Un chimico, un becchino, tre operai... e un attentato.
Respiro. Cammino. Penso. Dopo il tramonto, faccio delle lunghe passeggiate perché ho bisogno di stare all'aria aperta per riflettere. Così cammino e penso, proprio come fanno in molti credo, niente di straordinario, ma dopo quel che è successo domenica scorsa, le mie passeggiate sembrano interminabili e mi ritrovo a fare sempre lo stesso ragionamento. Identico. Penso al mio nome. Il mio nome è il mio destino, è approdo e sorgente di tutto ciò che sono. Ne ho le prove. E nel buio della notte i miei pensieri viaggiano nel tempo, fino a raggiungere gli inizi del ‘900, ben oltre un secolo fa, perché la storia comincia proprio da lì, nelle pieghe della vita di un ventenne, Mario, il capostipite della mia famiglia, il padre di mio nonno. Mario era nato nel 1905 ed era rimasto orfano all'età di quindici anni. Era cresciuto unicamente con ciò che aveva avuto in eredità dai suoi defunti genitori: una casa, una stalla, alcune vacche nate magre e un pezzo di terra chiamato la Collina. Alcune annate cattive, però, una dietro l'altra, avevano reso infecondi i campi. Mario, da tempo, conviveva con la fatica e la fame, mentre il resto si era perso nell'ombra di sterilità che oscurava la sua terra. Nei primi mesi del 1925 era arrivata anche la morte e aveva incominciato a sterminare tutti gli animali che, nella stalla, alla fine di ottobre di quell'anno, si erano ridotti a una sola vacca e un toro. Mario sapeva che la sua terra, la Collina, era divenuta troppo dura, come la pietra, e ci cresceva sopra solo una specie di loglio, una roba ignota che le mucche ruminavano con grande disprezzo. Pareva non esserci una via di scampo e la morte continuava a ballare tra le sue bestie in attesa di prendersi le ultime due vittime. Stremato dal non trovare un possibile rimedio al massacro che presto avrebbe afferrato anche lui alla gola e al cuore, una domenica di novembre del 1925, poco dopo la festa dei Santi, decise di andare in chiesa per la prima volta in vita sua. Varcò la soglia del luogo sacro non per chiedere una grazia, non avrebbe saputo nemmeno cosa supplicare: ti prego, Signore, non farmi morire l'ultima vacca? E perché? E come, soprattutto, che sulla Collina non cresceva più nulla? No. Una grazia era impossibile. Andò in chiesa perché il prete aveva studiato in seminario a Roma e lui, di sicuro, era il solo a sapere come raggiungere l'America. Alcuni paesani ne parlavano spesso e sembrava un sogno, pareva come se si trattasse del paradiso, figuriamoci, non ve lo potete neanche immaginare, perché in America tutto è possibile, non ci sono poveri, si mangia tre volte al giorno e, se sei bravo, puoi diventare così ricco da smettere di lavorare e dormire su materassi di soldi, sì, letti zeppi di banconote! E ognuno millantava un parente dall'altra parte del mare, qualcuno mostrando una foto sbiadita, chi una lettera e chi, non avendo prove tangibili, spergiurava sulla Madonna di conoscere un tale che riusciva a mantenere ben tre famiglie, una là e due qua! Anche se fossero state vere a metà, erano chiacchiere sufficienti per decidere di partire. Dei paesani, contadini come lui provati da quelle annate cattive, non si fidava, era meglio chiedere al prete come si arrivava in quel paradiso terrestre. La chiesa era bianca e spoglia e Mario se ne stava ritto in piedi dietro gli ultimi banchi, con il cappello in mano e la testa alta, squadrata dai capelli corti, neri e ispidi. La pelle del collo era indurita dal sole e coperta da un vecchio fazzoletto annodato tra i baveri di una camicia di un colore indefinito. Indossava la sua giacca di velluto marrone, logora ai bordi, un paio di spessi pantaloni e le stesse scarpe di sempre, nere, sformate dalla fatica. «Ite, missa est.» Entrò in sagrestia mentre il parroco si stava togliendo i paramenti di dosso. Uno sguardo e poche parole forzate. «Dove sta l'America?» «Perché lo vuoi sapere?» «Ci devo andare.» Il resto fu una discussione arida come la sua terra, ma alla fine gli rimase in mano un