Un'isola agli estremi del mondo
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La Saga di Sulladin - vol. I 1. La piccola imbarcazione si trovava in balia della tempesta che l'aveva colta al ventiseiesimo giorno di navigazione, quando le provviste e le scorte di acqua erano quasi ultimate e l'unico uomo a bordo aveva ormai rinunciato a remare per tentare di raggiungere una qualsiasi destinazione. Scrosci violenti di pioggia e onde gigantesche investivano la barca, impegnando il povero uomo nel disperato tentativo di liberare il fondo dall'acqua che si riversava abbondantemente all'interno da ogni lato e che poteva determinarne l'affondamento da un momento all'altro. Era una lotta impari; il mare sembrava volergli presentare il conto di tutti i suoi misfatti in un'unica soluzione. L'acqua che entrava nella barca era in quantità nettamente superiore a quella che lui riusciva a gettare all'esterno, cercando, allo stesso tempo, di mantenersi in equilibrio per non finire fuori bordo mentre veniva sballottato da parte a parte. Era tutt'altro che un esperto navigatore e quando la tempesta era iniziata, spaventato dai minacciosi nuvoloni neri che incombevano su di lui e dalla forza del vento che si era scatenato, si era legato all'unico albero per non rischiare di cadere in acqua, non immaginando che la forza degli eventi potesse arrivare a spezzare albero e timone in rapida successione come si trattasse di due ramoscelli, rendendo così la barca ingovernabile anche per mani più esperte delle sue. La tempesta durava ormai da quasi un'ora e sembrava non volerne sapere di cessare o perlomeno di diminuire di intensità. Aveva sentito parlare di tempeste che duravano giorni interi ma si augurava che l'unica cosa vera fosse la proverbiale tendenza dei marinai ad ingigantire qualsiasi evento si trovassero a raccontare. Sentiva che le forze lo stavano piano piano abbandonando e quando la barca fu investita da un muro d'acqua precipitato da un'altezza paragonabile a quella di una stalla strappandogli di mano il secchio con il quale cercava di svuotare il fondo, decise di abbandonare ogni tentativo di lottare con un avversario che si stava rivelando troppo potente e poco propenso a desistere. Cercò di raggiungere la prua della barca in modo da avere più punti di appoggio e si aggrappò alle due paratie, rannicchiato su sé stesso, fradicio e impaurito, quasi ad attendere la propria fine. L'unica a non arrendersi pareva essere la barca, che incurante della forza delle onde, della potenza del vento e dell'intensità della pioggia, continuava a mantenersi a galla anche se gli scricchiolii parevano aumentare ad ogni impatto sulla superficie del mare, lasciando presagire una fine quanto mai prossima. Improvvisamente il passeggero, pur nel frastuono della tempesta, avvertì in modo chiaro il classico boato causato dal legno spezzato e si ritrovò proiettato in avanti stringendo tra le mani frammenti di quella che era stata la sua imbarcazione. Finì sott'acqua e con sua grande sorpresa nel tentativo di darsi slancio per riemergere posò i piedi sul fondo sassoso. Realizzò che forse non tutto era perduto e che avrebbe potuto raggiungere la riva che, nell'oscurità, non riusciva a scorgere ma che non doveva essere troppo distante a patto di non finire scaraventato su quegli scogli che affioravano numerosi e contro uno dei quali si era appena disintegrata la sua barca. Fece appello alle ultime forze rimastegli e lottò con un mare che pareva prendersi gioco di lui, spingendolo verso la riva ma richiamandolo a sé subito dopo, quasi come un gatto che si prende gioco del topolino appena catturato prima di farne un sol boccone. Le sue gambe urtarono rocce appuntite e taglienti e le sue mani erano scorticate dai ripetuti tentativi di allontanarsi dagli scogli. Il dolore era forte ma l'istinto di sopravvivenza ebbe il sopravvento e fu così che, dopo un tempo che gli parve interminabile, riuscì a guadagnare la riva e ad allontanarsi dalla furia delle onde. Si lasciò cadere sulla sabbia senza preoccuparsi di trovare un riparo dalla pioggia torrenziale. Era troppo stanco e gli pareva che anche un solo altro passo potesse risultargli fatale, ma, prima di crollare stremato, un leggero sorriso di sfida si delineò sulle sue labbra arse dal sole e dalla salsedine dopo quei lunghi giorni trascorsi in mare aperto nel constatare che il medaglione nero che portava al collo era intatto.. Non aveva la minima idea di dove fosse andato a naufragare ma una cosa era certa: Karshan era ancora vivo e sarebbe tornato per prendersi la rivincita su chi aveva cercato di porre fine alla sua vita. 2. Il ragazzo guardava dalla finestra della piccola casa dove viveva con il vecchio Eventhon, ma non riusciva a scorgere alcunché dato che la pioggia scrosciante batteva sui vetri con tale forza come se qualcuno si divertisse a lanciarvi contro intere secchiate d'acqua. Il vento ululava e si accaniva contro la casetta di pietra, sferzandola con potenti raffiche e cercando di infiltrarsi tra gli interstizi, ottenendo però risultati modesti se paragonati alla forza impiegata. Erano lievi correnti quelle che riuscivano ad intrufolarsi quel tanto che bastava per far ondeggiare il fuoco che ardeva nel camino e la fiamma delle torce che, appese al muro, diffondevano una debole luce nel locale arredato con un tavolo di legno, una credenza, quattro sedie, due cassapanche, un vecchio baule e due pagliericci. Il tetto di legno sembrava potersi staccare da un momento all'altro, prendendo il volo e lasciando sotto le intemperie i due occupanti, ma era un tetto robusto abituato da molti anni alle tempeste che arrivavano dal mare per squassare l'isola quando la prima stagione, quella