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Autore: P. Sacchi
La roccia del tempo
Fantasy
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La roccia del tempo
La Saga di Sulladin - vol. II 1.
Era uscito di buon mattino dalla casa che divideva con la moglie e i due figli per avviarsi in direzione di un posto preciso del bosco.
Appena varcata la soglia Sulladin rabbrividì per il contatto con l'aria frizzante, ma per un mago elementale come lui ciò non rappresentava un fastidio ma era tutta materia prima con cui nutrire la sua magia. Traeva la sua forza da tutte le manifestazioni naturali e anche il freddo mattutino contribuiva ad alimentare le riserve di magia che accumulava sapientemente in attesa di farne uso.
Attorno alla casa tutto era tranquillo. Si udivano solo il borbottio delle galline che attendevano di poter uscire dal pollaio per razzolare e i pesanti movimenti delle mucche e dei cavalli che condividevano la stalla e sembravano impegnati in una discussione fatta di sordi muggiti, zoccoli pestati a terra e sonore sbuffate. Ginn, il cane, vegliava con apparente indifferenza, sdraiato sotto la sua pianta preferita e quando vide Sulladin affacciarsi alla porta si limitò ad agitare la coda in segno di saluto senza scomporsi.
Il monte Busir si stagliava maestoso di fronte a lui, la cima avvolta da una densa foschia che molto presto il vento avrebbe spazzato via. Gli piaceva allontanarsi da solo e poter restare un po' con sé stesso. Da quando la due parti dell'isola avevano finalmente trovato il modo di convivere pacificamente i suoi impegni si erano moltiplicati. Continuava a far parte del consiglio dei sette che governava le terre di Lendon, la parte ovest dell'isola e anche nel regno di Grinsen, la parte est, la sua presenza era richiesta di frequente dalla regina Marnita e dal suo consorte, nonché dal segretario Darrien. Sulladin si trovava quindi costretto a viaggiare spesso in tutta l'isola consentendo talvolta ad uno dei figli, a turno, di accompagnarlo.
Quel giorno doveva raccogliere legna da ardere. La bella stagione volgeva ormai al termine e il sole aveva già iniziato a percorrere un tragitto più basso sull'orizzonte. Le giornate si sarebbero fatte più corte e il clima sarebbe cambiato con un abbassamento delle temperature che avrebbero costretto la gente a rimanere più a lungo in casa.
Con la seconda stagione sarebbero arrivate anche nevicate abbondanti ed era meglio essere prudenti. Una buona scorta di legna era indispensabile e anche se Sulladin avrebbe potuto ricorrere ai suoi poteri magici per accatastare legna in abbondanza nella casupola che sorgeva vicino alla stalla, preferiva comportarsi come tutti gli abitanti dell'isola.
Armato di scure si era recato nel bosco e aveva scelto con cura le piante da abbattere. Da buon mago elementale aveva un profondo rispetto per la natura e per ogni albero abbattuto ne faceva ricrescere un altro che avrebbe utilizzato l'anno successivo.
In pratica si limitava ad abbattere solo gli alberi che generava con la sua magia. Si avvicinò ai faggi che erano spuntati dal terreno con l'inizio della prima stagione e, in pochi mesi, avevano raggiunto le dimensioni di alberi che sarebbero bruciati nel suo focolare come solo quelli non troppo giovani e non troppo vecchi potevano fare.
I faggi sembravano attendere il suo arrivo. Si trattava di nove alberi con un altezza variabile tra i 13 e i 15 metri e una circonferenza di circa 2 metri. Erano disposti su tre file e avrebbero fornito alla sua famiglia una quantità di legna sufficiente per trascorrere l'inverno senza problemi.
Gli sarebbero occorsi parecchi giorni di lavoro per ripulirli, sezionarli, dividere le varie parti e tagliarle ad una lunghezza tale da poter essere trasportata sul carro. Prevedeva che gli sarebbero occorsi in tutto una ventina di giorni di lavoro.
Si avvicinò al primo albero e sollevò lo sguardo verso la chioma formata da foglie ovali che stavano assumendo la colorazione giallo-rossastra che presagiva il cambio di stagione. Un folata di vento improvvisa si insinuò tra le fronde e molte foglie si staccarono dai rami, vorticando sino a terra.
Sulladin appoggiò una mano al tronco dell'albero e accarezzò la corteccia. Era sempre dispiaciuto quando giungeva quel momento e, ogni anno, soffriva nel dover infliggere il primo colpo di scure. Battè la mano sulla corteccia come fosse la spalla di un vecchio amico e si mise all'opera.
In poco meno di tre ore aveva abbattuto due alberi e contava di abbatterne un altro prima di fare ritorno a casa. La fatica cominciava a farsi sentire e i colpi di scure erano via via meno incisivi.
