Roma, 12 aprile 2023 C'è chi non ama festeggiare i compleanni, perché sono il tributo agli anni che passano. Io non ho mai pensato a tutto ciò e soffio sulle mie cinquantacinque candeline, proprio come allora, quando ne avevo ventisei. Questo è il compleanno perfetto dal momento che ho terminato questo libro; ho chiuso un cerchio, sono in pace con me stessa, con il mondo. Ripercorrere la nostra storia non è stata cosa semplice, ma mi ha permesso di rivivere anche quei momenti che erano stati messi in un cassetto da tempo e troppo lontani dall'ultimo periodo. Non tutte le persone importanti che hanno fatto parte della mia vita sono state citate, questo per mantenere il loro ricordo volutamente solo per me. Roma, 12 aprile 1994 Ventisei candeline, disposte in circolo su una cheesecake al cioccolato al sapore di menta, tipo After Eight, il mio preferito. Le candeline erano state spente, la torta era finita, la festa passata e mi rimaneva la consapevolezza di aver sbagliato ancora. Ero single, avevo rotto con il mio fidanzato siciliano dopo una relazione a distanza durata troppo, sei lunghi anni. Trasferirmi a Roma per avvicinarmi a lui non era servito a molto, eravamo già alla frutta. Quello che per anni avevo considerato l'uomo della mia vita si era rivelato un narcisista incredibile e io la sua vittima. La mia ventiseiesima candelina avrebbe dovuto regalarmi una maggiore consapevolezza, ricordarmi che i film con la stessa trama hanno per lo più lo stesso finale. A me, però, i cortometraggi non sono mai piaciuti, tanto meno i film da Oscar. Ho sempre preferito gli spettacoli con un pubblico contato, dove le sedie vengono aggiunte al momento, tra lo stupore degli addetti ai lavori che non prevedono una certa affluenza. Ecco, io ho sempre adorato quel tipo di persone. Non per forza emarginati sociali, si intende, ma individui che sanno colpirmi per ciò che di contraddittorio e di fragile sanno dare a me e a nessun altro. Fino ad allora la mia vita era stata caratterizzata da continue sorprese e scoperte, quasi sempre piacevoli; vivevo proiettata nel futuro. La mia visione estremamente positiva era dovuta sia alla giovane età, sia al carattere ottimista. Il trasferimento in una nuova città era stato un salto nel buio che si ripeteva ciclicamente, ma non mi aveva spaventata, tutt'altro. Da lì a qualche mese avrei lasciato Roma, ma non mi facevo ingannare: la vita mi aveva insegnato che più si cresce, più il tempo vola. Sapevo che in un battito di ciglia mi sarei ritrovata a scrivere il tradizionale addio alla città che mi aveva accolta negli ultimi anni e a farmi la foto di rito davanti a una porta che difficilmente avrei varcato ancora in futuro, quella del mio delizioso appartamento a Trastevere, un quartiere che racchiude in sé tutta la magia di Roma. Terminato il corso di specializzazione di grafica, ero alla ricerca di un lavoro che mi permettesse di continuare a pagare un affitto e mantenermi. Nei mesi precedenti avevo collaborato part-time con una piccola agenzia pubblicitaria, una realtà giovane, che mi aveva consentito di apprendere i trucchi del mestiere, di “rubare con gli occhi”, come si suol dire e di fare molta pratica, ma non di guadagnare abbastanza. Avevo bisogno di denaro. Terminato lo stage, avevo fatto un colloquio presso la redazione del quotidiano “Il Tempo”; cercavano grafici per una campagna promozionale, ovviamente esperti. Non fui presa, ma non ci rimasi male, ero consapevole di avere poca esperienza. Riuscivo a guadagnare qualcosa realizzando loghi e brochure per alcuni clienti dell'agenzia con i quali ero rimasta in contatto. Vivevo alla giornata non mi preoccupavo del domani. La vita, in qualsiasi luogo del mondo, è scandita da abitudini, riti, eventi. A volte ci vuole tempo per consolidarne alcuni che poi si rivelano molto importanti e diventano parte della nostra routine. Le mie passeggiate per la città, le amate librerie, i supplì caldi da portare a casa per cena, le serate seduta sugli scalini di piazza Sonnino ad ascoltare l'artista