dove il sole splendeva più a lungo, volgeva ormai al termine e si ritirava per lasciare il posto alla seconda stagione, caratterizzata da giornate più brevi e da frequenti piogge che potevano anche trasformarsi in intense nevicate nel periodo in cui le giornate divenivano più fredde e buie. Il vecchio Eventhon sedeva di fronte al fuoco, mescolando lentamente la densa zuppa che ribolliva nella pentola appesa sopra il fuoco e ogni tanto rivolgeva una sguardo affettuoso al ragazzo che continuava a scrutare fuori dalla finestra immerso in chissà quali pensieri. Non era difficile indovinare di quali pensieri si trattasse. A Eventhon non erano sfuggiti gli sguardi sognanti che il ragazzo rivolgeva a Harviel, la figlia di un falegname. La famiglia di Harviel viveva nel vicino villaggio dei Falegnami e per il ragazzo ogni occasione era buona per recarvisi adducendo le scuse più disparate. Non era stato difficile per Eventhon comprendere quali fossero i veri motivi che spingevano il ragazzo a recarsi ogni giorno al villaggio e aveva finito con l'accettarlo anche se avrebbe preferito evitare ogni sorta di distrazione nell'addestramento del giovane Sulladin. Erano passati troppi anni da quando Eventhon era un ragazzo come Sulladin, ma il ricordo del giorno in cui, per la prima volta, aveva incontrato gli occhi di quella che sarebbe diventata sua moglie, riusciva ancora a provocargli un brivido di emozione. Avevano trascorso 45 anni insieme e ne erano ormai passati ben 182 da quanto Elhen era morta, lasciando Eventhon solo con i suoi libri e la sua potente magia. Avevano avuto due figli ma entrambi erano morti in tenera età, uccisi da una malattia contratta quando lui si trovava lontano da casa e non aveva potuto intervenire per salvarli sfruttando la sua magia. Si era ormai rassegnato a non poter trasferire il suo sapere a qualcuno che continuasse a praticare l'arte della magia, quando il destino aveva voluto che la sua strada incrociasse quella di Sulladin. Quindici anni prima Eventhon viveva in una terra molto lontana e nel tardo pomeriggio di un giorno trascorso a valutare l'efficacia delle difese magiche che aveva eretto, mentre cavalcava in una fitta boscaglia ai margini dei territori dove sorgeva il castello del Signore che lo aveva assoldato per sconfiggere gli invasori provenienti da Sud, si era imbattuto in una giovane donna che, seduta con la schiena appoggiata al tronco di un albero e il capo leggermente reclinato sulla spalla destra, pareva profondamente addormentata. Si avvicinò senza notare che tra le pieghe delle spesse vesti che la riparavano dal freddo teneva un bimbetto biondo che gli rivolse uno sguardo curioso non appena fu abbastanza vicino dal constatare che la donna era sprofondata in un sonno senza ritorno. Rimase impietrito ad osservare la scena senza sapere bene cosa fare, ma non appena si mosse per avvicinarsi al bimbo avvertì chiaramente la presenza della magia che risiedeva in lui. Si guardò attorno pensando ad una trappola ma non scorse alcuna traccia di pericolo, quindi si chinò per strappare il bimbo dall'ultimo abbraccio materno. La donna era morta da poche ore e non portava segni di violenza, motivo per cui Eventhon concluse si trattasse di una morte naturale. Non poteva perdere tempo a seppellirla, doveva rientrare prima che facesse buio, ma non voleva neppure che la povera donna costituisse la cena delle creature notturne che vivevano numerose in quei boschi. Pur riluttante ad utilizzare la magia nel timore che qualche mago nemico potesse individuarlo, dovette arrendersi di fronte all'evidenza e in breve, con un semplice gesto delle mani e pronunciando due parole nella lingua antica che i maghi si tramandavano, formò una catasta di rami secchi e arbusti sulla quale depose il corpo della giovane donna. Un altro gesto, una sola parola e, in breve, il fuoco divampò a cancellare ogni traccia terrena dell'esistenza della madre del piccolo che teneva tra le braccia. Risalì sul suo cavallo e si diresse verso il castello, stringendo il bimbo sotto il mantello con il braccio sinistro in modo da ripararlo dal freddo e da occhi indiscreti. Durante la cavalcata ebbe modo di riflettere sul fatto che il ritrovamento del piccolo poteva cambiare il corso della sua vita. Da quando sua moglie era morta non aveva più cercato una compagna e aveva trascorso la sua vita mettendo la sua magia al servizio di chi ne avesse avuto bisogno senza badare troppo alla causa che stava perorando. Ora si ritrovava ad avere vissuto quasi 245 anni, un'età ragguardevole anche per un mago e sapeva che ben presto la sua magia avrebbe cominciato a svanire piano piano, segno inequivocabile che anche la sua vita terrena stava per giungere al termine. Non gli restava nessuno al mondo. Tutti quelli che erano cresciuti con lui e che avevano condiviso la parte iniziale della sua vita erano morti da tempo, così come pure tutti coloro che aveva conosciuto successivamente e che gli erano stati vicino nel corso di tutti quel tempo. Era solo, ma il fato aveva voluto che si imbattesse in quel piccolo fagottino che teneva stretto a sé. Quel bimbo era sicuramente figlio di un mago e lui, Eventhon, lo avrebbe allevato e istruito. Si chiese chi fosse il padre e se potesse fare qualcosa per ritrovarlo e consegnargli il piccolo. Concluse che si trattava, probabilmente, di un mago che si era trasferito lontano proprio come aveva fatto lui da giovane e che, magari, era pure ignaro dell'esistenza di quel figlio. Conosceva personalmente i maghi impegnati in quella guerra e nessuno di loro era così giovane da avere un figlio di pochi mesi di vita. Nello spazio di poche ore la sua vita stava completamente cambiando. Decise che avrebbe abbandonato