La realtà ha un difetto di pronuncia
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Cavallette sbronze.
“Ma il vino è finito??” Ci saranno almeno 40 persone, dislocate per tutta casa. Lo stereo a palla, I Police:” Walking on the Moon” 5 febbraio, compleanno di Antonella, un'amica alla quale, da circa un anno, ho affittato una stanza, quella dei nonni. Il lavoro di assistente domiciliare non basta; devo arrotondare. 40 persone che parlano, urlano, ballano, ridono, bevono, soprattutto bevono. Questa casa è sempre stata aperta a tutti, un porto di mare, tipo “Speriamo che sia femmina”. Ma, una cosa sono i miei amici, un'altra, quelli di Antonella. Io non sono classista, non troppo, almeno, ma, riguardo le amicizie, sono molto selettivo. Queste persone sono grossolane, volgari, triviali e invadenti, soprattutto invadenti. Non le sopporto. “Tutti questi libri sono tuoi?” La tipa, biondina, si palesa dal nulla. Non l'ho mai vista, nonostante conosca quasi tutti gli amici di Antonella. Tacchi alti, gonna corta, slanciata, occhi chiari, acquosi; un profumo vischioso, che offende il mio olfatto. Il bicchiere che tiene, languida, nella destra, è quasi vuoto ed infatti è brilla, decisamente brilla. “Si.” “E li hai letti tutti??” No, sono lì per fare scena. Trovo sempre l'idiota che mi fa questa domanda. “Quasi tutti.” “Ah, però! Oralità e scrittura... di che parla?” Cazzo!, il testo di WJ Ong. Fantastico, illuminante, ci ho sudato sopra per un mese. Il profondo cambiamento dovuto al passaggio dalla cultura orale a quella scritta e l'importanza dei media nei nostri stessi processi cognitivi.... “Il mezzo è il messaggio” M. McLuhan. E, tutto ciò, dovrei spiegarlo a questa qui?? “Sinceramente non ricordo...” ‘fanculo. Che noia se il mondo fosse un posto intelligente! “Ah, ok. Ma è tosto?” Almeno quanto la tua zucca di legno; il vino mi rende cattivo. “Si, abbastanza...” La biondina non è una cima, ma è carina, con un bel paio di cosce che mette orgogliosamente in mostra. Io, al solito, rimango del tutto indifferente, soprattutto se le gambe non sono appaiate ad un cervello vivace. “Da quanto conosci Antonella? Non ti ho mai visto a Monteverde” la malizia si fa strada in quello sguardo ottuso. Rimette a posto il libro. “Circa... tre anni, e no, vengo raramente a Monteverde...” “Cos'è che studi?” “Sociologia...” Non so proprio come uscire da questa brillante conversazione. Penso che si debba smettere con lo stereotipo – bionda, carina= stupida -. Dobbiamo smettere? Magari non oggi. “Ma la mia vera passione è la musica”, ho ingurgitato due bicchieri di prosecco, di fila, mi sono sciolto; vuoi giocare?, bene, giochiamo. “Ah, bene. Posso vedere i tuoi dischi?” “Certo, vieni...” ed entriamo in camera mia. Chiudo a chiave la porta senza che lei se ne accorga. E' una festa, festeggiamo. Miles Davis sul piatto, lei si siede sul letto:” Vieni qui, dai, non ti mangio mica” biascica. No, decisamente non mi mangerai, non ci riusciresti, sono indigesto, a volte. Le sfilo la gonna, rapido, le abbasso le mutandine, le affondo la faccia tra le gambe. Lei ha un ansito; la bacio a lungo, lei mi afferra la testa, se la preme contro, inarca la schiena, le scappa un gridolino. Risalgo, le mordo i capezzoli, forte (non c'è tenerezza in quello che faccio, ma lei non ci fa caso). Mi sfila i boxer, mi fa salire sopra di lei, mi fa entrare in lei, guidandomi con la mano, impaziente. Il respiro sempre più forte, sempre più corto. Le graffio la schiena, quasi con cattiveria, lei mugola di piacere, i movimenti si fanno più convulsi, mi mette le mani sul sedere e spinge, sempre più forte... e finisce, con un sospiro rumoroso. Mi ritraggo subito, comincio a rivestirmi, lei è perplessa: “ma cosa fai, no, dai, e tu?” “Va bene così”, le rispondo, secco. La lascio così, semi nuda, con un interrogativo stampato in faccia, ed esco dalla stanza. “Ohi, Davide, hai visto Ilaria?” Antonella, anche lei non proprio lucida “Chi??” “Quella mia amica, alta, bionda...” “Non la conosco, non saprei” mi metto la giacca ed infilo la porta di casa, mentre Sting sta intonando “Roxanne” a gola spiegata.
