Oramai tutto era finito, tutto compiuto, niente più avrebbe potuto cambiare le cose. Ma si andava avanti, anche se la vecchia comunione familiare pian piano si andava sgretolando; spesso la domenica i pranzi erano silenziosi, ognuno cercava di non parlare dei propri problemi, se li teneva per sé, per non angustiare e preoccupare gli altri. Continuavano tutti a cucire, nonostante i nuovi lavori, le nuove incombenze. Compresi che cucire per loro significava famiglia, condivisione; l'ago scorreva veloce sulla stoffa, il suo percorso imitava il percorso della vita, l'andare avanti con sicurezza, talvolta occorreva una piccola spinta sull'ago, ma in ogni caso la cucitura andava avanti. Fa niente se a volte si dimenticavano di mettere il ditale, l'ago pungeva il dito ma il lavoro non si fermava mai, proseguiva incessantemente come la vita.
***** La brutta notizia arrivò alla fine di settembre, quando a Montealto le strade cominciavano ad inondarsi del fumo dei calderoni in cui, fuori dalle case, nei terrazzi, nelle piazzole, nei cortili, si bollivano le bottiglie di salsa di pomodoro per l'inverno. Le donne iniziavano al mattino presto e finivano al tramonto, per due o tre giorni non si fermavano mai, interrompevano le ordinarie azioni quotidiane per dedicarsi alla fattura della salsa; le strade sembravano imbrattate di sangue, se non fosse stato per l'allegria e il vocio delle donne che rassicuravano gli animi. La brezza saliva dal mare e raggiungeva la cima della montagna, spazzando via la nuvolaglia che nel pomeriggio giungeva dal bosco e incappucciava il monte. Alla fine di tutto, dopo aver spento i fuochi e riposti i calderoni, le donne si sedevano stanche a chiacchierare davanti agli usci di casa, mentre gli uomini riempivano casse di legno con le bottiglie di salsa e le sistemavano nelle cantine o nei solai, dove avrebbero dormicchiato per tutto l'anno nell'attesa di essere consumate.
***** Avevamo condiviso, d'estate, tante avventure, e non vedevamo l'ora di rivederci per raccontare, per ascoltare, per trovare nei nostri occhi quello che ci accomunava, ci faceva sentire parte di una famiglia, la nostra, unica e speciale. Ciascuno di noi seguiva la propria vita, il proprio percorso, molto spesso differente, ma restavamo uniti da quel filo che per tutto il tempo i genitori e gli zii avevano tessuto pian piano, come una piccola ragnatela. Zia Anna e zia Nina furono colpite dallo stesso triste destino, ma non si consolarono mai a vicenda, non si fecero forza tra loro, quasi si evitavano per non vedere il proprio dolore riflesso nello sguardo dell'altra. Quando la zia Anna, d'estate, tornava a Montealto, incontrava talvolta la cognata al cimitero; si salutavano, si baciavano, si stringevano forte le mani e poi si incamminavano curve per la propria strada, in silenzio, perché il dolore resta dentro e rende il cuore pietra.
*****
La casa di Montealto, d'estate, ancora viveva qualche timida allegria. Ciascuno trascorreva le ferie nella propria abitazione, ma quando arrivavano la zia Michela, la zia Maria e la zia Luisa, e le porte del balcone e delle finestre venivano aperte per dare finalmente spazio alla luce e al sole estivo, noi, i cugini rimasti correvamo tutti a pranzare da loro, a rivivere per qualche ora la calda atmosfera familiare che ci accoglieva sempre come in un abbraccio. Giravamo per le stanze, salivamo su nel solaio e nel terrazzo per verificare che tutto fosse rimasto com'era, che quegli oggetti noti e cari fossero sempre al loro posto, come se d'inverno, in quelle lunghe e ventose giornate solitarie di montagna, qualcuno potesse avergli cambiato di posto.
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Erano serate che a noi bambini sembravano magiche, potevamo rimanere fuori fino a tardi, nella brezza serale che toglieva quel velo d'afa che aveva coperto il paese per tutto il giorno rivelando all'improvviso un cielo scuro impreziosito da mille puntini luminosi. Zia Concetta sul terrazzo con l'indice puntato ci indicava le varie costellazioni, le stelle più luminose, e poi ci raccontava storie fantastiche, storie di corpi celesti che prendevano le sembianze di animali e di fate. La notte sognavamo quei folletti luminosi e, al mattino, eravamo convinti che quelle schegge di sole turbinanti di polvere dorata che illuminavano il letto fossero le fatine della notte che venivano a svegliarci e darci il buongiorno.