il castello non appena avesse raccolto i suoi pochi averi, rinunciando alla ricompensa che gli spettava, in quanto era certo che il Signore avrebbe fatto di tutto per trattenerlo. Sino a quel momento gli attacchi degli invasori si erano infranti contro la magia di Eventhon e degli altri due maghi di stanza nel castello e nulla aveva contato il fatto che gli invasori potessero contare su ben cinque maghi comandati da un tale Karshan, contro il quale Eventhon aveva già avuto modo di misurarsi in altre occasioni. Per questo motivo non sarebbe stato facile convincere il Signore a lasciarlo andare e, soprattutto, spiegargli le ragioni del suo abbandono. Gli avrebbe scritto un messaggio per rassicurarlo di non aver tradito ma che vi erano motivi più che validi ad imporgli di fare rientro. Già, ma dove sarebbe rientrato ? Non aveva più una casa da tempo immemorabile e non aveva mai sostato nello stesso posto per più di cinque anni, quindi doveva trovare un posto dove poter crescere in pace e serenità il piccolo che aveva appena trovato sino a farne un mago di grande caratura. Decise quindi che si sarebbe imbarcato sulla prima nave in partenza dal porto e che avrebbe valutato dove fermarsi durante la navigazione fidandosi del suo istinto che gli avrebbe fatto capire quale fosse il posto giusto. Rientrò al castello e, dopo aver lasciato il suo cavallo nella stalla senza neanche preoccuparsi di legarlo e accudirlo come era solito fare, si era precipitato nella sua stanza con il bimbo sempre nascosto tra le pieghe del suo mantello. Era preoccupato che qualcuno potesse vederlo con qualcosa tra le braccia. La gente era abituata alle stravaganze dei maghi, sempre dediti a sperimentare qualche magia utilizzando gli oggetti più disparati. In questo caso, però, si trattava di un bambino e non sarebbe stato facile trovare delle giustificazioni che non facessero pensare a qualche rito troppo strano, quindi meglio evitare incontri indesiderati. Per sua fortuna non incontrò anima viva e ripose nel suo letto il bimbo che dormiva placidamente, dopo essere stato cullato a lungo dal passo cadenzato del cavallo. Si recò in cucina facendosi consegnare una bottiglia di latte di capra, sperando che il bimbo avrebbe gradito. Non poteva certo permettersi di rivolgersi a qualche puerpera perché lo allattasse senza scatenare una ridda di pettegolezzi e dover trovare giustificazioni che risultassero plausibili. Meglio evitare tutto ciò. Non poteva raccogliere tutte le sue cose, doveva limitarsi a quelle che poteva trasportare senza destare troppi sospetti, quindi riempì un sacco con ciò che reputava potesse servirgli per affrontare un viaggio per mare. Si sedette al piccolo tavolo e scrisse una lettera per il Signore del castello che ripiegò accuratamente e lasciò in bella evidenza in modo che quando qualcuno fosse andato a cercarlo non avrebbe potuto fare a meno di notarla. In breve fu pronto a lasciarsi alle spalle un altro capitolo della sua vita e, dopo aver dato un'ultima occhiata alla stanza che lo aveva ospitato dalla fine della stagione precedente, uscì recando sulla spalla destra il sacco con i suoi averi e nella mano sinistra un altro sacco più piccolo nel quale aveva adagiato il bimbo. Ritenne prudente praticare un piccolo incantesimo sul piccolo in modo che il suo pianto improvviso non attirasse l'attenzione di qualcuno e si avviò a passo spedito verso il porto, a capo chino e con il cappuccio tirato a coprire il volto nonostante l'oscurità della notte avesse iniziato a calare da est e in breve avrebbe avvolto le strade dove le torce rimanevano spente per non dare punti di riferimento ai nemici. Un uomo solo con un sacco sulle spalle e un altro sotto il braccio era un bersaglio facile per i ladruncoli e i tagliagole che si aggiravano nella zona del porto. Si augurò di non doverne affrontare qualcuno. Non sarebbe stato certo un problema sbarazzarsi di loro per un mago come lui. Sarebbe bastata una piccola dose di magia per rendere innocuo anche il più temibile malfattore ma era proprio ciò che voleva evitare, visto che avrebbe finito con il rivelare quale via avesse scelto per lasciare il regno. Fortunatamente quella sera era particolarmente tranquilla e incontrò solo qualche uomo che faceva rientro alla propria abitazione con passo malfermo dopo aver ecceduto con il vino di scarsa qualità che si serviva nelle osterie del porto e che non lo degnò neppure di uno sguardo. Raggiunse l'area dei moli e notò una grossa nave da carico, la - Vallary - , che stava ultimando le operazioni di imbarco, preparandosi a salpare nel giro di poche ore. Si avvicinò alla passerella che consentiva l'accesso al ponte principale e fu immediatamente fermato da un uomo gigantesco dalla testa rasata e da muscoli che parevano impazienti di essere messi alla prova. - Ehi tu, dove credi di andare ? - lo apostrofò con le braccia conserte e le gambe leggermente divaricate in segno di sfida. - Devo parlare con il comandante - rispose calmo Eventhon, sostenendo lo sguardo dell'omone. - Certo, qui tutti devono parlare con il comandante. Trovami una valida ragione per cui dovrei lasciarti passare o ti ritroverai a far compagnia ai pesci - fu la secca risposta che ricevette. Eventhon decise che non poteva perdere tempo con quell'energumeno e sollevò leggermente la mano sinistra pronunciando a bassa voce due sole parole, poi proseguì tranquillo sulla passerella sino a salire a bordo, passando a fianco del suo interlocutore il quale non accennò neppure ad una sola mossa. Si guardò intorno ma nessun altro comparve a bloccare il suo cammino per cui si diresse alla ricerca di quella che doveva essere la cabina del comandante. Non fu difficile individuarla e Eventhon