Nella buona e nella cattiva sorte (vuoi tu...?)
Basilica dei Santi Pietro e Paolo, quartiere EUR, sud di Roma. Un monumento bianco, imponente, stile fascista. Un novembre caldo, quello del 1961, gran parte degli invitati è già dentro. Fuori si sono formati i soliti “capannelli” di amici e parenti, eccitati (perché, poi?) Amici dello sposo si amalgamano ad amici della sposa. Si viene ai matrimoni anche con la speranza di rimorchiare. Persone che non si vedono da secoli, si salutano calorosamente, vengono fatte presentazioni, sorgono dubbi riguardo all'identità di alcuni:” Ma sarà proprio lui??” “Ma chi? Luigi?” “Eh,” “Ma no, dai, era magro come uno scheletro, e aveva un mare di capelli...” Giulio, accompagnato dalla fidanzata, Daniela, nonché sorella di Stefano, si guarda intorno, curioso e intrigato. Stefano è già alla quinta sigaretta, passeggia avanti e indietro, davanti la facciata, in cima ai gradoni che conducono all'ingresso. Maria, la madre della sposa, elargisce ampi sorrisi a tutti, amici e sconosciuti. A tutti tranne a Stefano. Le suocere, si sa.... Lucia, la madre dello sposo, invece, è sempre stata avara, di sorrisi, e oggi specialmente, non trova alcun motivo per farlo. Una bella donna, come tutte le Eritree; una donna forte, severa, l'aria distinta. Ha un bel vestito giallo senape, sotto il quale, la sua pelle scura risalta parecchio.
Un ristorante sul litorale romano: siamo alla terza portata, le cravatte sono allentate, le cinture, anche. L'orchestrina alterna Achille Togliani ai classici “stornelli romaneschi” Una lunghissima sequenza di brindisi: agli sposi, ovvio, al cuoco, alle pappardelle, ai camerieri... Stefano ha brindato sempre, ma proprio sempre, con aranciata; come poteva finire bene?? “Ste, ma che fine avevi fatto?” Giulio lo ha raggiunto al bar del ristorante “Niente, ero al telefono...” “Ma come, al telefono?? Con chi??” “Ma niente... Dora...” “Ma sei matto??” “Diciamo una telefonata d'addio...In fondo, glielo dovevo, dai...” “Torniamo di là”
“Che è successo?!” Sofia è distesa su un divano, pallida, quasi inerte. “Si è sentita male”, Maria le tiene sollevata la testa. “Chiamiamo un medico!” Giulio sta per andare a telefonare, ma Alfonso lo trattiene: “No, non serve, è passato, il peggio è passato” Sofia è malata. Epilessia. Il male di chi è caro agli Dei... sì, certo, come no. Un attacco epilettico è sconvolgente. In primis, per chi ne soffre, poi ,per chi sta loro vicino. Devastante. “Giulio, ma tu lo sapevi?” “No, Stefano, non lo sapevo.” “E adesso??”
