All'età di 13 anni Michele Anselmo sedeva al tavolo della cucina in un mattino d'inverno e si era improvvisamente accorto che la famiglia è il luogo in cui si infliggono all'individuo le maggiori sofferenze. A dire il vero, l'intuizione non era stata repentina; la si sarebbe potuta definire piuttosto l'esito di un processo, come quando dalla soluzione una sostanza solida precipita e si cristallizza. Avviene lo stesso quando finisce l'amore senza che se ne arrivi a conoscere il motivo: uno pattina d'inverno sopra un lago ghiacciato ed è convinto che l'acqua congelata sia ben spessa, tanto solida da reggere il peso; e invece nel tempo quella superficie ha accumulato minuscole ma quotidiane scalfiture sotto i colpi dei pattini. Piccoli graffi apparentemente senza rilievo né incidenza; e in effetti considerati singolarmente lo sono, finché non arriva una crepa, né più né meno importante di altre, che divarica due lembi in modo così netto e profondo da produrre una voragine. E tu stai passando sopra il ghiaccio e ti accorgi d'un tratto che, invece di tenerti, cede. Era domenica. Michele stava facendo colazione: sua madre, mentre spalmava della marmellata di arance su una fetta biscottata imburrata, gli disse freddamente: — Domani vado a iscriverti a quella scuola superiore agraria con il convitto, che sta fuori Torino. — Perché? — Ne abbiamo già parlato. — Ma io non voglio andarci. Non voglio fare il contadino. — Invece ci vai, è d'accordo pure tuo padre. — Non è mio padre, quello. Manco vive con noi... — Ci vai e basta. Domani ti iscrivo. L'hanno pure scritto nel consiglio orientativo: percorsi professionalizzanti. Non fare storie. È per il tuo bene, lo sai. E poi tanto ci andrai dal prossimo anno scolastico. Per quel giorno non parlarono più. Non sopportava di sentirsi ripetere dagli adulti: «È per il tuo bene». Quando a scuola gli ficcavano una nota sul registro o lo sospendevano dalle lezioni, il preside e gli insegnanti gli spiegavano che in realtà era per il suo bene; e quando il padre di Samir, il suo compagno di classe egiziano, si slegava la cintura dei pantaloni per suonargliele di santa ragione, gli ripeteva che era per il suo bene. Così gli aveva raccontato Samir. Cominciava a dubitare che questo bene di cui parlavano i grandi esistesse veramente. Quindi rimase in silenzio anche quella volta. A scuola in effetti Michele non riusciva granché; dopo essere riuscito ad arrivare in terza media con parecchie difficoltà e non senza rischiare, negli anni scolastici precedenti, di essere respinto, con il nuovo anno scolastico la situazione era precipitata: i brutti voti avevano iniziato a piovere e anche sul piano comportamentale si erano registrati peggioramenti. Un giorno, durante l'intervallo mensa, Michele aveva quasi accoltellato un compagno puntandogli la lama sul collo; ma nessuno dei due aveva voluto commentare l'episodio. Michele era stato sospeso per tre giorni: glielo aveva comunicato il dirigente scolastico in persona, mentre firmava un faldone pieno di circolari conversando nel contempo al telefono con un impiegato dell'Ufficio Scolastico Regionale. A dire il vero, Michele non aveva compreso molto di quella ramanzina; spesso, anzi, quando gli adulti parlavano lui pensava a tutt'altro. Non li ascoltava nemmeno. Come regola di base, in quella scuola dopo il termine della sospensione si procedeva a un ulteriore colloquio con i genitori. Al confronto con l'insegnante di italiano, tre giorni dopo, sua madre era arrivata un po' in ritardo e affannata. Aveva casini con il nuovo compagno, come era solita dire. Lo aveva scritto pure sul suo profilo Facebook: in una relazione complicata con Kevin Lomanto. Nella fattispecie, Kevin si comportava con lei come se abitasse in un albergo. Andava da loro ogni tanto per la cena o per portare un bottone da ricucire, ma non voleva saperne di metter su una parvenza di famiglia: continuava a vivere per conto suo, a fare il proprio comodo. Glielo aveva detto: avevano litigato pochi minuti prima, al telefono. La docente le