bussò con discrezione senza mai abbandonare i due sacchi che recava con sé. Dall'interno giunse una voce che lo invitava ad entrare. Spalancò la porta e si ritrovò di fronte un uomo sul cui volto abbronzato facevano bella mostra i segni di una vita trascorsa in mare. La camicia bianca sbottonata sino a metà lasciava intravedere alcune cicatrici, ricordo di qualche discussione finita male o di qualche incontro con individui animati da intenzioni non proprio amichevoli. La lunga chioma grigia era raccolta dietro la nuca e trattenuta da un nastro in modo da formare una coda che spuntava da sotto un cappello il cui colore originario doveva essere blu ma che ora era faticoso determinare con certezza. I due si guardarono per un istante e poi fu il comandante a rompere il silenzio: - Cosa diavolo ci fate qui ? - esclamò per poi, subito dopo, urlare: - Samon, dove sei ? Perché lo hai fatto passare ? - Eventhon concluse che Samon doveva essere il simpatico gigante che gli aveva sbarrato la strada e che stava ancora ammirando lo spettacolo del porto nella più totale immobilità - Comandante, permetta che mi presenti e mi scusi per l'intrusione. Sono il mago Eventhon e per quanto riguarda il suo uomo credo sarà in grado di riprendere il suo lavoro tra meno di un'ora - A quelle parole il comandante trasalì. Aveva sentito parlare di Eventhon il mago, ma l'ultima cosa che si immaginava era di ritrovarselo di fronte proprio in prossimità della partenza dopo aver imbarcato un carico sulla cui provenienza era meglio non indagare troppo a lungo - Sono il comandante Venter e se venite per conto del Signore del castello, bene, sappiate che qui non abbiamo nulla da nascondere - Il comandante era un bravo attore, chissà quante volte si era trovato a dover recitare una parte di fronte alle autorità, ma ad Eventhon non sfuggì la tensione che traspariva dal tono della sua voce - Tranquillo comandante, non sono qui per indagare sulla liceità dei vostri traffici, sono solo alla ricerca di un posto sulla vostra nave. Un mago a bordo fa sempre comodo: non è vero comandante ? - Venter era un tipo sveglio e non perse tempo a fare domande sul perché Eventhon volesse lasciare quelle terre. Aveva subito intuito come il mago fosse a conoscenza della natura del carico e non era proprio il caso di intavolare una discussione sul fatto che si trattasse di merce già pagata e da consegnare al castello ma che invece avrebbe ripreso la via del mare per essere rivenduta in qualche altro porto. Era vero: un mago a bordo era sempre il benvenuto e nella stretta di mano che ne seguì era dato per scontato che ognuno avrebbe tenuto per sé i propri segreti e si sarebbe guardato bene dal rivelarli. Ad Eventhon fu assegnata una piccola cabina a fianco di quella del comandante dove riuscì a trovare una sistemazione ottimale per sé e per il piccolo che trovò alloggio in una comoda amaca costruita con pezzi di stoffa procurati dal comandante in persona. La notizia della presenza di un mago a bordo si diffuse rapidamente tra l'equipaggio subito dopo la partenza da un porto che nessuno di loro, per ovvie ragioni, avrebbe più rivisto, contribuendo a rallegrare lo spirito di uomini abituati ad affrontare ogni sorta di difficoltà e di avventura. Navigarono per tre settimane prima di attraccare in un porto dove rimasero per tre giorni, il tempo necessario per far divertire gli uomini nelle taverne del porto e consentire al comandate di fare ottimi affari. Quando ripartirono la nave era più leggera avendo scaricato più merce di quanta ne avesse riportata a bordo, per cui fu possibile procedere ad una maggiore velocità grazie anche alla spinta di venti favorevoli. Oltrepassarono isole sperdute nell'immensità dell'oceano e attraccarono in svariati porti, sempre riuscendo a spuntare affari vantaggiosi ed evitando di incrociare pirati a caccia di navi da depredare. Si generò così in tutto l'equipaggio la convinzione che la presenza di un mago a bordo fosse di buon auspicio e portasse loro quella fortuna che, ultimamente, pareva aver rivolto altrove le sue attenzioni. Il fatto che Eventhon avesse con sé un bimbo in fasce non rimase a lungo un segreto, ma nessuno osò porre domande a Eventhon. Gli uomini di mare erano notoriamente superstiziosi ma anche timorosi di tutto ciò ove aleggiasse la magia, figurarsi nei confronti di un mago in persona, per cui si rivolgevano a lui in modo rispettoso ma distaccato e nessuno ebbe mai il coraggio di affrontare l'argomento. Pure tra loro evitavano di parlarne Il bimbo intanto cresceva rapidamente e godeva di ottima salute. Eventhon aveva deciso di chiarmarlo Sulladin proprio come il suo primo figlio. Sulladin era molto vivace e aveva cominciato anche a poggiare i piedini per terra e a muovere qualche timido passo sempre sorretto da un Eventhon, premuroso e attento. Navigavano ormai da più di cinque mesi, ma mai Eventhon aveva avvertito il chiaro presentimento che il loro viaggio fosse giunto a destinazione e che uno dei tanti porti che avevano visitato fosse quello dove stabilirsi per far crescere il piccolo e iniziare il suo addestramento. Tutto questo finché una mattina caratterizzata da un pallido sole, basso sulla linea dell'orizzonte a lasciar presagire la fine dell'autunno e l'imminente sopraggiungere della stagione più fredda, giunse il grido di un marinaio che aveva avvistato la terraferma. O almeno credeva di averla avvistata perché, nonostante la giornata fosse limpida e la visibilità perfetta, l'immagine di una costa rocciosa appariva e poi sembrava scomparire lasciando posto al nulla più assoluto. Tutti si riversarono in coperta ad osservare lo strano fenomeno, meno Eventhon che aveva subito capito di cosa si trattasse. Il