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Autore: Pierlugi Elia
Tra cielo e mare
Storico
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Tra cielo e mare

L'altalena era sul crinale della collina, il panorama mozzafiato in quella magnifica giornata di sole.
Due bimbi, un maschietto tutt'appunto vestito e una femminuccia che indossava un vestitino sporco e in più parti lacerato, giocavano ridendo.
Lui oscillava il seggiolino mentre lei, gambette tese, si spingeva sempre più avanti.
L'arrivo degli adulti spezzò l'incanto.
- Assuntina, quante volte te aggio ritte ca nun e juca' co 'o figlio del padrone – esclamò una donna arrivata in prossimità dei due.
La piccola scese a malincuore dall'attrezzo, mentre il bimbo le si avvicinò per darle un bacetto. Assuntina volse il viso di scatto e indietreggiando esclamò: - Ma che fai? -
Poi, si avvicinò al bambino, gli prese la testa con le mani e lo baciò.
- Così si fa - disse ridendo e scappando via.

Era il 1884.

Quartier Generale della Marina Italiana
Napoli, 1° ottobre 1962

Ad una delle due scrivanie dell'ampio salone sedeva un uomo alto e slanciato. Testa china, microfono vicino le labbra, parlava svogliatamente scandendo le parole, scartabellando decine di fogli:
- Con dispaccio n. 506/RP49 il 13 luglio 1944 il Ministero della Marina Italiana istituisce una Commissione Superiore d'Inchiesta con sede a Napoli presso il Comando in Capo di Dipartimento del Basso Tirreno -.
Capelli neri pettinati all'indietro, il naso a gobba, indossava una divisa bianca, immacolata. Ai suoi lati altri due ufficiali di marina, corpulenti ed anziani, intenti a fumare, seguivano con aria disinteressata.
- La sottocommissione presieduta dall'Ammiraglio Giuseppe Fioravanzo ed in seguito dall'Ammiraglio Biancheri continuò – riunita per esaminare, accertare e definire la condizione morale, disciplinare e penale degli Ufficiali di Marina rimasti in contatto con le forze armate tedesche e con gli appartenenti alla RSI , nell' eventualità di mettersi agli ordini del nemico o, comunque, di venir meno agli obblighi imposti dal giuramento e dall'onore militare ... -
In fondo al salone, seminascosto dalla penombra, distrattamente in ascolto, sedeva un vecchio male in arnese, l'attenzione rivolta prevalentemente ai raggi solari che, penetrando dalle impolverate veneziane, riverberavano nella sala.
Picchiettava il vecchio bastone di legno di olivo, su cui poggiava entrambi le mani.
Trascorsi interminabili minuti tra parole, circolari e numeri, si arrivò finalmente al dunque:
- Con foglio del Comando Supremo n. 3639/Op. dell'8 dicembre 1943 nr 153 diretto ai Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate, il Generale Messe disponeva un esame rigoroso e circostanziato delle attività, da farne uscire ben lumeggiata la figura di ogni ufficiale sotto il triplice aspetto tecnico, politico e morale.
Visti gli atti della Commissione d'Inchiesta CEMM di Napoli;
fascicolo 1, A1, Segnatura originaria 1944/08/01/- 1944/10/23, il sig. Enrico Sanseverino, nato a Centola (SA) il 08/7/1876, Contrammiraglio designato dimissionario il 07 dicembre 1940 con il grado di Ammiraglio, già Capo di Gabinetto del Ministero della Marina dal 30 marzo 1924 al 7 dicembre 1940, iscritto al Partito Nazional Fascista;
Considerate revocate la totalità delle decorazioni concesse con Circ.re 101567 del Ministero della Marina Italiana dell'8/03/1962, nonché le promozioni conseguentemente ottenute
Si dispone, con Decreto del Presidente della Repubblica nr 2233 GU Serie Generale n.116 del 20/05/1952 la revoca della nomina di Ammiraglio, degradandolo al grado di Capitano di Vascello in quiescenza.
- Capitano, si avvicini per la notifica dell'atto - disse infine il funzionario alzandosi con fare nervoso.
Enrico Sanseverino da Centola, Barone di Sanseverino per nascita, Cavaliere dell'ordine civile dei Savoia, pluridecorato al valor militare, innumerevoli titoli e medaglie ottenuti, si alzò lentamente ed assunta con non poco sforzo la posizione eretta, si incamminò verso l'uomo. I passi riecheggiarono nel silenzio nell'ampia sala, rumori sordi spezzati solo dal picchiettio irregolare del bastone da sostegno.