parve, invece, molto tranquilla e parecchio curata: fin troppo. Avvertì quasi immediatamente un profondo disagio constatando la loro diversità; quella donna con le unghie smaltate e perfette, i capelli curati e ben ordinati raccolti in uno chignon quasi da diva degli anni '50, il tailleur grigio chiaro appena sopra il ginocchio, le scarpe con il tacco perfettamente intonato a tutto il resto, alto ma non troppo: tutto le parve esagerato rispetto al contesto, tutto le ricordava che esistevano donne per le quali il lavoro era un di più, un passatempo per non annoiarsi. A lei andava diversamente: il lavoro rappresentava fatica e la sua vita era di servizio. La donna che aveva di fronte era bella, disponeva sicuramente di tempo libero, di denaro e di affetti appaganti. E se per caso avesse avuto, oltre al marito, anche un amante, era il tipo di donna che avrebbe avuto intorno un milieu in grado di non biasimarla, anzi. Gli altri non erano mai stati così comprensivi con lei. Aveva pagato tutto. Uno Tra le dimostrazioni d'amore che una donna può dare a un uomo si deve certamente annoverare la disponibilità o meglio una certa buona volontà erotica, che duri nel tempo. L'uomo in realtà è incapace di amare e scambia l'amore con la gratitudine per il piacere ottenuto; se alcune donne possono vivere una vita sentimentale quasi priva di sessualità, all'uomo ciò risulta doloroso, incomprensibile. Un maschio si sente amato se la sua donna è disponibile; e più lei lo è senza condizioni, più lo lega a sé. Se la donna lo realizzasse, non esisterebbero crisi, non esisterebbero separazioni. L'uomo si annoia del bisogno di dolcezza femminile; la donna non comprende la necessità maschile del possesso. Su questa divergenza si gioca l'infelicità e l'insuccesso della maggior parte delle storie, almeno finché si è giovani e in cerca degli special one. Dopo si ripiega sulla tenerezza esclusiva, sull'affettività senile, le cose si appianano, le rinunce di entrambi cicatrizzano. La sessualità, del resto, è soprattutto attaccamento alla vita e la madre di Michele questo attaccamento non lo aveva; non era questione di misticismo o di tendenza spirituale, quanto piuttosto di calo della libido correlato a una forma di depressione, di cui non era nemmeno consapevole. Eppure, sia lei che suo marito avrebbero dovuto essere nel fiore degli anni, nell'apice della vitalità. Da tempo era impiegata come commessa in un negozio di cosmetici all'interno di un centro commerciale, ma quattro anni prima aveva preso il diploma di maturità linguistica alle scuole serali e sperava ancora di lavorare come interprete oppure nel turismo, in futuro. Intorno a lei le commesse ringiovanivano o forse era lei a invecchiare. Si ricordava di come era stata assunta. Antonella Pezzotta aveva notato l'annuncio di ricerca personale sulla vetrina del negozio di cosmetici mentre faceva la spesa un venerdì pomeriggio. CERCASI COMMESSA MAX 25enne BELLA PRESENZA ANCHE POCA ESPERIENZA CURRICULUM IN NEGOZIO Tornata a casa aveva compilato il curriculum e lo aveva sporto alla responsabile dell'esercizio commerciale: dieci giorni dopo era assunta, anzi associata in partecipazione. Ricordava ancora la data sulla firma del contratto: 18 settembre 2000. La titolare del negozio era stata chiara: troppe tasse in Italia, non possiamo permetterci forme di contratto diverse da questa. Nell'ordinamento italiano l'associazione in partecipazione, prevista nel Codice Civile, era nata per consentire a un imprenditore di associare qualcuno alla propria impresa e ai relativi utili, dietro il corrispettivo di un apporto anche lavorativo. Storicamente però questo istituto era stato sempre più impiegato, in particolare nel commercio, per eludere le forme di lavoro subordinato. Volevi lavorare? Facevi il commesso, ufficialmente ti spacciavano per socio. La Cgil protestava e lanciava campagne come la "Dissòciati!". Antonella però era contenta ugualmente. Non le interessavano le questioni sindacali, come le definiva suo marito. Lei quella data la festeggiava