Il sole era ormai alto e il sudore gli imperlava la fronte. Si concesse un attimo di riposo e bevve dalla borraccia una sorsata d'acqua fresca. Seduto su un sasso che sporgeva dal terreno, non vide la figura che si avvicinava furtiva alle sue spalle per coglierlo di sorpresa.
- E' così che si lavora ? - la voce risuonò improvvisa nel silenzio del bosco e lo fece sussultare.
- Evyon ! Quante volte ti ho detto di non presentarti in questo modo ? - lo rimproverò Sulladin alzandosi di scatto e voltandosi verso il ragazzo.
- Ma padre.... stavo scherzando - rispose il ragazzo assumendo un'espressione imbronciata.
- D'accordo, ma non farlo più. Mi ha fatto prendere un bello spavento ! -
Era cresciuto il ragazzo, ma al contrario della sorella gemella, non aveva ereditato dal padre alcun potere magico. Sempre allegro e giocherellone, nutriva una autentica passione per le armi e per l'arco in particolare. I suoi genitori gli avevano imposto il nome di Eventhon, in ricordo di colui che per Sulladin era stato, sia il maestro che lo aveva istruito all'uso delle magia, sia il padre che non aveva mai conosciuto e che lo aveva cresciuto con amore, scegliendo di trasferirsi su quell'isola agli estremi del mondo conosciuto. Per tutti però era Evyon, il nomignolo che sua sorella aveva coniato per lui.
Stava per compiere la ventiseiesima stagione ed era più alto dei suoi coetanei. I lunghi capelli ricci gli scendevano fino alle spalle ad incorniciare un viso dai lineamenti delicati dove risaltavano due profondi occhi scuri. Di corporatura snella era comunque dotato di una forza fisica notevole per un ragazzo della sua età.
Non c'era mai stato un buon rapporto tra lui e la scuola. Era riuscito a completare il primo ciclo di studi più per la volontà del maestro di non ritrovarselo ancora di fronte che per i risultati ottenuti.
Preferiva la compagnia di Gulverion, un vecchio soldato che abitava in una casa isolata nelle vicinanze del villaggio dei Falegnami. Aveva combattuto nella guerra contro i Grinsen di ventidue stagioni prima e aveva riportato una ferita ad un braccio che lo aveva menomato al punto da impedirgli di reggere ancora la spada.
Questo non gli aveva però impedito di essere un buon istruttore d'armi per il giovane Evyon che aveva imparato a maneggiare spada e lancia con disinvoltura e riusciva anche a distinguersi nella lotta corpo a corpo, grazie ai preziosi consigli di Gulverion.
La predilezione di Evyon andava però all'arco. Aveva convinto il nonno Puikilar a fabbricargliene uno in legno di salice ed in breve era diventato un esperto cacciatore di conigli, lepri e anche pesci. Non era facile colpire un bersaglio in acqua, ma aveva imparato a calcolare i tempi giusti per colpire il pesce proprio al centro del corpo.
Quando era cresciuto e l'arco di salice si era rivelato non più adatto alla sua altezza e alla lunghezza delle braccia, si era presentato dal nonno con un tronchetto di tasso già stagionato perché ne ricavasse un nuovo arco. Il nonno aveva lavorato a lungo di raspa e coltello, assecondando le nervature e i nodi del legno con una dedizione che non riservava neppure ai suoi manufatti più costosi, applicando un'impugnatura ricavata da legno di faggio e ottenendo un arco di rara bellezza che gli era valso parecchie altre richieste di fabbricare lo stesso tipo di arma.
Evyon aveva convinto suo padre ad accompagnarlo al villaggio dei Soldati dove l'arco era stato accordato da Frexondin, il mastro arciere. Ora dedicava parecchio tempo alla cura del suo arco, mantenendo la corda ben oleata e spalmando regolarmente cera d'api sul legno per mantenerlo sempre lucido.
Dopo aver collezionato una buona dose di insuccessi era diventato un esperto costruttore di frecce e barattava una parte della selvaggina che catturava con le punte di metallo che il buon Niedenor, il fabbro del villaggio, realizzava appositamente per lui. Niedenor si divertiva a prendersi gioco del piccolo Evyon, fingendo ogni volta di contestare la quantità e la qualità della selvaggina che gli veniva offerta come pagamento dei suoi manufatti.
All'inizio Evyon non aveva colto la provocazione del fabbro e più di una volta era scoppiato a piangere per la disperazione di non poter ottenere quanto gli serviva. Col tempo aveva capito che le schermaglie verbali con Niedenor facevano parte del copione e ora recitava volentieri la sua parte, sciorinando un vasto campionario di improperi che gli sarebbe costato una severa punizione se i suoi genitori lo avessero ascoltato.