foglio con dei segni sopra: Genova, aveva scritto il prete, o almeno così aveva giurato che a tale nome corrispondessero quelle sconosciute lettere nere. Mario non sapeva leggere e scrivere. In ogni caso, da quella città lontana partivano le navi per l'America. Alcuni giorni dopo l'incontro con il sacerdote, l'ultima vacca se ne andò al Creatore precedendo di poco il toro che con grande coraggio spirò per ultimo e, tempo un paio di giorni, svanì dall'infeconda Collina anche il padrone, Mario. Dal suo paese, una pustola scura nel centro dell'Italia, di una certa Italia sconosciuta allora come oggi, Mario si mise in cammino verso la Liguria seguendo le scarne indicazioni del parroco: ad ovest fino al mare e poi a nord. Poche parole in testa, molti passi davanti e le tasche colme solo di dubbi. Non aveva nulla, giusto qualche lira, nessun documento e nemmeno la più vaga idea di dove terminasse il viaggio. L'unica cosa che possedeva era la disperazione, questa sì, in abbondanza, altrimenti sarebbe tornato indietro fin dalla terza notte rubando frutta qua e là, e passata a dormire su di un albero, con un freddo costante, interrotto sulla pelle solo dalla sua logora giacca di velluto marrone. Quando vide il Mar Tirreno, dopo cinque giorni di cammino, rimase leggermente stupito:«Per la Croce di Cristo!» parrebbe aver esclamato. Non gli rispose nessuno. C'era solo acqua, tanta, era troppa, non si vedeva la fine e l'America doveva essere davvero lontana. Gli odori erano nuovi: sale e lavanda, meglio non avrebbe saputo dire. I pochi pescatori incrociati per sbaglio, invece, non erano differenti dalla sua gente: la pelle spessa e scura, le mani dure e piagate, il carattere scontroso e avvolto da un silenzio fatto di sguardi veloci. Senza chiedere a nessuno, quindi, puntò verso nord, seguendo la costa. Il quindicesimo giorno di viaggio riconobbe su di un cartello il nome che pareva proprio uguale a quello scritto dal prete. Non sorrise, non fece nulla, e, nonostante fosse già arrivata la notte, continuò a camminare entrando a Genova Levante, addentrandosi così nel dedalo degli stretti carruggi della città. Al terminare di un angusto vicolo, malamente illuminato, scorse una bettola. Mentre si avvicinava incerto, contando le poche monete in tasca, sentì da dentro l'osteria uno sbatti e ribatti di tavoli e sedie, poi qualche grido, una bottiglia in frantumi e, di lì a poco, vide un uomo cacciato a pedate sulla strada. Il tizio si rialzò a fatica da terra ma, una volta in piedi, incominciò ad agitare un pugno in aria come chiaro segno di sfida contro i due ceffi che lo avevano scaraventato fuori dalla bettola. Alla coppia di energumeni ferma sull'uscio si aggiunse un essere più piccolo, ma dalla mano svelta: dalla tasca aveva già tirato fuori un coltello a serramanico. Erano tre contro uno. Complice la disperazione che lo aveva accompagnato durante quel lunghissimo viaggio, Mario decise di non lasciare alla morte un'altra anima, visto che già nella sua terra l'aveva vista fare razzie senza poter nulla. Così, con due balzi, si infilò veloce in quel quartetto pronto a suonarsele di santa ragione. Come andò veramente non è chiaro, probabilmente colse di sorpresa gli aggressori che si fermarono trovandosi davanti un'altra persona sbucata dal nulla. Di sicuro i due, Mario e l'uomo cacciato dalla taverna, approfittarono dell'indecisione altrui e, senza esitare, d'istinto, corsero via da lì. Quando furono ben lontani dai tre malviventi, che non avevano nemmeno accennato ad andargli dietro, si fermarono: prima fu solo un cenno di intesa, poi una forte stretta di mano, e alla fine i due non poterono far altro che raggiungere un'altra taverna poco distante dove bere qualche bicchiere alla faccia del pericolo scampato. Seduti a un tavolo, con del vino da due soldi davanti, si presentarono. Il tizio incontrato per caso in quel vicolo buio si chiamava Luigi Traverso e di mestiere faceva il facchino all'Hotel Bristol di Genova.
Emmanuele Rossi
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|