comandante consultò rapidamente le sue carte e scosse la testa dopo aver appurato che in quel punto non vi era terra alcuna. Controllò più volte ma non vi era alcun errore, quello cui stavano assistendo era una specie di miraggio. Fu molto sorpreso quando Eventhon bussò alla porta della cabina per comunicargli la sua decisione di sbarcare e di stabilirsi nella terra appena avvistata. - Ma come ? Non c'è nessuna isola, solo il nulla più assoluto: controlla tu stesso le carte ! - rispose rimanendo chinato sulle carte e invitando Eventhon a prendere posto al suo fianco. Eventhon non aveva dubbi, quell'isola esisteva e lui aveva finalmente trovato il posto che stava cercando, quindi doveva sbarcare. - Mi dispiace comandante, ma il mio viaggio finisce qui. Dia ordine ai suoi uomini di dirigersi verso l'isola e di prepararsi a gettare l'ancora - Il tono di Eventhon non ammetteva repliche e il comandante Venter sapeva bene che non aveva modo di mettersi contro la volontà di un mago. Con riluttanza chiamò Samon e gli comunicò le sue intenzioni - Faremo rotta verso quell'isola che abbiamo avvistato e, ammesso che esista, getteremo l'ancora nel punto più vicino alla costa. Nel caso, sbarcheremo per procurarci delle provviste e fare rifornimento di acqua, ma ripartiremo il più in fretta possibile - Il comandante, tanto farabutto quanto lesto di cervello, concluse tra sé che se Eventhon aveva deciso di stabilirsi in quel posto ignorato dalle carte e sconosciuto al mondo da cui provenivano non sarebbe stato certo lui a fermarlo, ma nel suo animo era rammaricato di fronte alla prospettiva di perdere un membro dell'equipaggio così autorevole e che aveva portato tanta fortuna alla sua nave nel tempo in cui era rimasto a bordo. - Allora hai proprio deciso mago. Va bene, se questa è la tua decisione non posso certo costringerti a restare a bordo - fu il commento del comandante Venter mentre Eventhon si apprestava a lasciare la sua cabina. Eventhon si fermò e si voltò a fissare il comandante per qualche istante prima di ribattere a bassa voce - Comandante, voi non potete capire, ma su quell'isola c'è proprio quello che un mago come me andava cercando e non aveva ancora trovato - L'isola esisteva e quando furono ad una distanza di circa due miglia marine l'immagine divenne nitida e ferma. Di fronte a loro si estendeva una vasta isola dominata a est da un monte roccioso, mentre a ovest si estendevano verdi colline. Si diressero verso una baia sul cui sfondo si scorgeva un villaggio, probabilmente di pescatori, visto che il loro arrivo fu salutato dall'arrivo di piccole barche da pesca, mentre non vi era traccia di navi da guerra a protezione dell'isola o di torri di avvistamento che dessero l'allarme. Eventhon e Sulladin lasciarono la Vallary sotto gli sguardi silenziosi di tutto l'equipaggio per prendere posto su una scialuppa che li avrebbe condotti a terra. Samon, il gigante, si era molto affezionato al bimbo e la separazione gli costò tanta fatica per ricacciare in gola il groppo che si era formato e che rischiava di far vacillare la fama di uomo duro che si era guadagnato tra i suoi compagni di avventura. Fu così che Eventhon e il piccolo Sulladin iniziarono una nuova fase della loro vita in un posto del quale non conoscevano nemmeno il nome. ...... 3. Il giorno seguente la tempesta che aveva investito le Terre di Lendon aveva lasciato il posto ad un pallido sole che preannunciava l'approssimarsi della seconda stagione. I segni dalla forza della natura erano evidenti: negli avallamenti dei prati ristagnavano enormi pozzanghere causate dalle piogge torrenziali e dallo straripamento del fiume che scendeva impetuoso dalle pendici del monte Busir; i sentieri erano ingombri di rami spezzati e di pietre di svariate dimensioni franate dalle pendici del monte; alberi sradicati giacevano adagiati su un fianco, caduti sotto la spinta incessante delle raffiche di vento. Ci sarebbe stato molto lavoro per gli abitanti del villaggio dei Falegnami per ripristinare la situazione, ma la protezione garantita dalla magia di Eventhon aveva funzionato anche in quella occasione. La natura aveva appena dato un'ampia dimostrazione della sua forza ma non si registrava alcun danno a uomini e costruzioni in tutte le Terre di Lendon. La casetta dove vivevano Eventhon e Sulladin sorgeva in una radura al centro di una fitta boscaglia alle pendici del Monte Busir, non molto distante dal villaggio dei Falegnami. Era stato Eventhon in persona a scegliere quel luogo, ritenendo che fosse il posto giusto per stabilirsi con Sulladin e procedere alla sua istruzione visto che vi erano tutti gli elementi necessari per sviluppare le doti magiche del bambino: l'acqua del vicino fiume, le pietre della montagna, il legno degli alberi, un'aria frizzante proveniente dall'oceano, terra fertile in abbondanza e anche neve in alcuni momenti della seconda stagione. La magia di Eventhon e Sulladin e del loro predecessore Mendes era del tipo che si alimentava grazie al contatto con la natura e veniva definita di tipo protettivo in quanto poteva essere utilizzata allo scopo di consentire agli uomini di trarre il massimo vantaggio dalle risorse naturali, a patto di rispettare la natura in tutte le sue espressioni. Eventhon non aveva incontrato difficoltà nello spiegare al consiglio dei sette e agli abitanti delle Terre di Lendon i fondamenti della sua magia e di come fosse indispensabile la loro collaborazione per ottenerne la massima efficacia, in quanto si ritrovò a ripetere concetti che Mendes aveva espresso all'infinito e che erano ormai entrati tra le abitudini di vita quotidiana. Una semplice regole come il piantare un nuovo albero dopo averne abbattuto uno, contribuiva