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Autore: Daniela Vasarri
Un lavoro da sogno
Sociale
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Un lavoro da sogno
Quella mattina avrebbe dovuto ringraziare i netturbini che, di buon umore nel passarsi i sacchi della spazzatura, avevano vociato talmente tanto da farsi sentire fino al quarto piano, svegliarlo e permettergli di arrivare per tempo a lezione.
Si sarebbero stupiti tutti, già se lo immaginava, nel vederlo entrare in aula addirittura qualche minuto prima dell'inizio della lezione.
Il quarto d'ora accademico di ritardo, tollerato ovunque nell'ambiente universitario, per lui era diventata una consuetudine superata, dal momento che lo aveva addirittura triplicato, suscitando inevitabili polemiche tra colleghi e critiche feroci da parte degli studenti sugli inclementi social.
Il ritardo sembrava essergli congenito come se rappresentasse il retro del suo biglietto da visita, forse per rendere la propria persona in qualche modo misteriosa.
Nel bagno piastrellato da oltre vent'anni con mattonelle di forma ormai fuori moda, ogni oggetto era pronto ad aspettare che il Professor Felice Fortunato lo utilizzasse per la propria toeletta quotidiana. Non aveva bisogno di grandi accorgimenti, giusto uno spazzolino per dare una veloce rinfrescata ai denti; pochi ne avrebbero notato lo smalto assottigliato, dal momento che lui non sorrideva quasi mai e che, nei rari casi nei quali era richiesto un minimo accenno di ilarità, lui badava bene a trattenerla tenendo le labbra semichiuse; un rasoio elettrico che faceva scorrere avanti e indietro sul viso un po' ossuto e che gli lasciava imperfezioni e ombre; un po' di gel sui capelli quasi bianchi e radi, che contribuiva però a dargli un'immagine d'insieme ordinata.
Sua madre, come ogni sera da trent'anni, gli faceva trovare sulla poltrona consunta una camicia stirata, facendo attenzione che i piccoli bottoni fossero sempre ben attaccati.
Da quando era ragazzo non lo aveva più visto in mutande, coerente e soddisfatta che quanto gli aveva insegnato sul decoro e il senso del pudore, quel prodigio di figlio lo avesse recepito tanto profondamente da farne il proprio stile di vita. Eppure, suo padre, qualche volta, specialmente d'estate e prima che la malattia lo forzasse a letto, per casa girava mezzo vestito, ma lui no, già ai primi anni di incarico alla cattedra di fisica, negava ai suoi genitori di mostrarsi in tenuta casalinga, come se non volesse mai perdere quel ruolo di rispettabilità con il quale sembrava immortalato nell'album del gruppo dei docenti.

Felice ingoiò, come era solito fare, una scodella di latte intero nel quale aveva sbriciolato delle fette biscottate integrali e aggiunto un po' di caffè dalla moka che, ancora calda, riempiva l'inizio delle giornate della famiglia Fortunato.
Amava il momento in cui le porte metalliche dell'ascensore degli anni Cinquanta si aprivano al piano, offrendogli l'immagine di sé in quel grande specchio, che lo rifletteva per intero costringendolo a spiarsi.
Il portiere del palazzo, che non perdeva occasione di mettersi in mostra con i condomini ogni mattina, lucidando in modo ossessivo la maniglia del portone d'ingresso e che salutava distrattamente apposta, per rimarcare l'impegno profuso nelle proprie mansioni, alzò il capo stupito nel vedere la sagoma di Felice uscire in anticipo, senza tuttavia variare il suo modo burbero di dare il buongiorno.
«Magari si annunciasse una giornata più briosa» pensò fra sé Fortunato, stupendosi quasi anche lui della propria puntualità.
Il percorso a piedi sino alla fermata dell'autobus era presso che identico (e perché mai avrebbe dovuto essere diverso solo per uno scarto di mezz'ora di differenza?), semmai le persone che incrociava avevano volti nuovi. In una città è sufficiente modificare un tragitto o variare un orario e sembra di trovarsi in una realtà diversa.
Appoggiò la tessera per convalidare la corsa e si sedette a fianco di un ragazzino, il quale quasi sicuramente, frequentava la scuola secondaria, a giudicare dalle dimensioni dello zaino, carico di inutili volumi che era costretto a trasportare ogni giorno da casa all'aula e viceversa. Il Professore si scoprì un poco invidioso della giovane età di quello studente arruffato e dall'aria svogliata.
