Uno sguardo delicato sul mondo
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Come si scrive il rumore del mare? Squish? Sprush? Mi sono reso conto, in questi giorni, che ogni onda che sbatte contro la nostra imbarcazione ha un rumore diverso. Abbiamo imparato ad avere paura del mare in tempesta e abbiamo appreso la serenità che ci dona il mare calmo, quello che ci permette di avanzare un po' di più. Ho appena aperto gli occhi e la prima cosa che faccio, come ogni giorno, è guardare la mia maglietta. Quando sono partito dal mio paese mi andava aderente, adesso, mi va due taglie più grande. Mangiamo poco: riso, pane, acqua in bottigliette che ci viene fornita quotidianamente. Dormiamo stipati sul ponte su giacigli di fortuna, coprendoci con gli abiti che ci siamo portati da casa. Coprono dal freddo notturno, ma dalla pioggia no, per questo speriamo che a una tempesta segua sempre il sole, per poterci asciugare. Ci laviamo poco, alla meglio, con l'acqua del mare, e si sente nell'odore che c'è nell'aria. Intorno non è che vada meglio, per questo non ho più l'abitudine di lamentarmi. Ho perso il conto del tempo. Forse siamo in mare da cinque o da otto giorni. Siamo partiti in ottantadue. Siamo rimasti in cinquantasei. Gli altri, quelli morti, li abbiamo lanciati in mare. Si sono creati più spazi fisici, a discapito del dolore che abbiamo di volta in volta accumulato nel cuore. «Va così, figliolo» disse uno dei più anziani su quell'imbarcazione. «Meglio a loro che a noi, no?» Morì due giorni dopo quel discorso. In questo non spazio sono riuscito anche a creare dei legami di amicizia. Siamo disgraziati, tutti, che ci siamo uniti in condizioni di disperazione. Si è azzerata la rabbia sociale. Ci sentiamo tutti uguali quassù. Tutti con la stessa speranza di un futuro migliore. La persona con la quale ho legato di più in questo spazio angusto è un ragazzo, Deki. Non sa di preciso quanti anni ha, forse ventuno, forse ventiquattro. Si sono persi i documenti di nascita. Pazienza, mi ha detto la prima volta che abbiamo parlato, scrollando le spalle. Io di anni ne ho diciannove. Se non so con certezza la sua età, so per certo che anche lui viene dalla Nigeria, come me. Un paese distante qualche chilometro dal mio. Io di Oshogbo, lui di Ibadan. Chissà cosa resta delle nostre case, adesso. È lui che mi desta in questo momento. «Come va, Farouq, oggi?» Ha sempre un velo di tristezza negli occhi. Indossa una maglia di una squadra di calcio, il Barçelona, come la squadra del suo idolo, Lionel Messi. I pantaloni sono pieni di buchi, anche sui punti dove erano stati rattoppati. Ai piedi indossa delle scarpe bianche segnate dai graffi e con le suole diventate oramai lisce. Nonostante il suo aspetto lo invidio, perché almeno lui ha delle scarpe chiuse. Io ho perso le mie durante una delle traversate nel deserto, e da allora cammino con ciabatte di gomma blu. Sotto i piedi ho vesciche grandi quanto le dita della mia mano. «Oggi? Riesci davvero a contare il passare dei giorni?» «Ci provo. Siamo in mare da dodici giorni. Faccio il conto guardando il sole. Anche se mi sa che a breve non lo vedremo» e mi indica l'orizzonte. Vedo quelle nuvole. Stiamo andando incontro all'ennesima tempesta. Sarà la quarta. Queste sì, le ho contate. «Speriamo che sia meno traumatica dell'ultima» dice Deki. «Magari. Quanti giorni di navigazione mancano?» «Se tutto va bene e se Kofi ha ragione» e alza la mano, per salutarlo dall'altro lato del barcone «tra quattro giorni saremo sulle coste italiane, in Sicilia. Lampidusa, o Lampodusa, non ricordo bene il nome del posto». «Bene. Svegliami quando siamo arrivati allora. Faccio una piccola dormita» gli dico sorridendo, e gli batto una mano sulla spalla. «Vuoi davvero dormire per tutto questo tempo, senza neanche mangiare e bere?» Leggo nei suoi occhi la preoccupazione. In questi viaggi della speranza è come se lo stare svegli assieme, il riempire le giornate parlando di quello che faremo una volta arrivati sulla terra ferma, rendesse tutto il più sopportabile. «Lo sai che non riuscirei mai a dormire. Solo quindici minuti, tanto con quella cosa» gli dico indicando le nuvole «sarà impossibile dormire di più». Avevo sbagliato i conti, come al solito. Non sono certo di aver dormito quindici minuti, ma neanche cinque forse. Quando ci si trova nel mezzo delle tempeste in mare tutto attorno a te si desta e perdi punti di riferimento. «Farouq, Farouq!» «Deki. Come ti senti?» Mi guardo attorno e vedo tutti stretti alle loro sistemazioni di fortuna. «Con lo stesso stato d'animo che ho durante le tempeste. Hai paura tu?» «Non più del solito». Mento. A me stesso in primis, poi a lui. Leggo nei suoi occhi la preoccupazione. In questi viaggi della speranza è come se