I due si beccavano reciprocamente sino a quando Niedenor non decideva che gioco era durato anche troppo e fingeva di cacciare dalla sua bottega il giovane impertinente, posando il martello e passando le mani possenti sullo spesso grembiule di pelle che indossava sul torso nudo e muscoloso. Quando Evyon lo vedeva avvicinarsi con fare minaccioso si affrettava ad arraffare la cassetta contenente le punte e a posare le sue prede prima di darsela a gambe. Immaginava che Niedenor stesse solo scherzando, ma non aveva nessuna intenzione di verificarlo con un contatto troppo ravvicinato.
- Posso aiutarti ? - chiese Evyon, posando l'arco contro il tronco di uno degli alberi abbattuti e riponendo con cura la faretra con le frecce.
- Certamente. Inizia a rimuovere i ramoscelli più piccoli e accatastali laggiù - rispose Sulladin chinandosi verso la sua bisaccia per estrarne una pietra grigia.
Evyon guardò il padre mentre si accingeva ad affilare la lama della scure, strisciandola più volte con la pietra dalla superficie levigata. Non si capacitava di come il padre si rifiutasse di ricorrere ai suoi poteri magici. In poco tempo avrebbe potuto abbattere tutti gli alberi necessari, tagliarli alle varie misure e trasportarli sino a casa senza faticare per tutti quei giorni come un comune boscaiolo.
Avevano discusso parecchie volte sull'argomento e Sulladin aveva cercato di spiegargli come la magia fosse un dono da usare con parsimonia e diligenza per non alterare il naturale incedere degli eventi. Era riuscito a convincerlo solo quando gli aveva portato un esempio che non poteva lasciarlo indifferente. Gli aveva chiesto che sensazioni provasse quando andava a cacciare, l'emozione di prendere la mira dopo essersi avvicinato di nascosto alla preda, silenzioso e furtivo, cercando di rimanere sotto vento, immobile magari per lunghi istanti per poi, finalmente, scoccare la freccia e sperare che centrasse il bersaglio. Se invece avesse potuto praticare un semplice incantesimo che immobilizzasse la preda per poi ucciderla, che gusto ci sarebbe stato ?
La magia non apparteneva a tutti e chi la possedeva doveva farne buon uso e metterla al servizio degli altri. Usarla solo per risparmiare della fatica fisica ad un solo uomo non sarebbe stato di aiuto alcuno alla comunità. Meglio conservarla quando ve ne fosse stato realmente bisogno.
Si misero entrambi al lavoro e dopo un'ora abbondante Sulladin scrutò il cielo, velato da sottili nuvole grigiastre che viaggiavano veloci verso sud. Il sole era già basso sull'orizzonte e tra non molto sarebbe scomparso definitivamente dietro la sagoma del monte Busir per cedere il campo all'oscurità che già si intravedeva avanzare da est. Aveva abbattuto un altro albero e decise che per quel giorno poteva bastare così.
- Andiamo Evyon. Si torna a casa a vedere cosa ci ha preparato mamma - disse raccogliendo la bisaccia e legando la scure alla fascia di cuoio che portava a tracolla.
- Già stanco, padre ? - lo schernì il ragazzo mentre trasportava il fascio di rami reggendolo con entrambe le mani per posarlo sopra quelli già accatastati.
Sulladin lo guardò con aria di finto rimprovero e lo raggiunse passandogli un braccio attorno alle spalle. Avevano percorso pochi passi quando Sulladin si bloccò improvvisamente, portando entrambe le mani attorno alla testa come fosse stato colpito da una improvvisa emicrania. Evyon pensò ad uno scherzo, ma ebbe subito modo di ricredersi non appena vide la sua espressione mutare rapidamente da un puro sbigottimento ad un evidente stato di paura.
- Qualcosa non va ? - chiese il ragazzo avvicinandosi al padre.
Sulladin attese ancora qualche istante con lo sguardo rivolto verso nord-est prima di rispondere. All'inizio non aveva prestato attenzione al suono appena percepibile che era comparso nella sua mente, poi, anche se cercava di scacciare il pensiero, aveva dovuto cedere all'evidenza. Era un cupo ronzio che aveva ascoltato per l'ultima volta molte stagioni or sono e che si era augurato si ripresentasse mai più.
Era un ronzio che portava nulla di buono e sottintendeva l'avvicinarsi di un altro mago. Anche il medaglione che portava sempre al collo e che era appartenuto a Xanalthon reagì, iniziando a pulsare debolmente.
- Presto. Corri. Dobbiamo arrivare a casa il più in fretta possibile - furono le sue parole che fecero crescere a dismisura la voglia di Evyon di sapere cosa stesse accadendo.
- Perché ? E' successo qualcosa alla mamma ? O a Marintia ? - chiese con l'apprensione tipica di un ragazzo della sua età che non sopportava di essere tenuto all'oscuro di qualcosa.