Poi, per collegamento naturale, associò il compagno di viaggio a sé stesso e ai tempi in cui sua madre, con tanta fermezza, gli aveva imposto di studiare, di approfondire, di essere sempre costante e di dare il meglio nel rendimento scolastico. E solo grazie a lei ora, poteva ricoprire una carica degna sì di ammirazione ma anche di un po' di mistero. Eh già, perché la maggior parte delle persone che lo conoscevano non avevano capito esattamente quale fosse la sua specializzazione, né erano in grado di commentare la sua preparazione, perché la materia che gli aveva permesso di ricoprire un ruolo tanto ambito era presso che sconosciuta a tutti: la Termodinamica.
Ciononostante, tutti prendevano per buono che lui, il Professore, fosse una specie di genio, da rispettare e nel quale aver piena fiducia. Faceva parte forse anche la reputazione delle leggi della fisica?
Solo per caso si accorse di essere arrivato alla sua fermata, se non fosse stato per un uomo in completo grigio che aveva scambiato per un collega di ingegneria e che aveva rischiato di inciampare tra i suoi piedi, di sicuro avrebbe continuato a crogiolarsi nelle proprie vacue considerazioni.
«Buongiorno Professore!» il primo che incontrava in quel complesso tanto imponente era l'usciere, preposto sia ad alzare la sbarra di accesso ai parcheggi per i docenti che raggiungevano l'università in auto, sia a dare indicazioni su dove fosse il punto informazioni a quella fiumana giornaliera di persone che affollava viali, giardini, corridoi e palazzine.
«Salve Pietro!» gli rispose il professor Fortunato quasi gongolando di essere in orario.
Poi diede un'occhiata al cielo giusto per verificare che nessun acquazzone fosse in arrivo data l'eccezionalità. Si rincuorò ricordandosi che il piccolo barometro appeso a fianco del suo letto non indicava variazioni atmosferiche.
«Professore! Professore!» con aria trafelata uno studente dall'aria trasognata lo stava inseguendo per raggiungerlo e lo costrinse a fermarsi.
«Questo mi fa ritardare vedrai!» disse tra sé.
«Mi scusi professore, io sarei pronto con quella bozza di tesi, e mi piacerebbe avere un suo parere prima di terminarla...»
«Buongiorno. Fumagalli se non ricordo male...»
«Esatto!» gli rispose il ragazzo con un sorriso di ammirazione per tanta memoria.
«Vede, Fumagalli, sto lavorando a un progetto complicato, ho poco tempo, ma se me la porta la prossima settimana a lezione, magari riesco a dargli un'occhiata»
«Sarebbe fantastico, grazie, grazie, grazie davvero» il ragazzo quasi si inchinava, mentre il professore guadagnava passi verso l'area più interna adibita alle classi della sua facoltà.
«Ci mancava anche questa adesso, ma come facevo a dirgli di no? Beh, tanto la prossima settimana non so se sarò a lezione...»
Non che il professore fosse persona totalmente inaffidabile, ma il suo difetto maggiore era quello di non sapere mai dire di no e di trovarsi, di conseguenza, spesso in situazioni dalle quali era poi difficile uscirne, per le troppe bugie raccontate e le troppe promesse spese, tutto pur di non negarsi mai a nessuno. Da un lato questo atteggiamento accondiscendente gli aveva procurato molti consensi, ma dall'altro gli aveva creato, nell'ambiente più prossimo, la fama dell'uomo da prendere con le pinze. La sregolatezza, ammissibile in una mente geniale, non compensava, insomma, le attese di chi doveva averci a che fare.

I suoi studenti in particolare, si sa che i giovani posseggono un forte senso critico che costituisce peraltro il motore che fa avanzare il mondo, si erano rivelati più volte spietati con lui. I social erano il terreno migliore sul quale scatenavano l'alternanza delle loro insoddisfazioni e perplessità sulla figura di quel docente che indiscutibilmente possedeva conoscenze approfondite della materia, ma si dimostrava all'oscuro delle regole basilari della sua carica, rinnegandone quelle doti minime richieste.
Felice era a conoscenza della propria cattiva nomea in ambito universitario, ma sembrava quasi crogiolarsi in essa, sfidandola e facendo addirittura in modo di alimentarla. Ogni volta che entrava in aula, pareva burlarsi, con uno stile innegabile, degli alunni che lo attendevano e quasi disperavano che si sarebbe presentato, inventando, con una creatività teatrale, sempre nuovi inconvenienti e accidenti che giustificavano dimenticanze o ritardi, insomma una vera e propria presa in giro della propria platea.