lo stare svegli assieme, il riempire le giornate parlando di quello che faremo una volta arrivati sulla terra ferma, rendesse tutto il più sopportabile. «Lo sai che non riuscirei mai a dormire. Solo quindici minuti, tanto con quella cosa» gli dico indicando le nuvole «sarà impossibile dormire di più». Avevo sbagliato i conti, come al solito. Non sono certo di aver dormito quindici minuti, ma neanche cinque forse. Quando ci si trova nel mezzo delle tempeste in mare tutto attorno a te si desta e perdi punti di riferimento. «Farouq, Farouq!» «Deki. Come ti senti?» Mi guardo attorno e vedo tutti stretti alle loro sistemazioni di fortuna. «Con lo stesso stato d'animo che ho durante le tempeste. Hai paura tu?» «Non più del solito». Mento. A me stesso in primis, poi a lui. La quarta tempesta. Ho visto le altre tre tempeste e ho sperimentato la paura. Lo stare in un mare agitato è una cosa tremenda. Più delle bombe, più delle guerre, più dei giorni nel deserto, più del vedere sulla porta di casa gli uomini armati pronti a spararti. Nel mare non hai modo di nasconderti, non hai modo di trovare un appiglio. Solo acqua e paura. Lacrime, saliva, disperazione. Nessuna via di fuga in questo azzurro. A quello che si vive in mare non ci si abitua mai. È una sensazione comune, che vedo anche sul volto degli altri. Siamo tutti vicini, cercando di creare una sorta di catena umana, sperando che quello che abbiamo con noi, i nostri bagagli, l'acqua che ci danno ogni giorno, possa fare da peso e frenarci. Anche questo rumore del mare è di volta in volta diverso, ogni volta che colpisce lo scafo. Se di solito mi fa sentire sereno, questa volta mi fa paura. Abbiamo tutti paura. Io mi aggrappo non solo a chi ho accanto, ma anche alla speranza di un futuro diverso una volta arrivato in Sicilia. Mi serve più dell'aria in questo momento. Vorrei che fossimo pervasi dall'aria della speranza, e non dall'acqua che ci ha presi tutti. «Deki!» Smetto di estraniarmi e torno alla realtà. «Teniamoci per mano!» Provo a prendere la sua, ma un'onda mi sommerge. Non ho più attorno a me le mie cose, la mia coperta, la mia bottiglia d'acqua, tutto si allontana da me. Scivolo, con le gambe in avanti e le braccia che cercano un appiglio. Essendo meno di quanti siamo partiti c'è molto più spazio, per questo il mio corpo continua a scivolare. La seconda onda mi fa entrare così tanta acqua nel naso e nella bocca che per poco non penso di morire in quel momento stesso, affogato. «Farouq!» «Deki, aiutami!» Piombo in acqua. Il freddo mi mozza il respiro e gli occhi mi bruciano per il sale. Inizio a piangere e penso che sto per morire. È proprio vero che poco prima di passare all'altro mondo rivedi tutta la tua vita. Mi rivedo bambino, a Oshogbo, nel parco assieme ai miei fratelli e ai miei amici. Ci vedo giocare tutti insieme, saltando la corda e giocando a rincorrerci. Rivedo anche le mie ginocchia sbucciate, mio fratello più grande che mi viene vicino e che mi dice sempre la stessa cosa, che mi comporto da moccioso. Rivedo mia mamma la domenica, prima di andare in chiesa, con il suo vestito a fiori e la testa sempre coperta da un copricapo colorato. Vedo davanti a me il giorno che arrivammo al porto, dopo i tanti giorni di cammino nel deserto, finalmente pronti ad andare verso la terra promessa, la Sicilia. Ci guardammo tutti quando ci indicarono il barcone sul quale dovevamo salire. La ruggine sullo scafo, l'assenza delle scialuppe di salvataggio, il nome della nave scrostato. «Ma siete pazzi?» disse uno, portando le dita alla tempia. «Siamo tantissimi e non ce la faremo mai a...» Gli spararono addosso. Morì all'istante. «Ci sono altre persone che pensano che siete troppi?» Silenzio. Eravamo tantissimi e tutti con un desiderio condiviso. Andare in una terra nuova, prendere la nostra speranza e cercare di avere una seconda possibilità per la nostra vita. Credo di sentire la voce di Deki che prova a chiamarmi o forse lo sto sognando. Sento voci che via via diventano più lontane, e vedo le mie mani che si allontanano dalla luce. Non riesco più a tenere la bocca chiusa e il naso ha difficoltà, per questo inizio a respirare con la bocca e sento l'acqua che a poco a poco entra dentro di me, e la resistenza del mio corpo venir meno. Mi ricordo della sensazione che provai quando vidi il primo morto sul barcone, il primo cadavere che lanciammo in acqua, le bolle che via via scemavano con l'andare giù. Pensai che ero fortunato, e mi sentii convinto che non sarebbe mai capitata una cosa del genere. Questo dopo un pianto e una preghiera. Dopo le emozioni, la resistenza. Sto morendo, lo so. Mi consola un solo pensiero in questo momento.
Salvatore Claudio D'Ambrosio
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