- No, no. Per ora no, ma dobbiamo muoverci - rispose Sulladin iniziando a correre inseguito dalle domande del figlio che esigeva risposte esaurienti sul pericolo che il padre aveva intuito.
Sulladin percorse il tratto che lo separava da casa in pochi minuti, correndo a perdifiato senza mai voltarsi. Superò di slancio ogni ostacolo incurante dei rovi e dei rami bassi che gli ferivano le mani e il volto. Solo una volta inciampò in una radice ma ebbe la prontezza di lasciarsi rotolare a terra in modo da attutire la caduta.
Non valse a rassicurarlo il fatto che attorno alla casa tutto si presentasse in ordine come in una qualsiasi giornata di fine stagione. Il fumo usciva lento dal comignolo e tutte le finestre erano chiuse. Il bucato steso ad asciugare ondeggiava sospinto dalla leggera brezza. Qualche gallina razzolava sul lato destro della casa sotto lo sguardo vigile di Ginn, il cane, che non appena percepì l'arrivo del padrone di casa, girò la testa di scatto e gli corse incontro, abbaiando festoso.
Sulladin lo superò di slancio e si avventò sulla porta di ingresso rischiando di scontrarsi con sua moglie Harviel che stava per affacciarsi all'uscio richiamata dall'abbaiare di Ginn. Si guardarono per un breve istante e Harviel intuì immediatamente che qualcosa di grave era accaduto. Non era da Sulladin presentarsi così all'improvviso, scarmigliato con una striscia rossastra sulla guancia e le mani sanguinanti. Subito il suo pensiero andò al figlio.
- Dov'è Evyon ? - chiese Harviel sapendo che il ragazzo si era recato nel bosco per raggiungere il padre. Era ancora troppo giovane per lavorare nei boschi. Anche quella mattina avrebbe preferito fosse rimasto a casa ad aiutarla con gli animali e le altre faccende domestiche e invece se ne era andato subito dopo la colazione.
- Sta arrivando e sta bene - rispose Sulladin intuendo la preoccupazione di Harviel - però dobbiamo allontanarci subito da qui. Chiama Marintia e raggiungiamo il rifugio sul monte Busir -
Il tono con cui pronunciò le ultime parole non lasciava adito a dubbi circa l'urgenza del momento e Harviel si guardò bene dal fare domande. Aveva sposato un mago e sapeva bene che in certe occasioni era meglio non perdere tempo. Le bastò guardare il marito dritto negli occhi e leggerci tutta la sua preoccupazione. Si volse, chiamò la figlia a gran voce e subito iniziò a raccogliere quanto si sarebbe rivelato utile per trascorrere il resto della giornata nel rifugio sul monte.
Subito dopo il loro matrimonio Sulladin aveva ricavato un rifugio all'interno del monte che sovrastava la parte ovest dell'isola e alle cui pendici sorgeva la loro casa, proprio per offrire alla sua famiglia un luogo sicuro dove nascondersi proprio nel caso in cui un altro mago fosse arrivato sull'isola. Nelle stagioni seguenti alla nascita dei gemelli aveva dedicato molto tempo a modellare con la sua magia quella strana roccia giallastra che abbondava all'interno della montagna. Il risultato era stato un intricato labirinto di cunicoli che culminava in una grotta contenente quanto necessario per trascorrervi un lungo periodo.
Con il trascorrere del tempo le visite si erano sempre più diradate così come il timore che un mago potesse sbarcare sull'isola aveva smesso di essere un pensiero ricorrente. Erano ormai quasi quattro stagioni che Sulladin non si recava nella grotta sul monte a controllare che tutto fosse intatto e pronto ad accogliere la sua famiglia.
Sulladin stava maledicendo la sua superficialità quando Evyon fece irruzione nella casa. Anch'egli ferito ad un ginocchio e con respiro affannoso per la lunga corsa.
- Si può sapere cosa succede ? - chiese appena entrato andando a sedersi sulla panca addossata alla parete di sinistra e pulendosi il ginocchio sbucciato con uno straccio bagnato che la sorella Marintia si era affrettata a porgergli.
Sulladin avvertì il peso degli sguardi dei figli su di sé - Sta per arrivare un altro mago. Andrete nel rifugio sul monte, mentre io cercherò di capire cosa sta succedendo -
- E tu padre, come fai a sapere che sta per arrivare un altro mago ? - chiese Evyon con tono sprezzante, come a rimproverare il padre delle risposte non date nel bosco.
- Lo so perché sono un mago e posso avvertire la sua presenza a distanza come del resto lui starà sentendo la mia - rispose secco Sulladin che seguiva ogni movimento della moglie intenta a raccattare ogni cosa considerasse utile per la permanenza fuori da casa, aiutata da Marintia che obbediva, stranamente silenziosa, a tutti i suoi ordini.