di strada bevendo birra... Avevo imparato a gestire situazioni perfettamente normali in contesti spesso surreali. “Oddio, che incubo! Cosa farei se dovessi tornare a casa dai miei?” Mi ero ritrovata spesso in situazioni d'emergenza ed ero abituata a non sottovalutare l'utilità di piani alternativi. Le mie amiche sottolineavano spesso la mia autosufficienza. «Sempre con il piano B nella manica», dicevano. Acquistavo “Porta Portese”, un mensile di pubblicazione di piccoli annunci economici su Roma, ma di agenzie di grafica pubblicitaria che proponessero un lavoro non ne trovavo. Roma era incantevole, mi aveva conquistata; camminare a piedi per le viuzze di Trastevere era sufficiente per spingermi a tenere duro e a darmi da fare. Era arrivata la primavera, la stagione del mio cuore, quella in cui è lecito sfoggiare i colori più allegri e lasciare i capelli umidi dopo averli lavati, io che neanche a gennaio li asciugavo. Proiettata in avanti anche se il futuro era incerto, mi chiedevo cosa avrei fatto il giorno dopo, dove sarei andata, chi avrei incontrato. Bisogna sempre parlare bene al proprio cervello, ricordandoci che non conosce l'ironia; non potevo giocare con lui. Mi ascoltava! Una mattina − ci stavamo preparando per portarlo in ospedale per un controllo − mentre tutti eravamo indaffarati, ognuno con il proprio compito, ci trovammo soli, io e lui, nella sua stanza. Lo stavo aiutando a vestirsi quando, improvvisamente, tutte le emozioni vennero a galla e lo investirono come una marea. Si voltò verso di me, con gli occhi pieni di lacrime, mi abbracciò disperato e singhiozzò un paio di volte. Mentre lo tenevo stretto, sussurrò: «Amore mio, ho tanta paura.» Io stavo lì, in piedi, lo sorreggevo con tutta la mia forza, mentre dentro cadevo a pezzi. Lo rassicurai che tutto sarebbe andato bene, che avremmo visto la fine di tutto quello insieme e che, se avessi pensato che la situazione fosse stata tragica, glielo avrei detto. Gli dissi di farsi coraggio, perché non eravamo ancora a quel punto. Quella fu l'unica volta che mi mostrò quanto fosse spaventato. Entrambi sapevamo che il futuro non sarebbe certo stato splendente. Un lungo viaggio in auto con la mia famiglia mi riportò infine a casa, a Roma. Percorremmo a ritroso la strada fatta insieme alcuni mesi prima, mentre le lacrime mi rigavano il volto. I paesaggi che avevo visto abbracciata ad Alfonso, ora sembravano diversi, tristi. Molte emozioni si erano mosse e ancora spingevano per uscire. L'abbraccio dei suoi genitori alla mia partenza mi era penetrato fino alle ossa. Un dolore indefinibile e sordo, portato con dignità e con la semplicità che li contraddistingue. Il dolore trasforma. Riguardo le foto scattate i primi mesi che stavamo insieme: quanto sono cambiata! Dov'è finita la spensieratezza che mi apparteneva? Dov'è finita la leggerezza? Mi guardo: sono invecchiata all'improvviso. Nonostante il sorriso e lo slancio verso la vita che mai mi hanno abbandonato. È difficile spiegare quale tornado mi abbia travolto, quali emozioni devastanti abbiano posseduto la mia mente, ma il corpo ne conserva memoria. La mia seconda vita è iniziata con tante difficoltà, tante lacrime, tante notti insonni, ma durante le quali mi sono ritrovata e scoperta; ho scoperto in me una forza che non pensavo di avere. Scrivere questo libro mi ha aiutata a tenere in vita la sua memoria, a renderlo sempre presente. Non lo feci allora perché non mi sentivo in grado di affrontare ricordi dolorosi, ma tenevo un diario, dove annotavo tutto, una sorta di brogliaccio, di appunti di viaggio, il più duro della mia vita. Sono grata di essere stata sempre presente a me stessa e di essere riuscita a comunicare a tante persone che la vita, nonostante i pugni che si ricevono, va affrontata con il sorriso. Sono grata di non aver mollato mai. Asciugati le lacrime, non voglio vederti triste. Voglio vedere il sorriso che ho sempre amato. Sono ancora con te, e lo sarò sempre.”
Michaela Ramacciotti
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