Writer Officina - Biblioteca

Autore: Paolo Santoné
Attacco al cuore del potere
Thriller Fantapolitico
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Attacco al cuore del potere
Devozione.

7 Dicembre 2024, 10:00 Roma, Ostello delle Orsoline - 14 ore all'attacco.

Don Riva era eccitato e pregustava già le emozioni del giorno successivo: non solo avrebbe presenziato alla cerimonia di inaugurazione del Giubileo, in cui il Santo Padre avrebbe aperto la Porta Santa della basilica di San Pietro, ma in quest'occasione si sarebbe presentato anche alla testa della Confraternita del Santo Spirito, la sua creatura, riportata in vita dai fasti del XVII e XVIII secolo. Il Giubileo era l'occasione per presentare alle Gerarchie la sua organizzazione, che in Piemonte, specialmente nell'Astigiano e nel Cuneese, controllava numerose realtà socio-assistenziali del territorio. Economicamente era già una potenza, ma tramite le nuove entrature che aveva buone speranze di ottenere in Vaticano, grazie anche al sostegno promesso a un importante cardinale che aspirava a scalare ulteriormente le Gerarchie, avrebbe consolidato la sua posizione, ottenendo quel supporto politico e istituzionale che gli avrebbe conferito un monopolio quasi totale del ricco settore dell'assistenza ad anziani e disabili.
Satollo dopo l'ottima cena, innaffiata da un Sassicaia invecchiato dodici anni, si guardò intorno fischiettando nella lussuosa suite messa a sua disposizione dalla curia romana. Il pio convento di carità della Orsoline era stato recentemente trasformato in ostello di accoglienza per le iniziative della gioventù cattolica; questa era la destinazione ufficiale, per ragioni fiscali, tutto senza scopo di lucro, sulla carta, quindi i primi quattro piani ospitavano sobrie stanzette a uno o due letti, non molto più spaziose e confortevoli delle vecchie celle del convento, a parte il lusso del bagno in camera. L'ultimo piano però era stato riservato agli ospiti di riguardo, con sei spaziose suite di oltre centocinquanta metri quadri: ingresso, salottino con televisore al plasma che occupava mezza parete, ampio bagno con vasca idromassaggio, filodiffusione in ogni stanza, bar ampiamente fornito e, dulcis in fundo, camera con letto king size a baldacchino con cortine di damasco bordeaux scuro. Avrebbe potuto sembrare un boudoir della belle époque, se non fosse stato per l'enorme ritratto della vergine piangente che sovrastava l'ampio giaciglio.
Il Don si servì un'abbondante dose di grappa di Amarone invecchiata in barrique di rovere. Bevve un sorso e fece schioccare con soddisfazione la lingua sul palato. Si accomodò su una chaise longue in acciaio e pelle, incrociando le gambe. Per un attimo la sua mente tornò alla giovinezza: il seminario, non scelto per vocazione ma per strategia familiare; dei due fratelli maschi di famiglia contadina, arricchitasi grazie alla militanza fascista e alle speculazioni edilizie del dopoguerra, uno doveva percorrere la carriera politica e l'altro quella ecclesiastica, mentre le due sorelle inseguivano solide alleanze matrimoniali. A lui era toccato farsi prete. Era stata dura, i primi tempi, ma dopo il seminario la situazione era andata progressivamente migliorando. Ora a sessantotto anni, aveva accumulato fortuna e potere, viveva negli agi, pur senza rinunciare a qualche vezzo monacale di gioventù e memoria contadina, come dormire su un vello di montone o alzarsi all'alba. Sorrise tra sé, degustando un'altra sorsata del raffinato liquore.
Bussarono delicatamente alla porta. «Avanti» rispose il prelato.
L'uscio si aprì lentamente e una figura paludata di grigio entrò nel vestibolo.
«Vieni avanti mia cara. Sono nel salottino».
La figura ammantata avanzò fino a trovarsi davanti alla poltrona in cui stava adagiato il Don. Indossava una specie di tonaca grigio ferro, con uno stemma sul petto raffigurante una croce e una colomba volante abbasso. La parte superiore era corredata da un ampio cappuccio, che nascondeva completamente il volto di chi la indossava.
La figura si chinò, afferrò i lembi della veste e, rialzandosi, li sollevò lentamente scoprendo lucide scarpe di vernice nera con tacco metallico da dodici centimetri; e poi, continuando a salire, calze nere a rete, fermate, sulle cosce, da giarrettiere a volant rosse, di foggia antiquata. «Ah, mia cara!» esclamò il Don, «sai sempre come rinfocolare la mia devozione».