Harviel diede un'ultima mescolata allo stufato che cuoceva sul focolare e calcolò che in meno di un'ora il fuoco si sarebbe spento - Possiamo andare - disse allora raccogliendo il sacco che aveva preparato e issandoselo sulle spalle. La sua apparente tranquillità contrastava con la sensazione di frenesia che sembrava essersi impadronita degli altri membri della sua famiglia.
- Padre voglio venire con te - Evyon non si rassegnava all'idea di perdersi quanto stava per accadere.
- Non se ne parla neppure - gli rispose sua madre e anche suo padre fu altrettanto perentorio - Vai con tua madre. Hai il compito di proteggerla -
Quelle parole bastarono per riempire di orgoglio il ragazzo. Avrebbe protetto sua madre da tutti i pericoli ma non gli sfuggì l'occhiata di superiorità che gli rivolse la sorella.
- Padre, da poco prima del tuo ritorno, avverto uno strano ronzio nella mia testa che sembra crescere lievemente col passare del tempo. Pensi abbia a che fare con quel mago ? - chiese Marintia con un tono di voce che lasciava sottintendere come la risposta non sarebbe stata una sorpresa per lei.
Sulladin la guardò con un misto di stupore e preoccupazione. Se anche Marintia avvertiva il segnale di una magia in arrivo, non poteva mandarla con Harviel e Evyon. Avrebbe fatto da richiamo e sarebbe stato come indirizzare un orso verso un favo colmo di miele.
Scambiò uno sguardo di intesa con Harviel ma non potè fare a meno di notare lo sguardo beffardo con cui lo stava osservando la figlia.
2. I poteri magici si erano manifestati molto presto in Marintia, la quale non aveva però ancora imparato la loro importanza. Considerava la magia come un gioco e la utilizzava spesso per vendicarsi di quei compagni di scuola con i quali non era riuscita a stabilire un rapporto incentrato alla normale convivenza durante le lezioni. Ossia praticamente tutti.
Madre natura sembrava aver presentato a lei il conto per quanto generosa era stata con il fratello e le aveva riservato un fisico imbarazzante. Un volto rotondo dominato da un grosso naso schiacciato e incorniciato da capelli ispidi che nessuna spazzola era ancora riuscita a domare. Una bocca troppo larga e due occhi scuri sovrastati da spesse sopraciglia. Piccola di statura, con fianchi larghi, aveva due gambe corte e robuste che le avevano fatto assumere un'andatura ciondolante. Proprio il suo incedere particolare le era valso il soprannome di - dondolina - che i suoi compagni di scuola evitavano di pronunciare in sua presenza, vista la facilità con la quale Marintia lasciava partire dalle sue mani raggi infuocati che provocavano serie bruciature ai malcapitati destinatari.
Nonostante apprezzasse frequentare la scuola aveva finito per essere isolata da tutti i compagni, compreso il fratello che, costretto a scegliere tra lei e gli amici, finiva con lo schierarsi con questi ultimi, salvo sentirsi in colpa nel vedere la sorella sempre sola. A Marintia però sembrava non importare. Aveva la sua magia e questa era la sua unica e vera amica. Un'amica che non tradiva mai e che era sempre disponibile quando ne aveva bisogno.
Proprio il concetto di bisogno era motivo di lunghe discussioni con Sulladin. Nonostante il padre cercasse di insegnarle l'importanza di un uso consapevole della magia, Marintia finiva con l'utilizzarla per rimarcare la differenza tra sé stessa e gli altri ragazzi. Lei era diversa da loro e voleva che questo fatto fosse ben chiaro a tutti. Per dimostrarlo non esitava a praticare incantesimi ad ogni occasione le si presentasse, incluse quelle in cui non vi era alcuna necessità.
Era molto dotata e Sulladin era consapevole che sua figlia avesse raggiunto un livello di preparazione superiore a quello che lui stesso possedeva alla sua età. Imparava facilmente ed era sicuramente un'allieva migliore di quanto non fosse stato lui per il suo maestro Eventhon, ma a preoccuparlo era il concetto di uso della magia che Marintia si ostinava ad ignorare e che invece faceva parte del bagaglio culturale di ogni buon mago.
Sulladin aveva anche il sospetto che Marintia applicasse incantesimi solo per il gusto di veder soffrire i malcapitati destinatari. Una volta l'aveva sorpresa nel bosco prendersi gioco di un capriolo che aveva immobilizzato per poi fingere di colpirlo dopo essersi avvicinata con estrema lentezza. Lo stesso Sulladin poteva percepire il terrore profondo che attanagliava il povero animale sino a quando non era intervenuto per porre fine a quel gioco irresponsabile. Ciò che lo aveva indispettito maggiormente non era tanto il gesto sconsiderato della figlia ma il fatto che Marintia non avesse ammesso la propria colpa.