E per non parlare di quando, nel mentre di una spiegazione, sospendeva l'emissione delle parole per assentarsi, sguardo rivolto verso l'alto, facendo credere che stesse ricercando il filo del discorso mentre invece era da tutt'altra parte, distratto non si sa da che cosa.
Sua madre e suo padre erano gli unici a conoscere davvero la causa di quegli atteggiamenti che si erano manifestati con la pubertà e che loro avevano contrastato ritenendo impossibile che il loro adorato figliolo fosse affetto da una patologia piuttosto rara. Ma un ambiente protetto e, grazie a Dio, la mente adatta agli studi scientifici, con i quali pochi avrebbero saputo confrontarsi, permisero a Felice di velare gli episodi nei quali la malattia si faceva più insistente. Con la laurea poi, ottenuta a pieni voti, la sua patologia era passata quasi nel dimenticatoio della famiglia Fortunato.
Felice sognava, a occhi aperti, anche in aula e segretamente si faceva cullare dalle immagini diverse che si affacciavano senza alcuna anticipazione, alla sua mente. Non era insomma un uomo infelice, ma il mondo per lui non era condivisibile con il prossimo.

Il percorso post - universitario si era rivelato una passeggiata senza ostacoli. Felice, ottenuta subito la cattedra nel prestigioso ateneo, aveva persino scritto, a quattro mani, il suo primo saggio su un argomento inesplorato della propria materia. A quattro mani perché, a dirla tutta, lui aveva contribuito ben poco nella stesura, suggerendo al collega, uomo preciso e metodico, solo la propria intuizione scientifica, senza tuttavia occuparsi della revisione e di tutta la trafila per arrivare alla pubblicazione. Ma il suo nome aveva da quel momento iniziato a viaggiare tra gli scienziati, giungendo anche oltre oceano, in quella terra a cui lui ambiva come fosse stata l'isola del tesoro in grado di premiarlo.
Immaginate quando ricevette l'invito ufficiale da Washington a partecipare ad un convegno, che chiamavano in modo pomposo summit, al quale i cervelloni mondiali si sarebbero riuniti per confrontarsi su temi di interesse comune.
La signora Fortunato, in preda ad una specie di frenesia compulsiva, faceva e disfaceva la valigia del povero Felice, proponendogli ora uno smoking preso a prestito ora calzoncini bermuda di cattivo gusto per il tempo libero. Felice però non si dava cura di ascoltarla né di contraddirla perché con la mente lui era già nella metropoli elegante e cosmopolita.
La foto di gruppo ora, appesa nella sua camera ormai da qualche anno, gli confermava, quando apriva gli occhi ogni mattina, che quel viaggio lo avesse fatto davvero e che quei colleghi si fossero congratulati con lui, proprio a maggior ragione per la sua giovane età, facendolo apparire come una promessa per il futuro del mondo. E avvenne di conseguenza che a quel primo saggio d'esordio ne seguirono altri due, meno innovativi ma che contribuirono a rinsaldare la sua fama negli ambienti universitari. E così, oltre allo stipendio di docente, Felice ricavava pochi spiccioli anche dai diritti sulle pubblicazioni, che venivano proposte come testi da adottare a quegli studenti che, almeno, potevano spendere nella loro carriera, di averlo avuto come insegnante, sforzandosi di sottacerne i difetti.
Fortunato non dimenticava mai di ringraziare il buon Dio per quella notorietà alla quale era giunto, a differenza di molti altri validissimi scienziati che invece non l'avevano ancora consolidata. Ogni giorno quindi, uscendo dall'università si fermava in una piccola chiesa, quasi sempre vuota, sedeva sulla prima panca vicina all'entrata e sorrideva verso il crocefisso con aria rapita.
Spesso quello stato di beatitudine gli veniva anche da sogni meno mistici, tra i quali il preponderante era quello di trasferirsi definitivamente in America e lasciarsi alle spalle le abitudini di una vita diventata ormai un po' monotona. Era abilissimo, tanto forte era quel desiderio, a immaginare fin nei minimi particolari, ogni dettaglio, dal viaggio all'insediamento in un appartamento a Georgetown dal quale avrebbe potuto osservare dalla finestra negozi e persone indaffarate a vivere bene.
Improvvisamente però quel pomeriggio, salutato di nuovo l'usciere dell'ateneo e dopo aver fatto la consueta visita alla chiesetta, si ricordò che la sera stessa era atteso ad un evento organizzato da un'associazione, il cui scopo era riunire personaggi eminenti del mondo finanziario ed industriale. Quindi affrettò il passo verso casa. Totalmente dimentico, ovviamente, della promessa fatta al laureando di leggerne la tesi.