a mantenere inalterato il patrimonio boschivo e assicurava legno in abbondanza. La pesca veniva praticata in maniera selettiva e non durante la stagione della riproduzione, mentre i pesci troppo piccoli per essere utilizzati o non commestibili venivano ributtati in mare. Le coltivazioni venivano ruotate periodicamente e alcuni appezzamenti venivano lasciati incolti per alcune stagioni in modo da evitare l'impoverimento della terra e consentirle di rigenerarsi in previsione di nuove coltivazioni. Quel mattino Eventhon e Sulladin uscirono presto e dall'alto di una collina osservavano la piana sottostante dove il fiume andava a gettarsi nel lago Niam. - E' proprio in momenti come questo che la nostra magia è più viva. La natura si è appena scatenata e ha rimesso le cose a posto dal suo punto di vista e noi possiamo attingere liberamente da tutta l'energia che ne scaturisce - fu Eventhon a rompere il silenzio e a rivolgersi a Sulladin. - E' proprio così, maestro Eventhon. Non vedo l'ora di entrare in azione - rispose Sulladin che non riusciva a stare fermo e continuava a sollecitare il suo cavallo ad impennarsi sulle zampe posteriori come stesse per lanciarlo in un galoppo sfrenato. Eventhon sentiva che i suoi poteri non sarebbero durati ancora a lungo e gli occorreva un tempo maggiore per portare a termine un incantesimo, ma anche lui poteva ancora avvertire gli effetti di una tempesta come quella del giorno precedente. Per Sulladin invece era diverso. Il giovane era euforico e si sentiva impaziente di lanciarsi in qualsiasi sfida. Imparare a controllare la propria magia si rivelava un compito più arduo dell'apprendimento della stessa. Alcuni maghi, in momenti come quello, si lasciavano trasportare e finivano col perdere il controllo della situazione, commettendo errori che potevano costare loro un prezzo molto alto. Era proprio questo che Eventhon cercava di insegnare a Sulladin: come mantenere sempre il controllo di sé stessi anche quando la magia sembrava chiedere a gran voce di essere liberata. - E' proprio questo l'errore che devi evitare. La magia non deve essere utilizzata a nostro piacimento e, soprattutto se non vi è una ragione. Ora ti senti forte e invincibile, ma sappi che sei la stessa persona che ieri sera avrebbe voluto essere al villaggio in compagnia di una qualche fanciulla, invece che a casa con un vecchio come me - L'allusione a Harviel colse Sulladin di sorpresa e, da ragazzo quale era, arrossì visibilmente. Eventhon ottenne l'effetto sperato perché Sulladin, visibilmente imbarazzato, sembrò riprendere il controllo e mosse il suo cavallo di qualche passo verso sinistra in modo da sottrarsi allo sguardo di Eventhon e non dover mostrare il proprio disagio. - Ricordati, mai lasciare che la magia abbia il sopravvento. Devi essere tu a dominare lei e non il contrario. Solo così eviterai di commettere errori che potrebbero anche costarti la vita. Respira profondamente e usa la magia per ritrovare la calma interiore - disse Eventhon, assumendo una posizione così eretta sulla sua cavalcatura da sembrare un uomo nel pieno delle forze. - La magia può essere pericolosa se non incanalata a dovere. Vi saranno momenti in cui ne avrai troppo poca e altri, come questo, in cui ne avrai in eccesso. Impara ad usare la tua mente come fosse un magazzino dove riporre quella che non ti serve in vista di tempi in cui ti ritroverai a dover attingere dalle scorte che hai creato - - Quando avevo solo qualche anno più di te e avevo da poco completato il mio addestramento, un giorno mi ritrovai a transitare per un villaggio che, durante la notte, fu assalito da un gruppo di predoni. Si trattava in maggioranza di contadini e artigiani che non potevano contrastare la furia di uomini armati fino ai denti, il cui unico scopo era quello di depredare le case e rapire donne e bambini da rivendere come schiavi - - I pochi soldati a difesa del villaggio furono subito uccisi e io non ebbi modo di aiutare quella gente perché la sera avevo speso tutte le mie riserve di magia per pavoneggiarmi con alcune ragazze del villaggio. Avevo creato incantesimi di ogni sorta, senza badare a quanta energia stavo consumando, solo per poter mostrare loro quanto era bravo a differenza degli altri ragazzi che sapevano solo aiutare le loro famiglie nei campi o nei laboratori - - Avrei dovuto essere io la loro difesa, invece non mi restò che darmela a gambe ed assistere da lontano alla distruzione del villaggio. Quando i predoni se ne furono andati, tornai indietro e trovai una delle ragazze che avevo deliziato con i miei incantesimi che giaceva in mezzo alla strada uccisa da un colpo di spada dopo un disperato tentativo di fuga. Cercai di aiutare i feriti ma fui costretto ad andarmene quando qualcuno mi riconobbe e mi accusò apertamente, in quanto mago, di non aver neppure tentato di difenderli - - Quel giorno ebbi una chiara dimostrazione del perché la magia non vada mai sprecata. Avrei potuto salvare delle vite e invece la mia vanità giovanile mi giocò uno scherzo crudele. Quindi anche tu, ora che hai magia in abbondanza, vedi di non usarla per scopi dei quali potresti pentirti, ma cerca di conservarla per quando ti potrebbe servire - - Concentrati, libera la tua mente da ogni pensiero e lascia che la magia fluisca in te - Eventhon si concentrò come se dovesse procedere, ben sapendo che, per questi sforzi potesse compiere, su di lui non vi sarebbe stato alcun effetto. Seguirono alcuni minuti di silenzio dove i soli rumori erano rappresentati dal ronzio di qualche insetto che si avvicinava per osservare da vicino la scena dei due uomini a cavallo. - Non ci riesco. Non riesco a incanalare un bel niente !Ho solo volato un po' qui intorno