Un mago elementale doveva convivere con tutte le espressioni della natura e non poteva prendersi gioco della flora e della fauna. Si trattava di un concetto che il suo maestro, il vecchio Eventhon, gli aveva inculcato sin dalla prima lezione e lui ne aveva fatto tesoro. Sua figlia invece sembrava poco incline al rispetto delle regole, al punto che anche suo fratello si era sentito in dovere di riferire al padre alcuni episodi accaduti a scuola che avevano fornito a Sulladin ulteriori conferme di come i suoi insegnamenti venissero interpretati in modo troppo personale da Marintia.
- Sì Marintia, il ronzio è il segnale che ci avverte della presenza di un altro mago. Anch'io lo percepisco - rispose Sulladin, imprecando tra sé per questo inaspettato sviluppo della situazione. Non si era aspettato che la magia della figlia fosse già così sensibile. Avrebbe dovuto portarla con sé, ma la sua presenza era un ostacolo per i piani che aveva elaborato in fretta e furia. Con Marintia al suo fianco avrebbe dovuto pensare prima di tutto a non esporsi a rischi di sorta.
- Resterai con me, mentre la mamma e Evyon andranno nel rifugio - concluse Sulladin mentre un vasto sorriso si stampava sul volto di Marintia.
- Gli faremo passare la voglia di sostare sulla nostra isola. Lo annienteremo - sibilò a voce bassa la ragazza, provocando il turbamento dei genitori che si scambiarono un'occhiata carica di preoccupazione.
- E' meglio che vi mettiate in cammino - tagliò corto Sulladin avvicinandosi a Evyon - Mi raccomando. Raggiungete il rifugio e non uscite sino a quando verrò a prendervi - disse abbracciando il figlio.
- Non ti preoccupare padre. Farò come dici e userò il mio arco solo se sarà necessario - rispose il ragazzo guadagnandosi una pacca sulle spalle in segno di approvazione.
Poi Sulladin si volse verso la moglie. Entrambi avevano gli occhi umidi ma si sforzarono di rimanere lucidi per non impensierire i figli. Si guardarono intensamente per alcuni istanti e a Sulladin parve di rivivere un momento di molte stagioni prima quando si accomiatò da Harviel per una missione di guerra nel regno di Grinsen. In quella occasione Harviel lo aveva sorpreso con un casto bacio sulla guancia. Si abbracciarono e si baciarono così intensamente che Evyon tossicchiò per porre fine a tanta manifestazione d'affetto.
Si sciolsero dall'abbraccio e Harviel si staccò lentamente da Sulladin e mosse qualche passo all'indietro senza lasciare le mani del marito. Guardandosi dritti negli occhi si tennero le mani sino a quando la distanza non fu tale da costringerli ad interrompere la stretta ed entrambi avvertirono subito il peso della mancanza del contatto.
Sulladin guardò Evyon e Harviel uscire nella luce del tardo pomeriggio e subito avvertì un formicolio insinuarsi all'altezza dello stomaco. Erano sposati da ventotto stagioni e ancora non si erano abituati a restare lontani l'uno dall'altra.
3. La nave procedeva lentamente sospinta da un vento leggero che gonfiava l'unica vela rimasta, mentre un sole rosso si stagliava alla loro sinistra già prossimo ad iniziare la discesa verso la linea dell'orizzonte.
La notte precedente erano finiti in una tempesta che aveva messo a dura prova la resistenza della Soviluna esigendo un pesante tributo in tema di danni arrecati. Il primo albero si era spezzato di netto ed era precipitato sull'albero maestro lacerando le vele e trascinando in mare tre uomini. Altri due erano finiti fuori bordo mentre ingaggiavano una lotta impari con l'acqua che dall'alto di onde gigantesche si riversava dentro lo scafo, sferzandolo e facendolo gemere come dovesse sfasciarsi da un istante all'altro.
Invece la Soviluna aveva retto. Era una robusta caracca costruita appositamente per trasportare i pesanti carichi che fruttavano parecchio al suo comandante. Questo viaggio non era però stato fortunato. Una parte del carico non aveva superato la tempesta nonostante la presenza di un mago anziano, di due sensitivi e di un sacerdote i quali non perdevano occasione per beccarsi, attribuendosi i meriti e le colpe di quanto accadeva a bordo.
Il timone era fuori uso e la caracca procedeva alla deriva, lontana dalle rotte conosciute. Dovevano raggiungere terra e trovare il modo di eseguire le riparazioni che avrebbero consentito di proseguire il viaggio verso il porto dove scaricare ciò che restava del carico. Ma il comandante Scolder non aveva certezza sino a dove la tempesta li avesse sospinti. Basandosi sulla disposizione della volta celeste poteva immaginare di trovarsi verso ovest in un tratto di oceano dove le mappe non segnalavano altro che acqua.
