcato un lampione fioco e mezzo arrugginito; intorno all'aiuola quattro panchine in ferro scrostate, disposte a quadrato e rivolte verso il centro.
Sulle panchine e su sedie di plastica bianche, probabilmente portate lì da casa, sedevano piccoli gruppi di persone, soprattutto anziani, che chiacchieravano godendosi il fresco della sera. Tutto intorno, sparsi nell'area della piazza, i ragazzini gridavano e giocavano fra loro. Uno, poggiato a un pilastro con le braccia conserte intorno alla testa contava strillando e gli altri si misero a correre da tutte le parti alla ricerca di un nascondiglio. Più in là due ragazzine si lanciavano un pallone arancione cantando una filastrocca:
«Mi chiamo Enzo Lorenzo, ‘sciugamano ‘sciuga, luglio, agosto e poi, poi, poi...»
Un bambino dai capelli ricci e biondi che indossava solo un paio di pantaloncini rossi, rideva e correva scalzo, rincorso da altri due piccoli selvaggi.
Lungo il perimetro di quel cortile anomalo e pieno di vita, i garage si trasformavano in portici poco illuminati sotto cui stavano gruppetti di adolescenti.
Non sapevo dove fermarmi finché mi accorsi di un angolo in cui non c'era nessuno e decisi di parcheggiare lì lo scooter, spensi il motore, misi il cavalletto e rimasi seduto sulla sella.
Accesi una sigaretta. Perché mi avevano dato un appuntamento, per un motivo così segreto, in un posto e a un orario tanto affollato?
Nei film, di solito, appuntamenti di questo tipo si svolgono in piena notte tra i container del porto o in vecchi capannoni abbandonati. Io invece mi ritrovavo in una piazza piena di anziani e bambini urlanti alle nove di una sera di fine estate.
Il quadro, familiare e surreale allo stesso tempo, mi tranquillizzava. Vedere tanta gente in una scena di vita quotidiana smorzava la mia inquietudine.
«Psst!» Qualcuno cercava di attirare l'attenzione alle mie spalle e mi voltai di scatto «Giulio!» la voce proveniva da dietro un pilastro. Una persona di cui riuscivo a vedere solo la sagoma se ne stava nella penombra.
«Chi sei?» mi sporsi per vedere meglio.
«Vieni qui!»
Sfilai le chiavi dal quadro e scesi dallo scooter. Un paio di occhi tondi mi fissavano nel buio e una mano ossuta mi faceva cenno di avvicinarmi. Gettai la sigaretta ancora a metà e lo raggiunsi sotto il portico tenendomi comunque a distanza di sicurezza di circa due metri.
Le labbra sottili mi sorridevano sottolineate da un lungo pizzetto appuntito.
«Sapevo che saresti venuto. Sono Valerio.»
Circa venticinque anni, più alto di me di diversi centimetri, i capelli biondi in sottili dread lunghi fino alle spalle.
«Ciao.» Con le mani nelle tasche del giacchetto cercavo di apparire disinvolto, ma in realtà stringevo il coltellino a serramanico, pronto a estrarlo al primo movimento brusco dello spilungone «Che cazzo vuoi?» Dovevo mascherare la paura e apparire sicuro di me.
«Tranquillo Giulio, voglio aiutarti e ho bisogno di te.» Mi mostrava i palmi delle mani facendomi cenno di stare tranquillo.
«Dimmi che cosa vuoi!» Mi sforzai di tenere un tono più calmo, ma fermo.
«So che hai assistito all'incidente di Alberti.» Anche lui mi aveva visto?
«Non è vero, non c'ero. Chi t'ha detto ‘sta cazzata?»
«Conosco Jigen, ero venuto lì a cercarlo per... Per una cosa e ti ho visto mentre ti allontanavi dall'incrocio con il tuo Booster blu.» Porca puttana, mi aveva visto più gente di quanto credessi «È stato Jigen a dirmi che è il tuo.» Indicò lo scooter con un rapido gesto della testa.
«E adesso che vuoi da me? Pensi che l'ho ammazzato io?»
«No, ma mi serve il tuo aiuto.» Mi fissava dritto negli occhi.
«Io non ti conosco, perché dovrei aiutarti? E se invece sei proprio tu l'assassino? Anche tu ti trovavi lì!» Ci mancava solo la zecca, il delinquentello spacciatore delle case popolari che mi invischiava nei suoi traffici, come se non avessi una situazione già abbastanza incasinata.
«Ascoltami Giulio, io non voglio accusarti di nulla. Ti dico solo che ho avuto un problemino con la polizia qualche mese fa e Alberti mi ha fatto schedare. In più quella sera mi hanno visto in molti girare lì in zona. Quindi sono il primo indiziato per questo omicidio.»
«Questo è un tuo problema, io non posso aiutarti. Non ho visto proprio niente!» Mi voltai e andai verso lo scooter.
«Aspetta!»
«Che cazzo vuoi da me? Ti ho già detto che non posso aiutarti.» Salii sul Booster, misi in moto con un colpo di pedale e mi diressi verso la stradina da cui ero arrivato.
Attraversai di nuovo l'agglomerato di palazzine e tornai sulla strada principale. Non ero ancora arrivato alla prima curva quando lo specchietto retrovisore dello scooter rifletté delle luci blu lampeggianti alle mie spalle: due volanti della polizia a sirene spente si infilarono tra i palazzi di piazza Mazzini.

Vincenzo Rita

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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