ogni anno, tra sé e sé, perché in fondo era grazie a quei soldi se non dipendeva completamente da Giorgio e poteva illudersi di suscitare in lui un po' di spirito di collaborazione, anche se sapeva che in realtà avrebbe finito per fronteggiare sempre tutto da sola. Una laurea in lingue l'avrebbe aiutata a realizzare la sua giovanile speranza. Era il luglio del 2001 quando, dopo cena, provò ad affrontare l'argomento con Giorgio. Siccome era lunedì, il ristorante era chiuso. — Pensavo che potrei iscrivermi all'Università per il prossimo anno accademico. Giorgio sollevò lo sguardo dall'articolo sulla "Gazzetta". L'allenatore del Milan, Terim, prometteva lo scudetto. Sarebbe stato esonerato a novembre. Senza grande convinzione, distrattamente, chiese: «Per fare cosa? Pensavo fossi contenta in negozio». — Beh, ho la maturità linguistica... potrei iscrivermi a lingue. Quando mi sono iscritta al liceo sognavo di fare l'interprete, ma con una laurea di questo tipo avrei molte possibilità. Editoria. Turismo. Cooperazione internazionale. Insomma... ben oltre le classiche mansioni di traduzione o interpretariato. — Non mi pare una grande idea. Come paghiamo le tasse universitarie? Abbiamo le rate del mutuo da finire. E poi troveresti il tempo di studiare? Hai il lavoro, hai la casa da gestire... e per laurearti in lingue dovresti quanto meno trascorrere dei periodi di perfezionamento all'estero. — Però forse mi farebbe stare meglio, come dire, mi darebbe una prospettiva di cambiamento rispetto a KIKO, non credi? Ci sto bene là, ma posso fare di più nella vita, no? Giorgio si alzò e le si avvicinò minaccioso. Adesso alzava la voce, come era solito fare con tutti quando veniva contraddetto. — Un capriccio e basta! Vuoi solo farmi venire i sensi di colpa! Io sono sempre al ristorante, non ti posso aiutare, sai? Se credi di voler fare questo salto nel vuoto, fa' come vuoi. Intendeva l'esatto opposto, fai come voglio io. Antonella era scoppiata in lacrime e Giorgio si era messo a fumare sul balcone, dal nervoso. Non capiva perché lo sfidasse continuamente. Lui dopo la licenza media si era iscritto a un corso di formazione professionale regionale, a partire dai 17 anni aveva lavorato come apprendista cuoco nel ristorante di suo zio e appena gli era stato possibile si era messo in proprio. Ora, dieci anni dopo, aveva un locale tutto suo e tre dipendenti. Associati in partecipazione. Era importante rendersi indipendenti subito, non prendere ordini da nessuno, non stare sui libri per cose che alla fine non ti davano niente in mano. Più tardi aveva provato ad avvicinarsi a lei per fare l'amore, ma Anto si era irrigidita, si era ritirata. Non aveva insistito, però si era sentito incompreso per la seconda volta in poche ore. Ci dormì sopra. Ogni tanto succedeva. Due anni dopo era nato Michele e a quel punto nella mente di Antonella, come una soluzione, tutto era precipitato. A Giorgio, il padre di Michele, gli affari non andavano più benissimo. Hai voglia a dire devi essere originale nella strutturazione del menu, nella particolarità degli arredi. Quando arriva una crisi economica, la gente cerca il risparmio e va al cinese; il suo ristorante non era proprio tra quelli di fascia bassa. Come prima strategia aveva limitato le aperture alla sera durante la settimana; poi aveva lasciato a casa una cameriera. Nonostante ciò, il margine di guadagno si riduceva sempre più. Non era tranquillo. Forse non era più il momento della ristorazione di qualità, i tempi erano propizi allo street food o, comunque, a esercizi più economici per la clientela. Poi c'era il figlio, Michele. Pensava spesso che rappresentasse un intralcio: lui arrivava a casa sempre tardi, col locale che prima delle due non lo lasciava libero, e al mattino avrebbe voluto dormire fino a tardi, riposare. Invece Michele era un bambino irrequieto e di notte si chiudeva occhio solo a singhiozzo, nonostante ormai non fosse più un neonato. Chiamava in continuazione.
Giampaolo Squarcina
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