Tra le decine di sagome della commissione gli parve di scorgere anche il Capo di Stato Maggiore della Marina, Ernesto Giuriati.
Impossibile pensò, non si considerava così importante.
La sua vista non era più quella di una volta.
Anche il suo mentore, Thaon di Revel, nel 1944 venne inquisito e successivamente scagionato da qualsiasi addebito, assolto con provvedimento liberatorio e confermato nella carica di Senatore. In tale circostanza decise di non presentare alcuna linea di difesa.
Sanseverino, due parole invece, le avrebbe senz'altro proferite.
- Ufficiali, Signori e Gentiluomini, si diceva un tempo esordì - al centro della sala, scrutando con lo sguardo tutti i presenti.
- Diceva il mio grande amico, Thaon di Revel, di cui forse avrete sentito casualmente parlare, che la storia in fondo è quella che si crede continuò - allargando le braccia.
Si avvicinò al funzionario che lo aveva chiamato e, aprendo la borsa di cuoio posata sulla scrivania, ne estrasse un gagliardetto, una boccettina di vetro colma di sabbia e un pugnale da incursore della Marina.
Il funzionario, alla vista dell'arma, si preoccupò alquanto d'istinto portando la mano alla fondina.
Enrico Sanseverino rise.
- Tenente, il suo grado è Tenente, ora lo vedo bene da vicino, tolga la mano dalla sua arma. Non ho intenzione di uccidere nessuno oggi – disse.
- Stia attento, potrebbe farsi male. Lei non ha mai usato una pistola in vita sua mentre io conosco bene il mio coltello terminò - tra le risate della sala.
Poi, il vecchio tornò serio, scosse la boccetta di vetro - la sabbia inevitabilmente si sparse tutt'intorno - imbrattando le immacolate divise degli Ufficiali. L'aria divenne d'un tratto pesante.
Brontolii, mugugni e sorde imprecazioni, presero in un attimo il posto delle risate.
- Ma signori vi prego, non vi lamentate – cominciò a schernirli Enrico Sanseverino.
- È solo rena del Piave – aggiunse sprezzante
Intrisa del sangue dei miei fratelli morti affinché voi oggi possiate ancora parlare l'italica lingua e indossare le vostre belle divise.
- Pensate Signori, io c'ero. C'ero sulle rive del Piave, c'ero a Massawa, a Cipro, a Kunfida e Dio sa in quali altre sanguinose battaglie. Combattevo per mare e per terra, prima e durante la Grande Guerra e financo nella Seconda. Io c'ero, e nessuno questo lo potrà mai cancellare concluse - appassionato.
Il tenente si spazientì allora e con voce sgraziata e stridula, lo richiamò all'ordine:
- Capitano, ora basta con questa teatrale sceneggiata, deve firmare – urlò.
Sanseverino lo guardò divertito e così rispose:
- Stia calmo Tenente, moderi il tono. Barone Enrico Sanseverino - ho ereditato il titolo nobiliare da mio padre e questo nessuno me lo potrà revocare sottolineò - non più divertito.
Si avvicinò quindi ai fogli ma anziché prendere la penna e firmarli, raccolse il gagliardetto raffigurante la bandiera italiana con al centro l'effige della Brigata Marina, intrisa di sangue rappreso. Poi con rabbia, guardando dritto negli occhi l'altro:
- Il sangue che vede è di due delle persone a me più care che hanno perso la vita per la Patria. Non firmerò queste diamine di carte, basta con questa buffonata lo sfidò - gettandole in aria.
Dalla sala si levarono urla di approvazione mentre gli anziani Ufficiali ai lati del Tenente estrassero i propri pugnali sollevandoli in alto in segno di saluto come tributo al collega in pensione da tanti riconosciuto come un vero eroe.
Fu il segnale. Gran parte della commissione li imitò scandendo a gran voce il nome di quell'uomo che tanto onore e vanto aveva portato alla storia della Marina ed alla nostra Nazione. Enrico Sanseverino.
L'anziano Ufficiale, tra le decine di armi alzate, distinse una figura - stavolta davvero lo riconobbe - lo sguardo torvo, che si astenne dall'ovazione. Ernesto Giuriati, il Capo di Stato Maggiore della Marina evidentemente non compiaciuto dell'inaspettata piega che la riunione di commissione aveva preso.
- Io non debbo firmare nulla, chi fa la storia non deve scriverla – disse il Barone avvicinandosi in modo che l'altro potesse udirlo.