Non gli restavano molte alternative. Aveva deciso di attendere sino all'indomani, dopodiché avrebbe fatto smontare una parte del ponte di coperta e ordinato agli uomini di tentare la riparazione del timone calandosi fuori bordo. Con un solo albero rimasto intatto e una buona dose di fortuna avrebbero ancora potuto farcela. Altrimenti non gli restava altra alternativa che sbarazzarsi del carico per consentire alla nave di procedere più velocemente.
Non era una decisione che avrebbe preso a cuor leggero. Trasportava un carico che gli avrebbe reso parecchio. Stivati sottocoperta restavano ancora più di centocinquanta uomini e donne catturati nelle isole del sud e che sarebbero finiti nei mercati degli schiavi lungo la costa dei regni di Manvaria, Missuria e Grandazia. Alcuni non avevano retto alla traversata e più di trenta avevano subito fratture o ferite durante la tempesta, sballottati da una parte all'altra della nave senza possibilità di sfuggire alla presa delle catene che li costringevano a tenere le braccia rivolte verso l'alto. Non vi erano possibilità di vendere uno schiavo non in salute e Scolder li aveva fatti prelevare ad uno ad uno per gettarli in acqua e offrire un lauto pasto ai pescecani.
Avevano perso anche parecchie scorte di viveri e acqua e presto non vi sarebbe stato modo di sfamare e dissetare tutta quella moltitudine. La priorità erano i mercenari che lavoravano con lui da tre anni, fondamentali per catturare gli schiavi, i maghi e gli uomini del suo equipaggio. Se avesse potuto avrebbe venduto anche il sacerdote e questo pensiero lo fece sogghignare, ma i cultori di Kurath erano il lasciapassare per le terre dove svolgeva i suoi sporchi affari. Li doveva sopportare anche se non credeva ad una sola parola di quanto andavano predicando.
Il comandante Scolder si era ritirato nella sua cabina dopo che i sensitivi parevano aver identificato qualcosa. Aveva dato ordine di calare i remi e di dirigere la nave verso il punto dove i sensitivi sostenevano vi fosse una piccola isola celata dietro una barriera magica. Avrebbero fatto bene a non sbagliarsi ancora una volta.
Erano stati loro a garantire che si sarebbe trattato di una tempesta non particolarmente insidiosa. Si era visto come era andata a finire. Potevano anche possedere qualche potere, ma, quando se ne trapassava uno con la spada, sanguinava come tutti gli esseri normali. Non aveva nessuna intenzione di rischiare la Soviluna per l'incompetenza di qualche ciarlatano e, istintivamente, si scoprì a stringere il pomo della spada con la mano sinistra mentre si avviava sottocoperta.
Erano trascorse poco più di due ore durante le quali aveva consultato nuovamente le carte nautiche e assaporato del buon fumo dalla sua pipa, quando qualcuno bussò alla porta della cabina.
- Comandante, abbiamo avvistato un'isola ! - il marinaio era evidentemente eccitato di fronte alla prospettiva di toccare terra. Era uno dei più giovani dell'equipaggio e non aveva ancora avuto di misurarsi con una tempesta come quella cui erano appena scampati.
Scolder rispose con un grugnito, alzandosi dalla sedia ed indossando la giubba blu sopra la camicia bianca con le maniche arrotolate sino al gomito e i bottoni allentati a lasciare in bella vista la pesante catena d'oro che portava al collo.
Stava ancora salendo la stretta scala che conduceva al ponte superiore e giù udiva il battibecco in atto tra il mago e il sacerdote, i quali non perdevano occasione per rimarcare la propria superiorità l'uno sull'altro. Magia contrapposta a religione. Nonostante la scarsa fiducia che riponeva nel mago che aveva imbarcato era fortemente propenso a credere che il dio Kurath avesse poco a che fare con la scoperta della piccola isola di cui stavano discutendo.
Giunse alle spalle dello strano gruppo radunato a tribordo senza che nessuno si accorgesse della sua presenza. Erano troppo intenti a discutere per prestare attenzione a ciò che accadeva alle loro spalle. Il loro stato di eccitazione era evidente.
Gondarion, il vecchio sacerdote, era vestito con un'ampia tunica rossa rifinita con elaborati ricambi dorati che rappresentavano un grande uccello dalle piume variopinte con una lunga coda che, dividendosi in due parti, ruotava attorno ai fianchi per ricongiungersi sulla schiena a formare un ovale all'interno del quale spiccava una grande K formata da pietre luccicanti. Si sorreggeva al lungo bastone che impugnava con la mano destra e Scolder pensò che con una pedata ben assestata avrebbe potuto farlo precipitare in acqua senza che questi se ne accorgesse.