*****
La casa di zio Leonardo non era più la stessa da quando era arrivata la zia Anna. Tutto era estremamente ordinato, pulito e organizzato. Lei era l'unica a non cucire, si dedicava solo alla casa e a ricevere i clienti. Al mattino presto lucidava gli specchi della sala prove, aggiungeva nella cassettina gli spilli, gli aghi, i fili, si assicurava che ci fosse sempre il metro a disposizione. Usciva presto per comperare vari quotidiani che poi sapientemente sistemava sui tavolini della sala d'attesa. Poi, una volta indossato il camice e fatti accomodare i clienti, usciva di nuovo per la spesa che doveva essere fatta tutti i giorni; solo carne fresca, pesce di prima qualità, pane croccante appena sfornato. Quella lettera l'aveva nascosta sotto gli asciugamani in fondo all'armadio, non riusciva a gettarla via, rimaneva pur sempre la prova tangibile della sua disgrazia. Solo quando leggeva le lettere accorate della nonna il rancore la abbandonava, l'unica persona al mondo che aspettava il suo ritorno a Montealto era la nonna, affacciata al balconcino con quel suo abito estivo perennemente nero e la crocchia di capelli candidi fissata dal fermaglio di madreperla che metteva solo d'estate quando i suoi figli tornavano a casa. Elsa però iniziava a rendersi conto della reale situazione. Dopo i primi anni di euforia, seppure felice di stare a Roma e di abitare in quella bella casa, cominciò ad avvertire un malessere, una consapevolezza amara ed assillante. Perché non aveva una casa sua? Perché si vergognava di dire alle amiche che abitava da suo zio? Non poteva certo dire che la madre faceva la serva tutto il giorno in cambio di vitto e alloggio. E poi la storia di suo padre, di suo fratello... Non ne parlava mai con nessuno, del resto cosa poteva dire, che il padre era sparito in America e viveva con un'altra donna e che il fratello era stato fagocitato, inghiottito da quella terra? Ci pensava spesso a Mauro, ma scacciava subito i ricordi come si scaccia infastiditi una mosca con la mano. Basta, basta lacrime, basta ricordi, non voleva essere considerata sempre una reietta, aspettava il riscatto, sarebbe arrivato, se lo sentiva. E non ne poteva più di tutte le zie e gli zii che la domenica la colmavano di attenzioni, di regali. Mia madre ogni settimana le faceva trovare una sorpresa, una gonnellina nuova, una camicetta ricamata da lei, una borsetta alla moda. Certo, tutti le regalavano qualcosa, come per sottolineare che lei non aveva nulla, neanche una casa sua dove mettere quei regali che non riuscivano a colmare la solitudine e l'inadeguatezza con cui affrontava le giornate. Talvolta provava odio per Mauro, perché lui se n'era andato, anche lui le aveva lasciate, aveva preferito restare laggiù con il padre, libero di fare ciò che voleva della sua vita, mentre lei restava ingabbiata in quella situazione. Le mancava la nonna, le mancavano i suoi occhi stanchi, i suoi deboli ma forti abbracci, le sue mani rugose e ruvide profumate di bucato che al mattino la svegliavano accarezzandole i capelli. Dopo il diploma magistrale, cominciò a lavorare nella scuola elementare, ha fatto sempre quello, per più di quarant'anni, come la zia Concetta e la zia Luisa. Prese la specializzazione come insegnante di sostegno e si iscrisse alla Facoltà di Pedagogia. Aveva mille impegni, usciva al mattino e rientrava alla sera, quando lo zio Leonardo si accingeva a spegnere le luci al neon del laboratorio e a uscire dopo una frugale cena. Zia Anna la aspettava, quando sentiva l'ascensore fermarsi al piano, accendeva il fornello per scaldare la cena e poi metteva tutto in tavola. Elsa lavorava anche d'estate, quando le scuole erano chiuse, faceva l'assistente dei bambini nelle colonie marine, per mettere i soldi da parte. Le sue colleghe maestre erano diverse da lei, parlavano di vacanze, di cinema, di fidanzati. Solo per quanto riguardava il suo abbigliamento si sentiva vincente; sfoggiava sempre degli abiti di buona stoffa e fattura, sempre alla moda, grazie agli zii, e soprattutto alle zie. Anche zia Maria non perdeva mai occasione di cucirle una nuova gonna o uno chemisier, e lo zio Leonardo le aveva addirittura cucito un cappotto di cammello che le stava alla perfezione. “Mamma, dobbiamo andare via da questa casa. Voglio una casa mia, anzi nostra. A zio Leonardo voglio bene, ma non abbiamo mai avuto un posto tutto nostro...una casa...” “Ma Elsa, dove andiamo? Con quali soldi? E poi, zio Leonardo come farà senza di noi...senza di me, no non possiamo, questa è la nostra casa”, rispondeva zia Anna abbassando gli occhi. “Zio Leonardo dovrà pur sposarsi, dobbiamo avere un posto solo per noi due, sono stanca di dire alle mie amiche che abitiamo da mio zio, va bene, non avrò un padre, ma ho una madre, noi due staremo bene da sole, ti prego, promettimelo mamma! Ho dei soldi da parte, non spendo nulla per me”. Zia Anna taceva, il suo silenzio era più eloquente di mille parole. Ma tutte le mattine, dopo la notte insonne, si alzava all'alba per provvedere a tutto e la giornata filava come un treno, non aveva tempo per pensare. Una sera zio Leonardo rientrò prima del solito e sentì Elsa nella sua cameretta lamentarsi con la madre, ascoltò in silenzio tutti quei discorsi dietro la porta chiusa. Poi lentamente si mise il pigiama, andò a letto, spense la luce e dopo tanti anni che non lo faceva, pianse.il
Antonella Carusotto
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