I Sanseverino di Centola
11 dicembre 1896

Assunta Volpe non era una ragazza come le altre. Vent'anni appena compiuti, di una bellezza celestiale con i suoi grandi occhi sgranati e brillanti, le rosse labbra sorridenti, un vitino stretto ed un portamento da gentildonna, emanava salute e calore tra l'esuberanza della giovinezza e la sua innata forza femminile. Capelli neri colore della pece non era però una nobildonna. Quarta di cinque fratelli, figlia di umili contadini, mezzadri dei Sanseverino di Centola, paesino del Circondario di Vallo della Lucania, la ragazza serviva come domestica presso la nobile famiglia.
Coraggiosa e determinata Assunta, tra analfabetismo e miseria, che regnavano sovrani a quei tempi, era riuscita come cuoca, infermiera e cameriera, ad istaurare un profondo legame con i padroni.
Si era così assicurata protezione e sicurezza tramite la cessione incondizionata della sua vita e, di contro, aveva potuto imparare a leggere e scrivere, finanche a sognare.
Ma questo rapporto servo padrone, sicuramente protettivo, con aspetti da patto feudale, entrò in crisi di lì a poco, scontrandosi con la struttura del nuovo Regno d'Italia. Dopo i noti moti rivoluzionari post unitari che interessarono il Cilento e la Lucania la piccola borghesia schieratasi con i Savoia non aveva più i mezzi sufficienti per vivere col decoro necessario, per fare la vita dei ricchi.
Venuto meno il modello patriarcale e garantista della famiglia nobile borghese tutti i giovani di qualche valore lasciarono il paese. I più andarono verso le Americhe, gli altri si divisero tra Napoli e Roma.
In paese restarono gli oziosi, gli inetti in perenne lotta alla conquista del potere locale. E fu per questi motivi che i Sanseverino decisero di lasciare Centola.
L'antica nobile famiglia risiedeva nel palazzo baronale, l'edificio più grande del borgo vecchio di San Severino, tre piani non comunicanti tra loro, cui si accedeva esclusivamente dal livello della strada. Costruito nel 1400, nel corso del tempo venne ampliato grazie al congiungimento con altri fabbricati. Sul crinale della collina arroccate, oltre alle abitazioni, erano presenti le rovine del Castello che domina la valle del Mingardo, la torre Longobarda e le chiese di S. Maria degli Angeli e di San Nicola, uno dei primi edifici ad essere elevati sulla roccia. Dal borgo vecchio di San Severino era possibile controllare l'accesso di quella chiamata Gola del Diavolo.
Le mezzadrie della famiglia erano lì stanziate. Lavoravano a valle, uniche dotate di attrezzi agricoli moderni come il bidente, la zappa e l'aratro, si trovarono a fare i conti con l'esosa tassa sul macinato che dal 1869 aveva già suscitato rivolte contadine.
La famiglia Volpe era fra queste. Antonio, il padre di Assunta, un omone altissimo per l'epoca, vestiva al solito con una camicia, un paio di corti calzoni di lino ed un panciotto, camminava di sovente a piedi nudi nei campi riparandosi la testa con un rustico cappello di paglia. Alla madre Maria, camicia, sottana e gonnella, un paio d'orecchini ad incorniciarle il viso, rientrando prima dai campi, il compito di cucinare, apparecchiare, ripulire, rammendare la biancheria, governare gli animali domestici.
Abitualmente mangiavano pane bruno, duro ed una magra minestra, ad eccezione dei giorni di festa quando per il loro desinare si concedevano una pietanza a base di carne. Ciononostante i Volpe, sebbene messi a dura prova da privazioni continue, si conservavano sobri, laboriosi ed onesti.
In autunno, terminati i lavori agricoli, i raccolti furono divisi tra padrone e mezzadro con i campi arati e seminati a föja , all'asciutto. Il proprietario spartiva con il colono tutto quanto la madre terra aveva donato.
Era proprio in queste giornate che le famiglie contadine con le mandrie al seguito, si spostavano negli altri poderi nell'entroterra, nella valle del Mingardo, iniziando il cammino verso i monti. Alle prime luci dell'alba, accompagnati dal suono lento dei campanacci, i contadini di Centola risalivano il greto del fiume che attraversa le montagne, verso il Monte Bulgheria.