L'epilessia (dal greco ἐπιληψία, "essere preso, colto di sorpresa"[1]) è una condizione neurologica caratterizzata da ricorrenti manifestazioni dette "crisi epilettiche".[2][3] Una crisi epilettica è una scarica parossistica, ossia improvvisa, di una popolazione di neuroni che contraggono tra loro sinapsi reciproche[non chiaro][4]. Questi eventi possono avere una durata abbastanza breve, tanto da passare quasi inosservati (solamente in rari casi), oppure possono prolungarsi per lunghi periodi[5]. La presenza di una singola crisi epilettica non è sufficiente per fare diagnosi di epilessia. L'epilessia si definisce, infatti, come una condizione clinica in cui le crisi epilettiche sono ricorrenti o è presente un alto rischio di ricorrenza.
Sofia ne soffre da parecchi anni; gli attacchi forti la sorprendono nel sonno. Si deve fare attenzione che la lingua non la soffochi, mettendole qualcosa in bocca. Una moglie gravemente malata, che potrebbe partorire un bambino nero. Stefano cerca, disperato, di svegliarsi da quello che, sicuramente, è un terribile incubo. Lui non voleva una moglie, di certo, non malata; non voleva un figlio, di sicuro non lo vuole nero. L'Universo intero cospira contro di lui.
4 dicembre 1961
Inizio oggi questo mio diario che avrei voluto e dovuto iniziare sin dal primo giorno del mio matrimonio, se non dal primo momento in cui conobbi Sofia. Se avessi tenuto un diario, anche compendiato, di tutto un mese di vita in comune con Sofia, sarei stato capace di rispondere alle molte domande che mi sono state rivolte ieri sera. Ieri sera, 3 dicembre 1961, i genitori di Sofia, e lei stessa, in qualità di concertatrice e coreografa, hanno sputato parole e accuse e insulti che nemmeno la fantasia più brillante avrebbe saputo trovare. Il pomeriggio di ieri mi ero recato da mio fratello Rinaldo per registrare alcuni dischi. Sofia non aveva potuto venire, (mai non aveva voluto venire) perché aspettava la visita di sua madre e sua cugina Ada. Sono rimasto da Rinaldo fino alle 20:30 circa, ora in cui una telefonata di mio suocero, con tono e modi imperiosi e niente affatto educati, chiedendo, prima direttamente a mio fratello e poi a me “che cosa avessi intenzione di fare”. Presentii qualcosa di molto spiacevole e tornai a casa. Non volli che Antonio, il quale mi aveva accompagnato in macchina, salisse con me. Non avevo paura e volevo dimostrarlo. Feci male perché nessun altro all'infuori di me poté bearsi del fiume di mostruosità di insulti, di calunnie che hanno riversato sulla mia persona. Non sono riuscito a parlare. Sofia, come una furia scatenata, iniziò la sua requisitoria esordendo con l'assurda, inconcepibile accusa che io avevo tentato di ucciderle il figlio in gestazione, tirandole dei calci durante la notte. In questo momento avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, avrebbe potuto dire che io ero un mostro e i suoi due magnifici genitori le avrebbero creduto. Il padre disse che gli avevo “fottuto” la figlia prima del matrimonio, ma dovette comunque riconoscere che fummo in due a volerlo. Non mi fu possibile rispondere, controbattere e difendermi. Non voglio, non debbo dimenticare ciò che mi si disse quella sera. I due urlavano come in un mercato rionale. Ed ecco, scarniti dagli aggettivi e avverbi, gli insulti più ricorrenti: delinquente, verme, negro, assassino, figlio di sguattera e lavapiatti, figlio di misero muratore, mi fai schifo, antropofago, incivile, ignorante, razza maledetta (mia madre è mulatta e questa è una delle moltissime ragioni per cui pongo mia madre al di sopra di qualsiasi altra donna in questo mondo), imbecille, ladro. Gli insulti (se posso chiamarli insulti) più ricorrenti erano quelli che si riferivano alla mia razza. Mi si accusò di trascurare la moglie perché non uscivo con lei (falso: in un mese siamo usciti almeno cinque volte) e perché mi dedicavo al registratore. Ora, più sereno, posso anche scherzare e ironizzare su tutto ciò, ma debbo francamente confessare che durante tutta “la rappresentazione”, che si protrasse dalle 21:00 alle 24:00, ero annichilito.
Marco Felici
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