Il sacerdote si era appena visto recapitare dal mago anziano un insulto non troppo celato dopo aver ecceduto nel lodare la grandezza di Kurath, mentre uno dei sensitivi aveva fatto riferimento ad un altro mago presente sulla piccola isola. A quella notizia il mago anziano fu come scosso da un tremito e Scolder intuì tutta la sua impazienza di saperne di più. Strana razza quella dei maghi. Per quanto lo riguardava, potevano pure scannarsi tra loro a patto di poter riparare la nave e riprendere la navigazione prima di perdere altre parti del suo prezioso carico.
- Mi dispiace interrompere la vostra conversazione - disse Scolder decidendo fosse venuto il momento di intervenire - sbarcheremo non appena avremo individuato un punto favorevole. Dobbiamo recuperare quanto necessario per riparare la nave e quando avremo finito, ripartiremo subito -
- Sempre ammesso che su quello scoglio ignorato dalle mappe vi sia quanto ci occorre - concluse guardando con aria di superiorità il vecchio sacerdote.
Ci vollero ancora alcune ore prima che la Soviluna, superata la barriera magica eretta a celare la vista dell'isola a coloro che si fossero trovati a navigare nei paraggi, giungesse nei pressi della costa e potesse gettare l'ancora.
La notte stava ormai calando e il comandante Scolder decise di rimandare all'indomani mattina l'esplorazione della terraferma. Stazionavano ad una distanza di circa cinquecento passi dalla riva, abbastanza lontani per difendersi da eventuali attaccanti e abbastanza vicini per controllare quanto accadeva sulla riva.
La notte trascorse tranquilla e le vedette che avevano scrutato in ogni direzione non avevano riferito movimenti sospetti. Di fronte alla Soviluna si estendeva una lunga e stretta distesa di sabbia, dietro la quale, sorgeva una fitta boscaglia. Eventuali aggressori sarebbero quindi stati costretti ad esporsi e i fucilieri della Soviluna avrebbero avuto gioco facile nel colpirli. Si trovavano al centro di una vasta baia, delimitata da sporgenze della costa che a ovest si innalzava sino a formare una sorta di promontorio roccioso. Sullo sfondo si stagliava la sagoma maestosa di un monte.
Una leggera brezza soffiava da sud e le grosse nubi ad est iniziarono a tingersi di rosso ad annunciare l'ascesa del sole. Si profilava una bella giornata, proprio quello che ci voleva per riscaldare non solo gli animi, ma anche i corpi intirizziti dal freddo della notte.
L'isola pareva disabitata e il comandante Scolder stava osservando la spiaggia con il suo monocolo. Due scialuppe erano già state calate in acqua e gli uomini attendevano solo l'ordine di mettersi ai remi. Erano impazienti di sbarcare e rispondevano alle provocazioni dei marinai rimasti a bordo favoleggiando sulle donne indigene che avrebbero incontrato e che avrebbero regalato loro momenti indimenticabili.
Avevano ricevuto ordini precisi. Dovevano procurare il legname necessario alla riparazione degli alberi danneggiati, trovare cibo e acqua potabile e rientrare comunque prima del tramonto. Gli otto mercenari, armati di spada corta e archibugio, avrebbero offerto protezione contro eventuali attacchi. Gli uomini rimasti a bordo si sarebbero occupati delle riparazioni al timone e alle parti danneggiate dello scafo e della ricucitura delle vele strappate durante la tempesta.
Tutto pareva tranquillo e Scolder diede il comando. Subito i remi affondarono in acqua e sospinsero le scialuppe in avanti. Incalzati dai capi squadriglia gli uomini iniziarono a vogare di buona lena, impegnati in una tacita gara a chi toccasse terra per primo. Scolder avrebbe preferito risparmiassero le energie per il lavoro che li attendeva, ma dopo essere scampati alla tempesta e aver vagato alla deriva per l'oceano, l'atteggiamento degli uomini era comprensibile. Dovevano sfogarsi e si augurò non creassero problemi una volta sbarcati.
Li aveva istruiti per bene su come comportarsi nel caso si fossero imbattuti in qualche indigeno, ma dubitava si sarebbero ricordati i suoi suggerimenti se, per caso, avessero incontrato una donna giovane e attraente.
Scolder continuava a tenere sotto osservazione la spiaggia, facendo scorrere il monocolo lentamente da una parte all'altra, ma tutto appariva tranquillo. Troppo tranquillo. Su quell'isola vivevano sicuramente degli uomini e se i sensitivi non si erano sbagliati, vi era almeno un mago nascosto da qualche parte che, probabilmente, li stava osservando. Non si fidava del suo mago. Non era riuscito a dominare la tempesta e dubitava riuscisse a tenere testa ad un altro mago.
Non gli piaceva quel posto. Il senso di inquietudine che lo pervadeva quando non si trovava in alto mare non voleva saperne di abbandonarlo. Avrebbe preferito affrontare un'altra tempesta piuttosto che dover passare il suo tempo ad osservare la terraferma. Dovevano andarsene in fretta.

P. Sacchi

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