Educazione

8 dicembre 2024, 04;00
Roma, Istituto delle
Missionarie della Carità
8 ore all'attacco

Madre Fulvia, delle Missionarie della Carità, l'ordine fondato da Madre Teresa, si levò dal lettino in cui aveva dormito poche mezze ore di sonno agitato. L'aspettativa per gli eventi del giorno a venire l'aveva resa troppo nervosa per potersi abbandonare a un sonno vero. Almeno oggi non le pesava doversi alzare a notte ancora fonda, come invece tutti gli altri giorni di cui conservava memoria.
La madre, malata e tossicodipendente era finita sotto l'ospitalità delle missionarie quando lei aveva poco più di sette anni. Compagna di un terrorista, secondo lo Stato, di un combattente per la libertà, secondo il Movimento, abbattuto dalle forze dell'ordine all'inizio degli anni Ottanta, era fuggita in Asia dopo l'uccisione del compagno, al primo mese di gravidanza.
Dopo il parto, avvenuto in circostanze di fortuna in una clinica di Islamabad, era sprofondata in una spirale di dolore e disperazione, per finire a farsi di morfina farmaceutica in una sordida bettola di Peshawar, in Pakistan. Lì aveva conosciuto Fabrizio, un ragazzo italiano, anch'egli con problemi di dipendenze, con cui era arrivata in India, a Jalandahar nel Punjab. Aveva poco meno di trentacinque anni quando, devastata nel morale dal dolore per la perdita dell'amato e nel fisico dalle privazioni e dalla tossicodipendenza era approdata al centro delle Missionarie della Carità. La disciplina era durissima, ma non aveva avuto scelta, non tanto per sé, ma per la bambina.
Fulvia ricordava, come fosse stato ieri, le urla della madre quando l'avevano disintossicata, legata alla branda, senza farmaci per superare la carenza, perché prima di tutto, secondo le missionarie, bisognava disintossicare l'anima, e per questo erano necessarie l'espiazione e la sofferenza. Giorni e giorni di agonia, da cui si era in certo modo ripresa, ma mai completamente. Hai un bel dire a una persona che non si deve rifugiare nei paradisi artificiali ma accettare la realtà, quando la realtà per lei rappresenta solo disperazione e amarezza. La tossicodipendenza e la vita per strada l'avevano minata nel fisico, oltre che nel morale; aveva contratto l'epatite C e, nonostante le cure prestate dalle suore, la sua salute era assai precaria.
Fulvia era stata presa in carico dalle missionarie, e aveva ricevuto, da quel momento in poi, una rigida educazione cattolica. Obbedienza, penitenza, contrizione. E preghiera, tanta, sempre, a tutte le ore. Finché era piccola però, e la madre era viva, aveva potuto continuare a trascorrere qualche tempo con lei. E in questi momenti la madre aveva provveduto alla sua contro educazione. Le parlava degli eroi della rivoluzione, di Ernesto, El Che, che aveva ispirato i loro ardori adolescenziali. Di suo padre, morto combattendo per la libertà, come nell'inno dei partigiani. Dei giorni in cui un manipolo di guerriglieri, così si definivano, avevano tenuto in scacco lo Stato. E di come erano infine crollati, sotto il peso dei tradimenti e della persecuzione. Fulvia ascoltava, senza ancora capire, quelle che le sembravano avventure da fiaba, prima, o da film dopo.
Qualche anno più tardi la madre si era aggravata ed era morta dopo mesi di sofferenza, perché le missionarie affermavano che non si poteva dare la morfina a un ex tossicodipendente, che poiché il fisico era perduto a loro spettava salvare l'anima, che era più importante e che il dolore avvicina al Signore. Fulvia aveva compiuto da poco quindici anni.
Aveva completato la sua educazione presso le missionarie, fino ai diciassette anni, e alla fine era entrata anch'essa nell'ordine. Concluso l'apprendistato, tre anni dopo, aveva cominciato ad essere mandata in varie sedi di altri Paesi: prima a Dhaka, in Bangladesh, poi ad Hong Kong, e infine nelle Filippine, con il compito di gestire un centro periferico e costituire una comunità locale. Qui, lontano dal rigido controllo delle superiore, aveva potuto costruire la comunità secondo le sue aspirazioni, selezionando giovani collaboratrici che aveva cresciuto con principi altrettanto rigidi di quelli dell'ordine, ma leggermente differenti.
Levatasi dal letto fece una rapida doccia e, prima di coprirsi il capo con quella che, come da bambina, ancora chiamava la “tovaglia”. «Mamma, perché queste signore hanno tutte una tovaglia in testa?» Aveva chiesto al primo incontro con le missionarie. Accantonò i ricordi per concentrarsi sui programmi della giornata. C'era tanto da fare, e nessun margine di errore.