come fossi una piccola ape - sbottò ad un certo punto Sulladin, facendo spostare il suo cavallo in modo da portarlo a fianco di quello di Eventhon. - Calma Sulladin, non è così facile come a dirsi. Mantieni la tua mente sgombra per un po', senza lasciarla allontanare da te e poi ordina alla magia di entrare. Quando questo avverrà avvertirai una sensazione di calore in tutto il corpo - fu il consiglio di Eventhon. Il rischio in questo caso era che la mente sgombra da ogni pensiero iniziasse a fluttuare fuori dal corpo e venisse distratta dall'ambiente circostante. Una caratteristica dei maghi come Eventhon e Sulladin era quella di poter assumere i connotati di ogni essere vivente per sfruttarne le caratteristiche. In pratica essi potevano osservare quanto accadeva in lontananza librandosi in aria come falchi, potevano nuotare come pesci o scavare sotto terra come talpe, ma per fare ciò occorreva un grande controllo della propria mente. In soggetti non troppo allenati poteva accadere che si verificassero trasformazioni impreviste che pregiudicavano il risultato ed era proprio ciò di cui si lamentava Sulladin. Non era riuscito a controllarsi a dovere e la sua mente aveva vagato di fiore in fiore sotto forma di ape. - Riprova. Comincia ad afferrare saldamente il controllo della tua mente e poi cerca di incamerare la magia, ma solo quando ti senti sicuro - lo esortò Eventhon. Ci vollero quasi due ore prima che Sulladin riuscisse a completare il suo compito. Lo sforzo gli era costato caro e ora appariva molto affaticato. Un pasto abbondante avrebbe rimesso le cose a posto e consentito di recuperare le energie perse nel concentrarsi. - Vieni, un bel piatto di stufato è quello che ci vuole. Che ne dici di fare un salto alla taverna del villaggio ? - disse Eventhon con un sorriso malizioso. Sulladin lo guardò stupito ma non rispose, limitandosi a spronare il suo cavallo giù dal pendio in direzione del villaggio dei Falegnami, ritrovando improvvisamente vigore ed energia. Chissà, se fosse stato fortunato avrebbe potuto incontrare Harviel. Eventhon lo guardò allontanarsi e si apprestò a seguirlo ad una andatura più consona ad un vecchio di quasi 250 anni di età. Gli era molto chiaro quale molla spingesse Sulladin a galoppare entusiasta verso il villaggio dei Falegnami, lui però era mosso da altre intenzioni: doveva incontrare Landax, capo del villaggio dei Falegnami, per parlargli di una questione da sottoporre al consiglio dei sette. Fu quasi lieto che Sulladin si fosse allontanato con tanta sollecitudine, così non avrebbe dovuto giustificare l'espressione pensierosa che adombrava il suo volto. ..... 4. La pioggia era cessata da alcune ore e il sole era già alto sull'orizzonte, anche se il calore irradiato non era sufficiente a riscaldare le membra intorpidite dell'uomo che giaceva ancora riverso con la faccia poggiata sulla sabbia della spiaggia su cui era naufragato. Si risvegliò lentamente allo sbattere delle ali di un grosso gabbiano che si era posato non troppo lontano da lui e lo guardava incuriosito per capire se avrebbe potuto banchettare con quella strana cosa che giaceva immobile. Mosse dapprima un braccio, poi l'altro e infine fu la volta della gambe, anche se il tentativo di rigirarsi per mettersi a sedere gli costò una enorme fatica e un dolore diffuso in tutto il corpo. Il gabbiano si alzò in volo deluso alla ricerca di altro cibo e l'uomo tentò di sorreggersi con le mani, ma un dolore acuto ad entrambi i palmi gli ricordò la lotta con le rocce appuntite degli scogli. Il dolore ebbe il sopravvento e con un'ultima smorfia ripiegò le braccia in modo da poggiare sui gomiti, per poi concludere che lo sforzo richiesto era eccessivo in proporzione alla sue forze e lasciarsi ricadere di schiena sulla sabbia. Istintivamente portò le mani allo strano medaglione nero che portava al collo e, nel saggiarne la consistenza, pensò alla fortuna di non averlo perso in mare. Senza quel medaglione la sua vita poteva considerarsi conclusa. Lasciò la presa sul medaglione e sollevò le mani a guardare le ferite e cercò di ripulirle dalla sabbia che le ricopriva. Anche le sue gambe non erano in uno stato migliore e il resto del corpo non faceva differenza. Da quella posizione supina cercò di farsi un'idea di dove si trovasse. Era steso di fronte al mare e piegando la testa all'indietro poteva vedere una ripida parete di roccia scura dell'altezza di circa una ventina di metri. La spiaggia sulla quale si trovava era di dimensioni ridotte, una striscia di sabbia sotto lo strapiombo della lunghezza di circa trenta metri, riparata in parte da una sporgenza rocciosa che si estendeva in acqua a formare una piccola insenatura. Constatò la sua fortuna nell'essere naufragato proprio all'altezza di quella piccola spiaggia anziché essere andato a sbattere sulla nuda roccia. Di fronte a sé alcuni scogli sporgevano minacciosi dall'acqua, imbiancati dagli escrementi di quei gabbiani che li utilizzavano come basi di partenza per le loro scorribande alla ricerca di pesce fresco. Doveva trovare il modo di lasciare quella spiaggia. Il sole non sarebbe durato ancora a lungo, la notte si preannunciava fredda e umida e lui non poteva pensare di trascorrerne un'altra in quelle condizioni. Aveva bisogno di un bagno caldo, di un guaritore, di vestiti puliti e, soprattutto, di mettere qualcosa sotto i denti. Doveva alzarsi e cercare una via d'uscita. Provò a sedersi e, con fatica, ci riuscì. Rimettersi in piedi fu invece un'impresa più ardua. Le gambe gli tremavano e dovette fare ricorso a tutte le energie rimaste per non ricadere dopo che la vista gli si annebbiò per qualche istante provocandogli un senso di mancamento. Si mantenne eretto e mosse