Gianmaria Ferrero, un po' incurvito dalle preoccupazioni, osservava dal finestrino del treno ad alta velocità, e senza davvero vederle, la campagna verde e le fabbriche, fiore all'occhiello dell'economia settentrionale.
Il suo viso lungo ricordava quello di un reale noto per la pacatezza raffinata ma anche per una indiscussa mancanza di carisma, debolezza che lo rendeva ridicolo agli occhi dei suoi sudditi. Gianmaria nonostante ammettesse quella somiglianza ma solo per l'aspetto curato e gli atteggiamenti di classe, si ostinava a dichiararsi al contrario uomo dal carattere tenace, ereditato da un nonno generale che ancora ricordava con rispettoso timore.
Indossava il solito trench color panna, che tradiva qualche macchia qua e là, per fortuna non troppo visibile, sciatteria per la quale lui in fondo si vergognava e si sentiva a disagio, giustificandosi in cuor suo, tuttavia, che la lavanderia fosse luogo da evitare considerato il conto impagato da mesi. Né avrebbe potuto contare sul supporto di una compagna che si fosse presa cura del suo guardaroba, dal momento che sia la prima che la seconda moglie lo avevano lasciato. - “in un mare di guai” - ripeteva a sé stesso ogni volta che era costretto a ricordarle incontrando i figli avuti da ciascuna di loro. Dei suoi ragazzi non poteva certo lamentarsi, gli erano affezionati ed anche grati del fatto che non avesse mai fatto mancare loro nulla, a cominciare dalle scuole migliori e dalle attività sportive più costose, quali l'equitazione e persino il golf. Infatti, Gianmaria non avrebbe mai permesso a quei ragazzi di condurre una giovinezza non all'altezza del cognome che portavano, pena il suo arrovellarsi sulle strategie migliori per ottenere incarichi professionali molto redditizi. In città, infatti erano poche le famiglie conosciute come facoltose e potenti e la sua era stata un tempo certamente appartenuta a quella ristretta cerchia, peccato però che quella condizione rappresentasse ormai solo un retaggio, una convinzione popolare e basta.
Per essere onesti, Gianmaria doveva ammettere che la sua vita era andata piuttosto bene fino al primo matrimonio. La laurea in economia, una barca a vela che accudiva più di ogni altra passione e che utilizzava come pied-à-terre per le ragazze mosse dall'ambizione di accasarsi. Lei, la prima moglie, invece aveva origini nobili e poco la incantava lo stato sociale di lui, rimase invece colpita dalla erre moscia che giudicava uno dei difetti più sensuali nel genere maschile. Presero a trascorrere i fine settimana in barca e, tra un attracco, uno sciabordio e un costeggiare, si ritrovarono sul punto di diventare genitori. Gianmaria aveva ancora bene in mente il fasto di quel matrimonio che si rivelò la replica in miniatura di quelli reali che riempiono i tabloid inglesi. Suo padre aveva dato fondo alle ultime risorse pur di tenere alto il nome della famiglia e pur di evitare che gli illustri consuoceri facessero sentire l'amato figliolo economicamente debole di fronte alla novella sposa. Il colore delle tovaglie di raso che cadevano fino a terra, i contenitori di fiori recisi che inebriavano di profumi e colori gli invitati della miglior borghesia cittadina e, qua e là, qualche titolato che dispensava lustro sui partecipanti più anonimi, oltre a decine di colombe cui era concesso, data la circostanza, di banchettare anch'esse, quel giorno insomma tutto era perfetto, proprio una cartolina d'altri tempi da mettere come segnalibro nel diario della sua vita. I dieci anni che seguirono non furono costellati da eventi significativi, sua moglie aveva continuato ad occuparsi delle attività consone al proprio rango, dedicandosi di più ai bambini (nel frattempo era arrivato il secondo figlio, non più frutto del dondolio della barca a vela bensì delle vacanze sulla neve in Svizzera). Gianmaria inseguiva quel “tenore” che non cantava ma che era necessario e senza scampo per mantenere uno status all'altezza delle aspettative famigliari. E, questo lo ricordava bene, lo aveva raggiunto destando grande ammirazione in suo padre, ricompensato da anni di sacrifici ben celati. Ah! bei tempi – pensava tra sé – mentre ora osservava il passeggero di fronte che esibiva un telefono di ultima generazione e dava ordini di acquisto di azioni per migliaia di euro, come se parlasse