Prima che la neve cadesse copiosa ad impedire gli spostamenti, si percorreva l'antica mulattiera, la Tragara , unica strada carrozzabile in quei giorni, animata dal cigolio di traballanti carretti di legno, dal vocio degli uomini, delle donne e dei bambini, tra belati, muggiti, ragli, miagolii e canti nostalgici, spesso mischiati a qualche imprecazione.
Il carico, stipato alla bell'e meglio. Letti in ferro o legno, materassi di scartossi o di crine della coda o del manto del cavallo, una panca, qualche sedia impagliata dal mugnaio, un tavolo, comodini con dentro i pitê . Armadi non ce n'erano, alle famiglie povere il legno serviva per scaldarsi, i vestiti, quelli necessari alla giornata, al massimo c'era l'abito della festa. Infine, sopra a tutto il resto, c'erano i sacchi di frumento, le patate, il mais, e le ceste di frutta insieme ad un paio di valli pieni di castagne, ai pochi attrezzi agricoli di proprietà e ad una stia di legno contenente qualche gallina e qualche coniglio. A bordo del carro infine, era legato il maiale, già grassoccio e pronto per essere trasformato in saporiti insaccati, da mangiarsi nel periodo natalizio o per carnevale.
Fu durante uno di questi autunni di spostamenti che si scatenò su tutta la zona un furioso uragano con grandinate e abbondanti piogge che provocarono lo straripamento dei fiumi Lambro e Mingardo. Antonio Volpe con la moglie ed i suoi due figli maschi si trovavano già a metà strada. Giunti al vecchio ponte in travatura metallica a tre luci, opera di alta ingegneria realizzata nel 1895 incassando la struttura nella parte più stretta del fiume Mingardo, in occasione dell'apertura della linea ferroviaria Pisciotta Castrocucco, l'uragano pareva cessato.
Oltrepassato il viadotto, il fiume ingrossato straripò sopra i lauri ed un'enorme massa d'acqua violentissima incanalandosi lungo la strada travolse quelle povere genti. Vennero ritrovati dopo pochi giorni sott'acqua in un fosso, le vesti impigliate in un reticolato di ferro spinato. Generale fu il compianto del popolo di Centola per questi poveri sventurati che incontrarono così miseramente la morte.
La piccola Assunta si ritrovò così da giovane domestica ad essere adottata, come orfana, da una benestante famiglia borghese. La Baronessa Ida ne comprese con grande umanità il dolore avendo perso anch'essa il marito e due dei quattro figli in tragiche circostanze.
Il marito, Barone Pietro Antonio Sanseverino, nel 1890, mentre viaggiava in carrozza verso Roma insieme al primogenito Carlo ed al secondo figlio Luigi, venne trucidato in un'imboscata dai briganti postunitari lucani.
Il Mezzogiorno, anche dopo l'unificazione d'Italia, era rimasto terra di latifondo feudale, coltivato da plebi misere ed analfabete, secondo il sistema retrivo della cosiddetta mezzadria impropria. Bastava un'annata di cattivo raccolto, la siccità o qualunque altra calamità naturale perché centinaia di contadini, non più in grado di versare la propria quota di prodotto al signore, fossero rovinati, ridotti alla fame e, sovente, anche perseguitati dalla giustizia locale. A quel punto, le uniche alternative alla miseria furono il brigantaggio o l'emigrazione.
Dopo la morte del padre, il figlio Enrico si arruolò nella Regia Marina Italiana seguito poi dal giovanissimo Francesco nel Regio Esercito.
Gli affari di famiglia dei Sanseverino di Centola vennero sorretti da ampia e nobile parentela: il cognato Aloisio, marito della sorella della Baronessa Francesca Saveria, si occupava della contabilità mentre i mandati venivano autorizzati dal capofamiglia di Roma, il Barone Patrizio, potente nobile del ramo cadetto dei principi di Brignano, inserito nell'alta borghesia romana con l'incarico di alto funzionario del Ministero delle Finanze. Sua fu la penna che scrisse la riforma dell'ordinamento amministrativo sulla questione finanziaria tra fine ottocento ed i primi del novecento.
A corto di mezzadria di fiducia, con la maggior parte dei terreni ancora non bonificati e privi di opere idrauliche di scolo, provata dai lutti familiari, vedova del marito e partiti i figli al servizio del Re, la Marchesa Ida di Montefiore ora Baronessa Sanseverino, prese la decisione di trasferirsi a Roma.

Pierlugi Elia

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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