Obiettivi

Maggio 2015
Margone di Usseglio, Torino

Villa Cibrario mostrava i segni del tempo e dell'abbandono, ma conservava una certa maestosa eleganza. La villa, requisita ai proprietari nel 1944, era stata adattata a ospedale partigiano permanente. I partigiani vi curavano anche i nemici prigionieri feriti, dimostrando maggiore umanità di quanto quelli meritassero.
Prospero e Renato l'avevano scelta come luogo dell'incontro non solo per la tranquillità e l'isolamento, ma anche per il suo glorioso passato. L'interno, benché agibile era pericolante, ma l'ampio prato antistante si prestava ottimamente per un'innocente merenda primaverile che non avrebbe destato alcun sospetto. Tre coppie che mangiano e se la contano intorno a una tovaglia dispiegata a terra e disseminata di cibo. Una scena assai comune.
«Il problema è stato la scelta dell'obiettivo» stava dicendo Prospero, «troppo limitato: sacrificato quello, si sono trovati in mano un'arma scarica».
«Limitato?! Cazzo! Il presidente della DC, ex Presidente del Consiglio, ex ministro, al governo per quarant'anni. Non mi sembra così limitato». A parlare era stata Margherita.
«Limitato non nel ruolo, limitato nel numero» la corresse Prospero. «Una volta scaricato da suoi e screditato dalla stampa diventò inutile. E quanto ci hanno messo i suoi a scaricarlo?»
«Cinquantacinque giorni» intervenne Barbara.
«Molto meno in realtà» si intromise Renato, «ci hanno messo pochi giorni a decidere; secondo me già dal 21 marzo, quando hanno varato le leggi speciali, o dal 24 quando hanno conferito a Cossiga l'incarico di coordinatore unico della sicurezza, era già una dichiarazione di intenti. Ma sicuramente dal 30, quando i giornali, in occasione della lettera a Cossiga, hanno incominciato a mettere in dubbio la sincerità e la tenuta psicologica di Moro. Meno di quindici giorni in realtà, anche se poi l'esecuzione materiale è avvenuta il 6 maggio».
«Eppure è stata un'azione brillante, geniale in un certo senso, nella sua organizzazione».
«E su questo non si discute» disse Prospero, «ma è stato l'errore di valutazione iniziale che ha vanificato tutto».
«Nel senso che hanno preso l'uomo sbagliato?» chiese Anna Maria. «Dovevano prendere Andreotti? Cossiga?»
«Sarebbe stato lo stesso» rispose Renato. «L'errore fu di non capire che mentre per loro abbandonare un compagno sarebbe stato impensabile, per il regime al contrario scaricare un membro compromesso, anche se di vertice, non costituisce un problema. Nessuno è indispensabile, o almeno quasi».
«Esatto» continuò Prospero, «un uomo solo, per quanto potente, in un sistema clientelare e corrotto come quello italiano (ma non solo quello italiano) è sempre sacrificabile, a meno che il suo sacrificio non metta in crisi tutto il sistema, e i segreti di cui era a conoscenza Moro, nonostante di cose ne sapesse, non erano sufficienti. E poi mancavano le prove materiali, come ha detto Renato appena ha cominciato a parlare la stampa si è subito attivata per delegittimare le sue dichiarazioni».
«E però negli stessi giorni del sequestro avevano pianificato di mettere a segno anche altre azioni, di coinvolgere il regime su più campi» disse Barbara.
«Certo, ma non riuscirono a metterle in pratica, le forze erano troppo scarse per portare avanti azioni di questa importanza su più fronti. E sarebbe lo stesso anche per noi. No, l'obiettivo dev'essere unico, per non disperdere le forze, ma cruciale. Dev'essere qualcosa che paralizzi il sistema, o piuttosto lo sblocchi. Deve coinvolgere in un colpo solo diversi aspetti dell'apparato: economia, produzione, forze dell'ordine; e possibilmente non solo in Italia».
«Ok, Prospero, ottima analisi, ma dove lo troviamo un obiettivo così cruciale e irrinunciabile?» «Pensateci bene, compagni. Chi ha dato il colpo di grazia a Moro?»
«Moretti se n'è assunta la responsabilità» rispose Barbara.
«No, cara, non in questo fronte, nell'altro».
«Andreotti? Zaccagnini? Cossiga?»
«Ma no. È chiaro che questi non vedevano che l'ora di disfarsi di un concorrente così ingombrante, non ci si poteva aspettare altro. Pensateci bene».
«Berlinguer!» esclamò Margherita. «Quel traditore! Fu lui a insistere sulla via della fermezza».
«È vero» rispose Prospero, «e fu una grande spina nel fianco. Ma no, non fu lui il fattore decisivo. Chi si rivolse agli “uomini delle Brigate Rosse” chiedendo di rilasciare Moro senza contropartita e testimoniando così che anche il suo più solido scudo lo aveva lasciato senza protezione?»
Gli altri cinque si guardarono interrogativi per qualche istante, e poi risposero insieme, come una sola voce: «Cazzo... il Papa!»

Paolo Santoné

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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