di chili di mele destinate ai maiali, incurante dell'avvertenza, esposta ben visibile sui cartelli sparsi un po' ovunque del convoglio, di tenere i telefoni spenti e un tono di voce discreto. Gianmaria sperava che in quel momento il suo cellulare non suonasse per evitare di estrarlo dalla tasca dell'impermeabile ed esibirlo così malridotto e datato di almeno cinque modelli precedenti quelli del suo compagno di vagone. Ma chi lo avrebbe potuto chiamare se non qualche creditore o sua sorella, l'unica che ancora lo sosteneva? Le campagne piatte sembravano voler accompagnare la sua stanchezza come una musica segue lo spartito che la descrive, sfrecciavano davanti ai suoi occhi fissi all'orizzonte, alternandosi ai pochi stabilimenti imponenti dei quali (la maggior parte di essi in verità) Gianmaria conosceva la storia finanziaria. Si occupava infatti di acquisizione di aziende, e proprio per questo avrebbe potuto svelarne le situazioni patrimoniali e raccontarne i personaggi che le dirigevano. Ma erano un terreno divenuto arido per lui ormai, perché in quasi tutte era stato fatto il necessario per rimetterle in sesto o per ingrandirle e il suo intervento non sarebbe più stato richiesto. Eh già, in pratica il povero Gianmaria poteva considerarsi un inoccupato (termine che addolciva lo stato oggettivo della sua preoccupazione economica ma che non ne cambiava la sostanza). Mentre la regione vicina offriva ancora qualche opportunità, anche se la recente crisi economica e la sfiducia degli investitori aveva assottigliato pure lì la speranza per lui di iniziare qualche buon progetto.
Ma poiché era un curioso ed anche un uomo dal cuore avventuriero, non disdegnava mai di aprirsi a nuove opportunità, convinto che la vita riservi sempre gradite sorprese agli audaci. E così, si gettava in nuove conoscenze, come fosse un sasso buttato nell'acqua che generi cerchi continui. Quella sera, dunque, avrebbe partecipato ad un incontro organizzato da un'associazione perché persone eminenti nel mondo finanziario ed industriale si incontrassero facendo nascere nuovi progetti utili all'attuale società.
Il passeggero in fronte a lui aveva proseguito la propria telefonata parlando ad alta voce di mercati emergenti, di ricchezze future e di viaggi tra l'America e l'Africa. Così Gianmaria, con lo sguardo fintamente assorto a contemplare il profilo lineare della pianura, ascoltava e sognava. Sognava un'opportunità che potesse finalmente trasformare la sua vita in un riscatto per le fatiche professionali fino a lì provate, ma soprattutto sognava tanto, tanto, tanto denaro. Quando il binario sotto i suoi occhi si fermò e vide le persone alzarsi ed uscire dal treno, Gianmaria interruppe quel sogno, si infilò l'impermeabile sgualcito, si aggiustò la cravatta (quella che riteneva fosse il suo portafortuna) e si incanalò, assieme a tutti, lungo la banchina per lasciare la stazione.
Si muoveva bene in quella città che non era la sua, recentemente aveva imparato anche a utilizzare i mezzi di trasporto dal momento che servirsi dei taxi sarebbe stato troppo dispendioso per lui in quel frangente. Si sa, d'altronde, che la fame aguzza l'ingegno. Gianmaria era un uomo che ispirava fiducia, forse grazie a quella barba che lo rendeva personaggio affascinante anche per gli uomini, forse per il suo modo di esprimersi sempre riflessivo e per quella impercettibile erre moscia che gli conferiva un non so che di nobile. Il palazzo scelto dall'associazione era centrale, con fregi liberty, vetrate un po' tetre e grandi scalinate, e tutto l'insieme conferiva un senso di timore a coloro che ne varcavano gli spazi interni. Ma in Gianmaria non procurò alcuna reticenza bensì una incredibile voglia di scoprire nuovi volti e nuove opportunità professionali.
E così, come era solito in certe riunioni, si spostava da un tavolo all'altro studiando le persone che vi si avvicinavano, tenendo un calice in mano e infilandosi con discrezione tra i partecipanti per prendere uno stuzzichino, facendo bene attenzione a non disturbare coloro i quali (aveva imparato da tempo che ve ne sono sempre in quelle circostanze) facevano barriera impedendo l'accesso ai ricchi piatti di portata.

Daniela Vasarri

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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