qualche passo malfermo verso la roccia alla ricerca di qualche appiglio. Sorreggendosi con una mano ad una roccia arrotondata ispezionò la parete, ma, non gli restò che constatare l'assenza di una qualsiasi via che conducesse in cima. Non ci volle molto per concludere che, nelle sue condizioni, scalare quella parete era un'idea assolutamente da scartare. Non restava che la via del mare, anche se la sola idea di rimettere piede in acqua lo fece rabbrividire. Fece qualche passo avvicinandosi all'acqua, quando, con suo grande stupore, da dietro il promontorio roccioso che riparava la spiaggia, vide comparire, a una distanza di circa cento metri dalla riva, una piccola barca da pesca con a bordo due uomini. Osservò la barca a bocca aperta e, solo dopo qualche istante, realizzò che la fortuna lo stava ancora assistendo e che il debito che andava contraendo con lei rischiava di diventare particolarmente oneroso. Doveva solo riuscire ad attirare l'attenzione dei due pescatori che parevano non averlo notato impegnati com'erano, l'uno, ad allontanare la barca dagli scogli per mezzo di un lungo palo di legno e l'altro a governare il timone seguendo le indicazioni dell'uomo a prua. Il naufrago urlò con quanto fiato aveva a disposizione agitando le braccia per richiamare l'attenzione, ma quanto uscì dalla sua gola era paragonabile ad un rantolo che finì inghiottito dal rumore della risacca. La barca si stava allontanando, doveva inventarsi qualcosa per non perdere un'occasione di salvezza che non sapeva se e quando gli si sarebbe ripresentata. Impugnò un pezzo di legno raccolto sulla sabbia e lo lanciò verso la barca, riprovando ad urlare. Questa volta il risultato fu decisamente migliore: ne uscì un lamento disperato che, unito al rumore dell'impatto del legno sull'acqua, attirò l'attenzione di uno dei due pescatori. L'uomo a prua volse lo sguardo a riva e, non appena individuato il responsabile, fece cenno al suo compagno che diresse subito la barca verso la riva. I due non potevano avvicinarsi troppo per non rischiare di essere sbattuti dalle onde contro gli scogli e finire a far compagnia a quel pazzo che si agitava sulla spiaggia. Si portarono alla distanza minima consentita dalle condizioni del mare e dagli scogli e fecero cenno al naufrago di raggiungerli. Questi capì che i due non avevano alcuna intenzione di correre altri rischi per salvarlo e quindi, a passo malfermo, si avvicinò a quell'acqua che si era ripromesso di evitare per tutto il resto della sua vita. Rabbrividì di freddo non appena i suoi piedi scalzi furono a contatto con l'acqua ma non aveva alternative: doveva percorrere quei pochi metri che lo separavano dalla barca e poi sarebbe stato salvo. Proseguì nell'acqua con passi ravvicinati e incerti e ognuno gli costava una enorme fatica visto che i suoi piedi sprofondavano nella sabbia del fondo sino a trovare i piccoli sassi appuntiti che gli procurarono altro dolore. Gli sembrava di non riuscire ad avanzare e ci mise molto tempo a giungere in prossimità dello scoglio che si parava di fronte a lui e lo separava dalla barca. Decise di aggirarlo passando a destra e quando l'acqua fu abbastanza alta da consentirglielo si spinse in avanti sollevando i piedi nel tentativo di procedere a nuoto. Superò lo scoglio e pochi metri lo separavano dalla barca e si trovò a dover fare i conti con la corrente che, superati gli scogli, sembrava volerlo rimandare dove era venuto. Dalla barca capirono le sue difficoltà e uno dei due pescatori non esitò a tuffarsi per andare in suo soccorso. Con poche possenti bracciate lo raggiunse e lo rigirò come un fantoccio sino ad afferrarlo sotto le ascelle con il braccio destro e a fare ritorno verso la barca dove lo attendeva il suo compagno. Il naufrago era allo stremo delle forze. Aver percorso il breve tempo di mare lo aveva prosciugato delle energie residue e non ebbe la forza di issarsi a bordo da solo. Fu così sorpreso nel vedere che il compagno del pescatore che si era gettato per recuperarlo, non era un uomo ma bensì una donna. Una donna robusta e muscolosa con capelli corti e la carnagione scurita da una vita trascorsa sul mare che non ebbe alcuna difficoltà ad afferrarlo e a trascinarlo a bordo. Il suo compagno risalì a bordo senza difficoltà facendo oscillare la barca e subito i due si dedicarono alle cure di chi avevano appena salvato. La donna si rivolse a lui: - Come ti chiami amico ? - - Karshan - - Cosa ci facevi su quella spiaggia ? Sei naufragato con la tempesta della scorsa notte ? - - Sì - - Ma tu non sei di queste parti. Da dove vieni ? Come hai fatto ad arrivare sino qui ? - Queste erano domande che prevedevano una risposta non limitata a pochi monosillabi e lui non aveva la forza di articolare un discorso complesso. Quindi sviò la discussione e chiese - Acqua. Ho sete - Immediatamente i due che dovevano essere marito e moglie scattarono verso la piccola botte contenente l'acqua potabile e riempirono un bicchiere di legno che, a giudicare dal suo aspetto, doveva essere stato tramandato di generazione in generazione. Bevve avidamente il contenuto e ne chiese dell'altro e dell'altro ancora sino a che cominciò ad avvertire una sensazione di sollievo. - E' troppo debole. Dobbiamo portarlo al villaggio - disse la donna. L'uomo si limitò ad annuire e si rialzò per ritornare al suo posto di manovra. Improvvisamente si fermò e chiese al naufrago - Non sappiamo neppure il tuo nome. Riesci a dirci come ti chiami ? Io sono Carson e lei è mia moglie Lucinda - - Karshan, sono Karshan - rispose con un filo di voce prima di sprofondare in un sonno pesante, stringendo nella mano destra il medaglione nero.
P. Sacchi
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